Nel dvd amatoriale la ragazza nuda veste il kimono come infilarsi una conchiglia. Con la mano destra lo prende per le aperture estreme, cioè la sezione in fronte ai due lati che si dilatano. Tenuti i due lembi solleva il kimono fino alla distanza di cinque centimetri da terra, con la sinistra lo ferma anche sulla schiena tramite un dito, al centro della colonna vertebrale. Adesso chiude il kimono da sinistra a destra e conserva la medesima verticalità. Mette la prima cintura che, posizionata sotto la piega presto ottenuta ne blocca l’altezza, rilega un nastrino laterale e prova a far rientrare dentro questa cintura i tessuti esclusi. Tocca la coda o la testa dell’obi tra le mani, misura un paio di volte il palmo steso e lo ripiega a sé una volta per conservare stoffa che poi servirà. Da sotto il seno appoggia sul kimono l’obi a partire dal davanti. Inizia dalla parte ripiegata, lo gira due volte in vita e quando finisce, proprio al punto di partenza, fa uscire con cura la fetta di stoffa conservata e l’annoda con lo scampolo rimasto. Per poco inserisce la stoffa dentro il kimono a livello del seno poi prende la parte rimasta, più lunga e la ripiega in due, stringe il centro per fare il fiocco. Ora fa uscire la stoffa conservata e la passa al cuore della legatura fino a quando può. Compiuto il nodo lo volta a destra per collocarlo sul retro e saluta. Il kimono conta numerosi accessori che lo rendono complesso da indossare. Oltre all’abbigliamento completo, cioè tabi, le calze, geta, i sandali e i kanzashi, ornamenti per capelli, esistono compendi invisibili che possono divergere a seconda delle varietà. L’abito indugia un suggerimento e gli addobbi lo solidificano in modo netto, sia in composizione sia in tinta per raggiungere l’efficacia nell’incisività semplice. La cornice ambientale ispira la tunica giapponese, i kimoni sono design d’un eden, appisolano agli alluci colline che assonnano lune e brillano i nespoli ventagli di fronde su ragnatele d’armadi. Non basterebbero le serie delle Sainte Victorie di Cezanne per sabbiare nella clessidra il diagramma del kimono verso la chiarezza spiritualizzata. Il calcolo corporeo si timbra ordine profondo e nell’unità architettonica del tessuto esplicita l’eleganza del gesto. Il piglio di forza plastica s’impone senza vibrazioni ariose e le densità difformi ne riassumono la gentilezza di abito d’occasione. Yukata resta kimono primaverile e estivo: di cotone, lino o canapa, può essere indossato da tutte le donne senza distinzione ed è molto informale. Furisode è solenne e con maniche molto lunghe, portato dalle nubili spesso decorativo. Iromuji è il kimono della cerimonia del Thè, ma può essere usato altrove, in tinta unita sia per nubili sia per sposate. Komon è decorato con motivo ripreso ovunque, confidenziale e senza alcun limite d’età. Kurutomesode, nero e dipinto sotto la cintura, il più cerimonioso in assoluto lo sfoggiano le maritate durante i ricevimenti. Irotomesode, non troppo legato all’esteriorità ha tinta unita, cromaticamente lontana dal nero lo si riserva alle mogli. Houmonji è decorato sulle spalle fin sotto la cintura, indistinto al femminile; vicino e facile a confondersi Tsukesage, nonostante i suoi paramenti siano meno vistosi e prevalgano sotto l’obi. Sull’imbuto rovescio del Monte Fuji,
Katsushika Hokusai trova l’essenzialità sartoriale del kimono nella brusca definizione delle membra, posa il peso del gran massiccio sul meteo variabile o nuvoloso di località portuali e piane, assoggetta il cono divaricato della montagna. Fuji si abbrevia audace da imporre l’astratto che solo tenerezza di celeste riesce a mitigare. Hokusai è il pittore di gigantografie tanto enormi che un calesse può gironzolare sulle loro bocche e nasce a Yedo, l’odierna Tokio, tre secoli fa. Tremila quadri dipinti fino alla soglia dei novant’anni lo incoronano Leonardo di Nagoya. Prono a pelle di leopardo sopra i suoi cataloghi crea l’effetto suggestivo, invidiato perfino dalle vetrate delle cattedrali. La fisiologica dipendenza di Hokusai per il Monte Fuji ipotizza la provocazione riconciliata dell’abaco molesto di inconsci desideri. Tutto per timore d’impulsi che, una volta liberi di scatenarsi in cartoline e stampe di fantasia, lo hanno portato a riprodurre precedenti pulsioni irruente. Nelle diverse collocazioni del promontorio estrae una vasta gamma di lemmi interiori, da grave a contemplativo, da erotico a estatico. La schiera di montagne padroneggiate gli proietta specifici ancoraggi con l’esterno, solitudine di comunanza, concordia e serenità esuberanti di lussuria lo esaltano al godimento. Sibaritica, la figura femminile stimola e da riproduzione diafana promuove succosi attributi nel Sogno della moglie del pescatore. La giovane supina e intubata ai lombi dal polpo mastodontico non s’anticipa stunt woman nell’hardcore di Cicciolina e il cavallo bensì meditativa moralità confessata; l’abitudine al Fuji si fissa dunque nella precocità dei suoi iter, prima di imporsi miliare. Il tran tran di eccelse intensificazioni assolve una modestia che trionfa ottava meraviglia, si relaziona all’integrità prediletta con il monte del mito, gli conferisce ludica sovreccitazione e allude al lido dell’appagamento, striscione di traguardo professionale. Fuji è il frutto proibito che promette e iberna l’immortalità. L’uomo può eliminarsi, venir infilzato o crepare d’infarto ma mai sconfitto Hokusai anticipa l’epilogo alla fabula. Svela il colpevole, abilitato ai thriller che si diletta a scrivere: Fuji è il pene terminale, perenne samurai graziato, vulcano spento ma sempre cratere non s’affloscia con l’anziano campione sportivo, battuto per la prima volta nella finale di partita de Il maestro di go.
In La grande onda di Kanagawa il maroso pelagico è aggressivo, in procinto di seppellire oblunghe barchine, se le increspature lineari suggeriscono lo spumeggiare cinetico della minaccia allora negano maternità allo tsunami. Il mare di Hokusai è manga unto che procede col sincopato randagismo delle onde. Azzurro turchese, blu e viola o bigio ceruleo rispecchiano il talamo del cielo, se la sua agitata trasparenza è ciuffata di chiare creste olea riflessi indaco o dorati, telaio sbava lo specchio che lambisce rive, cuoce alghe e assottiglia balene. Il mare sobbalza e spicchia vele con cento tavole illustrate anche quando è increspato da brezze. Paravento sull’oceano, il Fuji s’inasta cannocchiale innevato d’ascesa senile e spermatica, guardone dietro i peschi del paesaggio levantino.
Michele Rossitti