Una ladra che fruga nella realtà: la Vocazione di San Matteo. Quando la lucerna di Caravaggio si perdona misericordia, di Michele Rossitti

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Omicida, perverso e pervaso di vessazioni spese tra lo sfarzo raffinato dei palazzi romani del Primo Seicento e i reietti delle suburre ma diamanti del Signore, sgherri o prostitute. Cliché creato ad hoc da biografi prezzolati, se sfrondato dagli intenti di parte fa emergere un fedele a linee che contrastano l’indirizzo delle istituzioni del suo tempo, non la morale comune. Fin dall’esordio estimatori potenti ne promuovono le idee, poi l’estro. Il cardinale Del Monte, Vincenzo Giustiniani, i Mattei sono parte della farragine dove fermentano uguali trafile investigative che l’Inquisizione perseguiterà, Galilei e Bruno, eserghi della stessa moneta.

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La Vocazione di San Matteo svela un set pasoliniano ed è il “razzo Katiuscia” di Michelangelo Merisi. Ogni singolo aspetto appare compenetrato e interdipendente dove lo strappo esistenziale, per scelta, si attua con l’impiego significante e costruttivo della luce che investe e s’aggiudica il manto di Simon Pietro che copre Cristo. All’autore non importa chi sia Levi Matteo nei sinottici, gli basta dire che è l’illustre sconosciuto ripreso mentre svolge un’azione di routine giornaliera. Una scena familiare allo scenografo, un esame che sempre lo affascina attraverso quanto gli appare congeniale e permette di dar conto della verità senza soppalchi di nozioni tradizionali. Una persona sfida a morra, beve, si vende, però i dadi che maneggia allibrano solo nella comparazione col presente, il saputo. Le storie passate o di posti impervi e impraticabili, soltanto attraverso la consuetudine che è più prossima all’individuo nella normalità oggettuale, attiva, sentimentale, possono venir restituiti alla vita. La sintesi di diversi ambienti, “strada” e “locanda” si deve quindi risolvere in un indizio raffigurato da più comparse. La scena prende corpo intorno al braccio di Gesù che indica verso Matteo e trova eco nella posizione del futuro evangelista, posto in risalto dai personaggi che lo circondano. Il gesto simbolico di Cristo e il coinvolgimento tra i due gruppi è rinsaldato dal fascio luminoso che si compie sopra la testa di Gesù. Espediente mirato contesta l’attrito finto degli abiti moderni di Matteo e compagni, soprattutto i rari attributi divini del nuovo seguace, scalzo e in un mantello largo d’ispirazione manierista e Cristo, appena riconoscibile dal finissimo filamento dorato che gli sovrasta i capelli. Una conduzione trasparente testimonia la luce della grazia che in un lampo congela posizioni espressive di ciascuno e le decide ruoli in aree astratte e atemporali. L’aureola sospesa sulla testa di Cristo a indicarne la divina natura è laicamente appena riscontrabile perché l’incontro con Dio avviene in luoghi inaspettati, la vera grazia è nei cuori dei pregiudicati che lo sguardo superficiale del benpensante processa indegni. Inoltre la chiamata superiore non esclude alcuno ma rende libere le orecchie della coscienza d’aderirvi o respingerla per scegliere salvezza o dannazione. Dei cinque al banco, Matteo e i due giovani a destra s’accorgono di Gesù in un complesso gioco oculare. L’anziano con gli occhiali e il paggio a capo tavola sono troppo presi a contare gli introiti per accorgersi dell’accaduto. Mancano riferimenti sacri, è scena di genere. Grazie alla luminosità le figure risaltano e staccano dalla tetra penombra del locale per modellarsi nel singolo particolare reale e ideale. Il bagliore proviene da un’entrata che dà all’esterno, la porta che ha ispirato l’ingresso a Cristo e Pietro, giallastro sventra la penombra dell’osteria in squallore, tipico dei ritrovi lungo il Tevere che l’artista frequenta. S’irradia dalle spalle di Gesù che con tensione d’arto lo proietta sui presenti, prima rischiarati poi accesi. Il Figlio dell’Uomo è mosso dalla misericordia che scova maledizione sociale dentro il gabelliere per rispondergli a un bisogno più oneroso, l’annullo della lebbra escludente fonte di colpa, cioè accoglierlo nei Dodici. La fiamma parca di amore santificato da carità brucia con lo sprazzo del “Vieni e seguimi”: il tugurio blasfemo e scurrile divampa fucina per incendiare il cuore redento, ossigeno di vita mansueta al soffio del Verbo infuso nell’anima. Infamato e crocifisso al ludibrio durante le sue peripezie alla maniera dei pezzenti eletti nei dipinti, lasciata questa valle di lacrime, Caravaggio conquista il fioretto di Zorro della tavolozza povera e sciolta, castigata dal rigore accademico senza i vizi condizionanti del Rinascimento, capace di essere “bella perché vera” e non più “vera perché bella”.

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Riescono il Bacchino malato e un Fanciullo con canestro di frutta a maturarsi autoritratti impietosi o sensualizzarsi in presunti favoriti, musici, pueri cantores e voci bianche di castrati appetite dalla libidine di porpore represse, accendere Porto Ercole nel litorale tirreno che ha disgregato i teschi di Palinuro, Shelley, Nievo? Risalgono sirenici baie concettuali fino a inquadrare le roccaforti dialettiche della contemporaneità, dal Piss Christ di Serrano ai baby- impiccati di Cattelan. cache-cache_194d8721736f745d388d69d112de08bc_f039e349ad1b7746433b1476bb5c6aa5Può, restio e antagonista, il fan di Grazia Varisco e Duane Hanson passeggiare a Galleria Borghese o visitare Cappella Contarelli senza veder ispessire i nei del melanoma che aveva sottovalutato da giovane? Una scommessa sulle fattezze di Pelosi dopo Ostia, interscambiabile fotomontaggio del Bacchino e Fanciullo, è rebus irrisolto. Soluzione ingenua esibisce il passaporto patetico che si misura dalla sua durata e dalla ruggine di rinsaldarsi lega inox a convinzioni proponibili, a mode: affacciare perpetua una novella fisionomia mai convalidata.

Michele Rossitti

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