«Un sorriso delicato con una punta di ambiguità attraversò il volto di Mascara mentre si spogliava. Peter pensò la meraviglia proibita di una casa rustica sul mare, un muro alto, assolato, coperto di rampicanti, le persiane chiuse contro la calura estiva. Immagini prese da dipinti di epoche lontane o forse da storie di Nostalgia gli rivelavano la malia di una leggiadra e spensierata cornice del vivere. Le gite in barca al lago, quel tenero collo sul quale poggiare le labbra, la sua figura sfuocata nella penombra della stanza, e lontano oltre i vetri il riflesso delle cupole stagliate all’orizzonte, avvolta da leggeri fiocchi rosa o sferzate da essi, un vero spettacolo che rendeva ancor più caldo e familiare quel luogo. La baciò e fu stordito dall’acre e snervante odore di lei, si tolse gli abiti e scivolò nudo su quel corpo caldo. Avvinti l’uno all’altra, attirati lungo le deliziose spire del piacere, giunsero al culmine dell’estasi e compresero in quel momento come tutta la loro vita fosse allo scoperto. Nel pallido cielo della sera le cupole illuminate da un tenue chiarore azzurrino prendevano il colore dell’argento brunito».
Si è appena letto un frammento significativo dal romanzo di fantascienza “filosofica” Zingari della galassia (EdiLet, 3ª edizione, 2013, pp. 312, Euro 13), di Luigi Gallo. Da queste poche e pregnanti frasi è possibile individuare, riflesso nel valore specifico della singola parte, il canone armonico e strutturale che pervade l’intero libro; e si avverte – in afflato atmosferico diffuso – la particolare qualità di facondia che anima la scrittura di Gallo, impegnando felicemente tutto il suo plaisir d’écrivain e spingendolo a darsi tutto, senza risparmiarsi, in ogni pagina. C’è già, atomizzata in quintessenza, la mitologia fondamentale di questo romanzo: l’inseguimento dell’Origine, il tema del Nòstos, e quindi la Nostalgia (etimologicamente da “nòstos”, ritorno, e “algìa”, sofferenza: struggersi per il desiderio del ritorno).
«Una leggera, imprevista frattura della contemporaneità nel flusso del tempo denudò una visione abbagliante che sprofondava verso l’Origine, un’infinita coesione senza termine».
Il fluido energetico che circola anche e soprattutto nel suono delle parole, facendole esplodere come bengala rutilanti sul filo delle ardite traiettorie, dentro e oltre la cresta dei pensieri, si riverbera – a livello di percezione – nei termini di una spiccata sensibilità verso il mistero, l’incanto, la rêverie cosmica, la sognante abulia, la sospensione ipnotica dinanzi alla bellezza (sacra in quanto demoniaca, maestosa, e però umbratile, fragile: inafferrabile) e alla sua riserva di senso, che nessuna indagine, per quanto analitica, si dimostra in grado di “esaurire”. Si pensa subito alla ricerca infinita della “bianca balena”, il «sogno da sempre sognato» che appare e scompare all’orizzonte. Per questo riflesso sfuggente l’uomo si fa uomo, nell’esperienza aperta della caccia, e sveglia l’Achab intrepido che dorme silenzioso dentro sé. Importa ovviamente il percorso che si affronta, più che raggiungere la meta: il mezzo, più che il fine. E il “mezzo” è lo stato mentale che accende la scrittura di suggestioni mitopoietiche, liquide, ondivaghe, circolari, ricche di ancestrale fluidità. Gallo punta il suo magnete simbolico verso il regno silenzioso delle Madri, l’«oscuro splendente spazio della notte» che si estende «al di là di tutti i tempi», oltre il limite non aggirabile dell’assoluto; e cerca il suo passaggio dentro il mare, elemento con cui sembra avere molta familiarità (leggere per conferma il diario di bordo recuperato dal relitto della barca “Zingara”, riprodotta fantasiosamente in copertina). Ed ecco, nel buio immenso delle profondità, l’allucinazione mitologica dell’oceano, e la memoria sconfinata dell’abisso. Gallo scrive di «vapore luccicante», di «addensarsi profondo della natura», di «forma primordiale», di «divinità fluida come il pensiero», di «reminiscenza ancestrale», di «ricordo mitico di una bellezza pura»:
«Questo luminoso canto oceanico proteggeva la propria fragilità con la delicatezza demoniaca del suo allettamento, un impeto sussultante che tramutava l’invisibile nel visibile».
