Il sogno ad occhi aperti è dolce stato percettivo che, attraverso un atto di grazia sull’animo dolente e infelice, consente la distesa dell’immagine di una persona cara con cui si ritrova il senso della vita e la fuga dalle sofferenze. Così Alfieri in Lungo la riva del Tirreno si disegna colto da malinconia atroce mentre cavalca un lido circondato dal mare nella solitudine balneare. Dentro gli prude un profondo oblio che insinua soave il barlume della donna amata ma lontana mentre l’illusione di averla accanto lo consola. Oltre l’avvio petrarchesco, pure la foce dell’Arno e la passione viscerale per i cavalli ben si accordano alla ricerca di luoghi selvaggi, della natura gagliarda a cui l’uomo deve tendere. Il percorso solitario arde nell’autore, gli svuota in petto fiamma irresistibile, lo brucia d’eros per la contessa Stolberg. Attraverso l’intensità degli aggettivi che gli permettono l’invasione di dolce dimenticanza una fantasia, prima turbolenta, riposa adesso tale da farlo sospirare privo di affanno. Proprio quando si affianca in una cornice aristocratica nessun imbroglio mentale può render così felici.
Solo, fra i mesti miei pensieri, in riva
al mar là dove il tosco fiume ha foce,
con Fido il mio destrier pian pian men giva;
e muggìan l’onde irate in suon feroce.
Quell’ermo lido, e il gran fragor mi empiva
il cuor (cui fiamma inestinguibil cuoce)
d’alta malinconia; ma grata, e priva
di quel suo pianger, che pur tanto nuoce.
Dolce oblio di mie pene e di me stesso
nella pacata fantasia piovea;
e senza affanno sospirava io spesso:
quella, ch’io sempre bramo, anco parea
cavalcando venirne a me dappresso.
Nullo error mai felice al par mi fea.
Che amore rimi con dolore non è gioco verbale nemmeno per Foscolo, tutt’altro.
Bellezza di sospensione triste, forse pietà o silenzio strettamente affiliati a pianto, ora una speranza separata da forte pausa si umanizza consistenza innaturale che nobilita la comprensione ferita.
Non si riveli, non venga diffusa la notizia della relazione viva di angosce e raccolta solo nell’intimità: per rispetto profondo verso Isabella legata malvolentieri a un marchese nessuno, tranne l’Arno, può custodirla. In Perché taccia il rumor le terzine ridono d’amore e filtrano luce sulla tersa trasparenza lacrimosa, la concitazione scompare dove i versi si compenetrano dietro il fluire delle immagini vagheggiate da fantasie. Infine appare il risveglio subitaneo dall’abbandono nella chiusa, ogni patire sfuma per il gusto di un amore che resta ultima impressione, è tormento se provoca l’irrequieto vagare per notti desolate o conforto se sorge dall’esperienza legata alla visione di una creatura ideale e ai suoi “cari accenti”.
Perché taccia il rumor di mia catena
di lagrime, di speme, e di amor vivo,
e di silenzio; ché pietà mi affrena
se di lei parlo, o di lei penso e scrivo.
Tu sol mi ascolti, o solitario rivo,
ove ogni notte amor seco mi mena,
qui affido il pianto e i miei danni descrivo,
qui tutta verso del dolor la piena.
E narro come i grandi occhi ridenti
arsero d’immortal raggio il mio core,
come la rosea bocca, e i rilucenti
odorati capelli, ed il candore
delle divine membra, e i cari accenti
m’insegnarono alfin pianger d’amore.
Michele Rossitti