
Marcello Mastroianni nella scena finale de “La dolce vita”
Critico letterario, teatrale, cinematografico e di costume, scrittore, sceneggiatore, giornalista, Sandro De Feo ha contribuito ad inventare, insieme con Fellini, Flaiano e Brancati, il mito italiano e poi internazionale della “dolce vita”. Di origine pugliese (nato a Modugno, in provincia di Bari, il 18 novembre 1905), fu una presenza importante e per molti versi proverbiale della cultura romana degli anni ’50-’60. Aveva un temperamento “mediterraneo”, sensuale, arguto, polemico, armato di scetticismo e venato di nevrosi. Un meridionale trapiantato a Roma e compenetratosi con la sua anima barocca e indolente: amava definirsi “romano jonico levantino”. Scrisse su varie testate, tra cui «Il Messaggero» e «Il Mondo». Poi, dall’ottobre 1955, su «L’Espresso» di Arrigo Benedetti, curando la critica teatrale. Lo ritroviamo – nelle vesti di se stesso, nome e cognome – in almeno due tratti dell’opera di Flaiano: nel racconto Il palloncino del 1948 (De Feo ha appena acquistato un giornale sotto i portici di Piazza Colonna, sotto il cielo bellissimo di un tramonto romano autunnale); e nel celebre Un marziano a Roma (figura, insieme a Pannunzio, tra gli scettici che si affrettano a negare la notizia sconvolgente). Anche Leonardo Sinisgalli gli dedica un “Ricordo” poetico nel volume Dimenticatoio (1978): «Pensa un verso per la mia morte, / scrivi che fui amico dell’aria, / mi piacque andare col libro aperto / a leggere nei giardini. / Voglio una lapide e un fiore / spiritoso nella spaccatura» (“Ricordo di Sandro De Feo”). Con la Città Eterna, De Feo sembra intrattenere un rapporto ambiguo e controverso: la odia e la ama “da impazzire”, vorrebbe fuggirne ma non può farne a meno. Scrive ne Gli inganni, il suo primo romanzo, del 1962: «in una città come Roma io posso trovarmici a mio agio anche quando mi annoia, e spesso mi annoia da morire, anche quando i suoi venti molli mi riducono uno straccio come fanno oggi, solo perché mi si ci sono trapiantato tanti anni fa con una o due radici (…) Ma strapparle da me vorrebbe dire alienarmi non solo dalla mia natura e da me stesso, ma anche da Roma e da tutto».
Roma gli è insopportabile, quando lo è, per il “clima orribile” che prostra gli abitanti e i forestieri, per lo scirocco sfatto e appiccicoso che scortica i nervi e crea angosce, fantasmi, allucinazioni. De Feo ha una vivissima coscienza meteorologica, anzi meteoropatica: «il mio sistema neurovegetativo la sa più lunga degli esperti dell’osservatorio di Monte Mario sulle serie meteorologiche di Roma, durerà un’ora o due, poi la cupola si richiuderà e tornerà la disperazione nel petto, nelle gambe, e la nebbia sugli occhi». A Roma l’aria è così “piena d’acqua” che il rogo di Giordano Bruno (17 febbraio 1600) stentò ad ardere in Campo dei Fiori. «Non piove, ma i tetti delle automobili e le cupole di Roma grondano acqua come se stesse piovendo, e io mi accorgo di avere addosso i milioni, i miliardi di chilometri quanta è lunga la colonna d’aria, di atmosfera, di stratosfera o che so io che dalle mie spalle e dalla mia testa si diparte all’infinito». La vita, sotto questa madida campana di cieli, sembra “un film al rallentatore”. La «mollaccia romana» è un portato atmosferico che si comunica ai gesti, impigrendoli, e alla scrittura stessa – quando se ne lascia contagiare –, concedendole un’aneddotica cinica, indolente e «senza fretta», un ritmo profondamente romano che traluce dalla semiotica complessiva (idioletti, posture, cinesica, prossemica, tratti soprasegmentali) espressa dalla recitazione inconsapevole in cui si producono personaggi tipici come bulli dal collo taurino, ciumachelle dagli occhi ridenti, ex bellone deformate dall’adipe eccedente, inquadrati nel contesto di osterie e trattorie “sentimentali”. Tutta colpa dello scirocco, il turbidus auster degli antichi, il più romano di tutti i venti, «che s’installa per giorni e settimane tra questi bei colli maledetti, e a un certo punto pare proprio che voglia prendere congedo, il cielo è quasi pulito, c’è persino un po’ di fresco, ed è invece il momento peggiore, quando lo scirocco non è più neppure scirocco», e allora gli occhi e la bocca si riempiono «del pulviscolo radioattivo dell’atmosfera, non quello delle atomiche, o non quello soltanto, ma l’altro più amaro e cattivo che esisteva già prima delle bombe; uno scrittore che fa il pascaliano e l’esistenzialista lo ha chiamato: poudre eternelle des cieux, e nel cielo di Roma ce n’è più che altrove».