Non è difficile cogliere l’impronta estetica sublime che emerge dal disegno delle pagine: bellezza e orrore sono fiori della stessa radice, e l’armonia dei contrari rende visibile, in filigrana, sia lo splendore proprio della tenebra, sia, viceversa, l’oscurità potente della luce. Nell’oblio smemorante-rammemorante del mare (dove ricordare è dimenticare) trapelano palpiti e richiami di voci come echi remoti di un’antica bellezza, e il riflesso di un «fluido serpente mitologico» che avvolge e unisce ogni esistenza. Sospira, intrinseco alla narrazione, un poema di versi inconsapevoli (more “De rerum natura”) plasmato da una tensione elementare che si traduce in abbraccio cosmico, e in uno sguardo occhiuto che si muove agile tra dimensioni macroscopiche e microscopiche della materia, ispezionata fino ai palpiti segreti degli organismi, dei corpuscoli, delle cellule, in fondo a spazi che nessuno sa. La scrittura di Gallo pattina spesso «sul filo del nulla, sotto la spinta e la vertigine di un vortice di mondi sconosciuti». C’è un oceano di silenzi da attraversare, scavalcando la resistenza fisica e semantica della materia, oltre le barriere invisibili che separano gli spazi concreti dell’esperienza da quelli incorporei dell’astrazione.
Il motore nascosto del romanzo è il confronto con l’ignoto, che produce attrazione vertiginosa e istinto di avventura, voglia di sfondare l’azzurro del cielo alla ricerca di una vita finalmente libera, autentica, felice. L’inseguimento dell’Origine punta anche gli spazi siderali, oltre che marini: certe nicchie di cunicoli intorti, gonfi di silenzi spaventosi dentro chiocciole di imbuti elicoidali, fanno pensare al cielo come “utero cosmico” e dimensione della psiche profonda, dove compiere il viaggio alla ricerca di se stessi. Ventagli giganteschi di nebulose, bagliori apocalittici di supernove, abissi lampeggianti di costellazioni: è anche attraverso lo sgomento indotto da questo spazio monstre, poggiato sul nulla e privo di centro, che si rende percepibile il respiro misterioso dell’universo. Il tema dell’Origine riporta il discorso al pianeta Terra, abbandonato dopo che la civiltà umana è stata spogliata di tutto, abrasa e depredata nella sua essenza. Il romanzo si snoda in una prospettiva da après le deluge: l’irreparabile è ormai accaduto. La tecnica ha liberato l’uomo dai vincoli della natura, ma si è rivelata un boomerang terrificante. La sempre più difficile sostenibilità delle scorie – al termine dei cicli di produzione e consumo – ha avvitato la biosfera dentro meccanismi irreversibili.
«Il gioco senza regole presto iniziò a degenerare. (…) Il rilascio di quantità crescenti di anidride carbonica provocò l’effetto serra e un brusco cambio climatico. Lo smaltimento di sostanze radioattive avvenne a spese dei paesi poveri, intere aree popolate da gruppi incapaci di opporsi allo scempio divennero discariche autorizzate dalla legge del più forte. (…) Le cose peggiorarono sempre di più, si firmarono trattati che le nazioni non rispettarono, si attuarono misure restrittive e sanzioni economiche. (…) Piccole e grandi tragedie ambientali si consumarono sul pianeta, gas tossici emersero dal fondo marino dei poli artici a causa dello scioglimento dei ghiacci, tifoni e uragani devastarono città costiere con una violenza mai vista in precedenza, black-out totali paralizzarono le grandi metropoli. L’inasprirsi del conflitto tra l’Occidente ricchissimo e i paesi asiatici raggiunse il culmine. Le organizzazioni terroristiche attentarono alle centrali nucleari, come da tempo paventato».
L’evacuazione in massa del pianeta, ormai inabitabile, è avvenuta duecento anni dopo l’età della globalizzazione. L’umanità è stata costretta a colonizzare le galassie, utilizzando il teletrasporto, le navi spaziali, i portali energetici di interconnessione tra i livelli del cosmo. Questo coté fantascientifico nutre l’appeal romanzesco di cui Gallo ammanta la sua forte e lancinante coscienza ecosofica: proietta dunque nel futuro (cioè nel post factum della finzione narrativa) la catastrofe che rischiamo di produrre oggi, quando ancora saremmo in tempo per scongiurarla. È uno sguardo struggente e “purgatoriale” quello che accarezza, lontano nello spazio e nel tempo, le dolci memorie della terra quando ancora non era desertificata, ovvero
«un paradiso di alberi, fiumi, campi, montagne, mari, città e paesi, abitata da pesci che guizzavano tra spumose fughe di bolle in cresta alle onde, uccelli che solcavano lo spessore di vago cristallo dello spazio azzurrino».
Ma c’è pure un coté politico, che si produce come riflessione sul bene comune, sulle organizzazioni e le strutture sociali, sui confini della libertà dell’individuo. Il governo centrale galattico ha stabilito la rieducazione globale dell’uomo, per estirparvi la “mala pianta”, cioè il sentimento velenoso dell’invidia, e piegarlo a un nuovo modello di convivenza. Dal crogiolo della post-histoire uscirà finalmente l’uomo buono, addomesticato alla pace, alla fratellanza, alla solidarietà, all’ordine e alla concordia universali. Importa il modo, più che il fatto in sé. E il modo scelto per raggiungere questo obiettivo è artificiale, teorico, cerebrale: non ci si perita di soffocare la natura intrinseca dell’uomo, imponendogli un apparato sempre più stretto di regole e relative sanzioni. Il governo centrale galattico ha ripudiato le leggi universali della creatività, le attitudini guerriere e venatorie dell’uomo, il suo istinto naturale di avventura e conquista; si è voluta imporre una vita falsa e pericolosa, cioè inautentica, che nasconde una violenza terribile sotto il velo dei buoni sentimenti, e un controllo costante degli individui, con strategie di lavaggio dei cervelli e campagne di residua epurazione. Le potenzialità umane sono state livellate nel grigiore di un volere tranquillo e soddisfatto. E invece la vita va altrove, sfugge, “non cape”. Scrive Gallo: «Il mondo è un grande ammasso di casualità, e la casualità è un ingrediente indispensabile della creatività». E ancora: «Tutta la linea evolutiva ci costringe a trovare relazioni tra elementi di cui ci sfugge la continuità».