Viene in mente una canzone di Mario Soldati (“I hate barocco, I hate scirocco, I hate Roma”), interpretata negli anni ‘60 dalla “Giaguara” Laura Betti. Solo con l’arrivo della tramontana ai romani torna la gioia di vivere; altrimenti è aria di spossatezza, noia, inanità, quando regna – fin dall’alba del giorno caldo – “un caldo sporco e morto di palude e di tempi bassi”: «sono queste le giornate, è questa l’ora in cui i bagherozzi e le sorche di fogna si arrischiano all’ultima sortita avanti che faccia giorno, se ne stanno immobili, schiacciati dallo scirocco, ai piedi del canterano o accanto all’imbocco della fogna, è l’ora in cui le mantenute un po’ sfatte degli uomini di chiesa, degli appaltatori e del generone si rivoltano sull’altro fianco e si scoprono nel sonno togliendosi di dosso il lenzuolo zuppo di sudore, è l’ora in cui il ladro sparuto con l’ulcera allo stomaco ferma la macchina rubata, con dentro la magra refurtiva, nella viuzza dietro i Banchi Nuovi, e nello scendere si guarda attorno come un ladro, ha le mani sudaticce in tasca, una stringe gli orecchini d’oro con i brillantini e la catenella con la medaglia, l’altra il manico del coltello per ogni evenienza, ed egli va al portoncino e aspetta che scenda ad aprirgli il ricettatore feroce, ed è l’ora in cui nelle chiese trasudano più che mai le belle sante barocche e gli angioloni di marmo giallo come per fumo di nicotina, dalle grandi cupole l’umido cola a rivoli, nei gabbioni altissimi dello zoo le aquile, i grifoni, gli avvoltoi sono furenti, e le foche abbaiano disperate perché non è rimasto che guazza calda come un brodo e neppure un filo di vento e di speranza sotto il cielo di Roma». Tutto ciò contribuisce al “manierismo molle e crudele” di Roma; per cui è «assolutamente vero che Roma è città eterna, nel senso che essa eternamente macina e tramuta la sua realtà in repertorio (…) sicché tutto di lei appare falso, anche i morsi al naso o la stretta ai testicoli, e però si tramanda e dura, così come tutto appare falso ma si tramanda e dura in un repertorio». Proprio come accade al marziano di Flaiano, che suscita clamori e stupori solo i primi giorni dopo il suo atterraggio a Villa Borghese, ma poi scoccia e annoia (oggetto di ironie smitizzanti, di beffe, addirittura di pernacchie), rimasticato ormai a guisa di “notizia vecchia” dalla coscienza onnivora e insaziabile della città, che ne ha viste e vissute di tutti i colori e che, quindi, è in grado di assorbire qualunque fatto (anche il più incredibile) come il più normale. È questo il segreto di Roma che si svela allo sguardo indagante del provinciale inurbato: la sua essenza di impunità, di cinismo indolente e irriducibile. De Feo, peraltro, esplora Roma con la precisione di un pedone attento che un po’ ha imparato con impegno a conoscerla bene, via dopo via, e un po’ si compiace nel darlo a vedere. Eccone un esempio: «sono arrivato all’angolo che la via Nomentana fa all’undicesimo chilometro con la via secondaria di campagna chiamata di Casal Boccone, la stessa dalla quale io giungevo dopo aver lasciato la Salaria (…) Quello è un incrocio funesto, parecchie disgrazie vi sono accadute, dall’altra parte della Nomentana c’è la via San Basilio che la raccorda alla Tiburtina, poco più in là la fermata di una linea di autobus di borgata, e insomma c’è sempre gente e traffico di veicoli e, con la buona stagione, il carrettino del cocomeraro e la baracchetta del bibitaro non fanno che accrescere la confusione». Questo demone topografico di nominazione dei luoghi romani non impedisce, talora, il respiro diverso e più vasto della trasfigurazione poetica che slarga e fa emergere – così, a schiaffo – l’austera, misteriosa bellezza della Città Eterna, come la freschezza di una luce sconosciuta da raccogliere, in spiccioli d’oro, dal fondo dello sguardo. Ecco ad esempio piazza S. Pietro, «la mia bella piazza San Pietro che non solo mi pare più bella di tutte le altre, ma m’intenerisce più di piazza Navona, di piazza del Popolo che sono piazze cittadine, hanno intorno case e giardini di città, mentre piazza San Pietro, non importa che sia così grande e solenne e che la città sia tanto cresciuta alle sue spalle, ma il cielo e lo spazio dietro di essa, per uno scherzo o un inganno geniale di architettura, continuano ad essere vuoti come quando la prima chiesa fu qua innalzata in piena campagna, sono ancora cielo e spazio aperti e umili di campagna imminente, si direbbe che basti attraversare il portico per cogliere le fave e la lattuga subito dietro le colonne». O il fascino eterno della campagna romana: «Dalla Salaria mi sono messo, per stradette interne di campagna, in quella parte dell’Agro, tra Monte Sacro e Monterotondo, dove la campagna romana ha più che altrove quell’aria di vastità remota e di prisca, scontrosa rusticità che mi piace tanto». O il profilo della città lontana – vista dall’alto (da Villa Adriana a Tivoli) – reso incerto dai vapori dello scirocco, nel vento silenzioso e basso del tramonto: «A occidente, sul pelo dell’orizzonte, sull’ultimo barlume che palpita un poco e poi anch’esso è inghiottito dalla sera, Roma è come un grande falò».