Il “programma nostalgia”, ideato e attuato per il recupero affettivo dell’Origine (la terra perduta come radice unica e strumento di armonizzazione), si rivela un enorme fallimento. Gli oggetti abbandonati nelle città e nelle case, recuperati con le carrette dello spazio e venduti nei mercati del cosmo, hanno prodotto forme di nuova idolatria, e impulsi cleptomani irrefrenabili, originati da un desiderio morboso e competitivo di possesso. «La gente sempre di più avrebbe voluto toccare con le proprie mani vestiti, mobili, cibi, dischi, tutti gli oggetti di quel passato struggente, e mitizzato». Il volto riemerge da sotto la maschera, trascinando tutti gli istinti più bassi e selvaggi, in primis l’invidia che inutilmente si è provato ad estirpare. La natura, cioè, non si può addomesticare con vincoli posticci: la natura reale dell’uomo e delle cose non è – in realtà – così pacificata, o pacificabile.
Nel sistema delle evidenze che presiede alla codificazione semantica e narrativa del romanzo, occorre annoverare anche un robusto coté scientifico e filosofico, che intreccia il libero flusso della creazione fantastica alle conquiste moderne della Fisica, al conflitto che oppone visioni riduzionistiche e complesse, alle ipotesi su universi multipli e paralleli, al rapporto tra materia e antimateria, alle remote sorgenti dello spaziotempo, alla ricerca di un’energia arcana, oltre le frontiere del conosciuto, e di un fulcro etico dell’uomo dove individuare la convergenza delle sue potenzialità. Si accarezza insomma l’ipotesi di un uomo nuovo, cioè rinnovato, capace di guardare all’essenza e di intuire – come gli antichi – il ritmo segreto inciso nell’oscurità della natura. Gallo dimostra doti di abile pensatore: il suo è anche un romanzo sulla fine dell’Umanesimo, che mette in gioco tante simbologie coniugando potentemente i tempi storici con l’evoluzione interna della vita. Afferisce al grande tema dell’Origine anche la riflessione sulla parola: una grande frattura separa la parola degli antichi, che sapeva ancora s-chiudere il nucleo della sua insondabile profondità, dalla parola dei moderni, depotenziata e addirittura afasica dinanzi alle gigantesche evoluzioni del pensiero:
«La parola non poteva avere più la pretesa di enunciare e descrivere un universo convertito alla magia del calcolo algebrico, la parola era stata ridotta a un simbolo debole senza più alcun rapporto con le cose esistenti».
La parola di Luigi Gallo dimostra invece che si può riattingere alla ricchezza semantica degli antichi. Egli scrive ogni pagina del suo romanzo come se avesse la prima e insieme l’ultima opportunità di farlo: vuole dire tutto e al massimo grado di potenza espressiva. Da questo insolito accostamento fra la tematica fantascientifica dal respiro “internazionale” (alla Philip Dick) e un italiano barocco, ubertoso, lussureggiante, multisensoriale, poderoso e preciso, nasce un cortocircuito che rende interessante tutta l’operazione, dandole l’aire del volo d’alta quota. Le 300 pagine del romanzo devono la loro “portanza” proprio alla strepitosa machina linguistica messa in opera da Gallo. Anche tale aspetto, al di là della ricchezza vertiginosa dei contenuti, rende Zingari della galassia un libro larger than life, capace di lasciare una traccia profonda che sembra lievitare nel tempo, anche prima della rilettura. Nella certezza, peraltro, che ogni rilettura offrirà allo guardo sempre nuovi aspetti e sentieri d’interpretazione.
Marco Onofrio
In quanto autore di “Zingari della galassia” sono lusingato ed emozionato dalle profonde osservazioni di Marco che per primo ha creduto nella mia esperienza narrativa e ha coraggiosamente pubblicato il romanzo.
Gentile Luigi, ti ringrazio per gli apprezzamenti ma tengo a precisare che non ti ho pubblicato io, bensì l’editore proprietario della casa editrice Edilazio. Io non sono un editore, e in questo articolo ho parlato del tuo pregevole romanzo in qualità di critico letterario. Un caro saluto. Marco
I saggi critici (ben più che recensioni) stilati da Marco Onofrio sono sempre eccellenti. Lo affermo per esperienza diretta e per assidua lettura di ciò che pubblica nei blog.