La percezione che nel libro si ha di Roma nasce, certo, dal clima culturale e filosofico dei primi anni ’60 (le tematiche dell’assurdo, l’incomunicabilità, il rapporto del soggetto con le cose): lo stesso humus da cui emergono capolavori come La noia di Moravia e La dolce vita di Fellini. Proprio alla luce della “bella confusione” felliniana si lascia leggere lo “zoo di via Veneto” (De Feo era tra i più assidui frequentatori di quei caffè) con la sua variegata fauna umana deformata in chiave grottesca come osceno “carnaio”: «Vedo ovunque scimmie, cacatoa, vedo tribadi assire, visigote, dame della Papuasia, della corte della regina Taitù, come solo si possono vedere in un film di Cinecittà, solo nei teatri di posa romani (…) È così romano lo spettacolo, così connaturato all’eterna decadenza di questa città, e talmente il cinema è diventato il fatto di gran lunga più importante e vivo della cultura della decadenza romana, che non solo mantenute e mantenitrici, puttanelle e puttanone indigene, e gli efebi indigeni, disossati, con la zazzeretta canarina ottenuta con l’ossigeno, non solo i cittadini romani di quest’ultima e più che mai sfranta decadenza di metà secolo, ma anche i barbari che hanno ricominciato ad affluire a Roma, sbarcano a Fiumicino e la sera si ritrovano in via Veneto, le matriarche americane di cinquant’anni con corpi di diciottenni e le gonne salite, nel sedersi, fin sopra le giarrettiere, le spie mongole col cranio rapato a zero e i baffi rossi spioventi, i politicanti indonesiani con gli occhietti come piccole olive nere, i cospiratori africani col viso lucido e il crespo imbrillantinato sul cocuzzolo, tutti sembrano pronti e i attesa di girare la scena di un film di baccanali, hanno l’aria, sotto la pensilina verde, di aspettare l’arrivo del treno che li porterà a Citera».
La spietata descrizione della Roma centrale e ufficiale, illuminata dai riflettori del cinema e dai flash dei paparazzi, non esclude però la scoperta della città “altra”, povera e periferica, censurata più che dimenticata, come quella dominata dal “casone stravagante” di Cecafumo, in fondo alle campagne del Tuscolano: «era la prima volta che aprivo veramente gli occhi su quella Roma tremenda, informe, quella lebbra, quel magma di cemento che è cresciuto intorno alla Roma dove sbarcai bambino quarant’anni fa, in qualche punto non arrivava neanche alle mura, c’erano orti e grandi ville solitarie tra le ultime case della città e la cinta delle mura. Ed è l’immagine esclusiva di quella Roma o il suo schema: pietra fulva dei grandi palazzi, acqua gialla del Tevere e del vino dei Castelli, scirocco, gatti, denti cariati dei Fori, cupole tonde e larghe come i mezzi globi della mia balia giovanissima che sono rimasti sul punto più fondo della mia retina (…) – è questa immagine, questo schema carnale e animale di Roma che ha continuato, in tutti questi anni, a censurare le immagini dell’altra Roma che le andava crescendo attorno fatta di fango impastato». Resta indubbio, infine, che su Roma tutta (centrale o periferica, ricca o povera, mondana o negletta) incombe la speranza di uscire – ancora! – dal torbido mollume dello scirocco, snebbiando lo sguardo e la mente nel cristallo di un cielo nuovo da respirare: «un bel mattino, aprendo il balcone e uscendo sulla terrazza del piano attico dove abito, vedrò il cielo pulito e celeste dietro la cupola di San Pietro, allora tutto sarà più facile, voglio dire che sarà più facile resistere a stare al mondo».
Marco Onofrio