Italo Calvino e Roma, di Marco Onofrio

220px-Italo-CalvinoTra le città “visibili” di Italo Calvino, Roma è quella con cui intrattiene il rapporto più inquieto e problematico. Non che ci tenga così tanto, poi, al punto di soffrirne. C’è, piuttosto, una sorta di velo opaco e anaffettivo di lontananza, quasi un distacco sordo, di vaghi e imprecisabili dissidi, e un ingombro misterioso di forze, a contrasto, che finiscono ogni volta per sovrapporsi alla percezione reale della città, impedendogli di apprezzarla e/o di entrarci in sintonia. Non si dà mai il caso che Roma lo affascini, oppure lo sorprenda oltremisura: la guarda sempre con atteggiamento freddo, razionale, diffidente, di lucido disincanto e, al limite, di rassegnata sopportazione. A Roma gli capita di andare con frequenza, e poi anche di vivere; ma non per vocazione o convinzione. Si leggano, ad esempio, le seguenti note autobiografiche redatte nel 1980:

«Da Torino, città seria ma triste, m’accadeva di scivolare spesso e facilmente verso Roma. (Del resto, gli unici italiani che ho sentito parlare di Roma in termini non negativi sono i torinesi). E così forse Roma sarà la città italiana in cui avrò vissuto più a lungo, senza domandarmene il perché».

Ben diverso il rapporto con la stessa Torino (il luogo della sua affermazione professionale, come consulente editoriale Einaudi e scrittore di successo), e con due metropoli straniere: New York e Parigi. Analizzare l’atteggiamento di Calvino nei confronti di queste tre città può farci capire, in filigrana, che cosa manca a Roma per piacergli. Un buon punto di partenza è dato, forse, dal riconoscersi provvisto di una “morale pratica, empirica” che lo spinge all’etica del lavoro, cioè a pensare che “il senso di tutto è il lavoro”. Sarebbe dunque nelle migliori condizioni per sentire Torino congeniale alle proprie corde, anche perché città operaia, di fabbriche e lotte rivoluzionarie.

«Devo molto a Torino. Torino è la città italiana in cui si lavora di più, in cui si sprecano meno energie, in cui meno ci si disperde».

La-zuppa-del-demonio_G-M-MOTORE-DL6512Sente Torino, peraltro, vicina alla sua Liguria, per quell’assenza di “schiume romantiche”, per quel “far affidamento soprattutto al proprio lavoro”, per quella “schiva diffidenza nativa” e, insieme, quel “piacere di vivere temperato di ironia, di intelligenza chiarificatrice e razionale”. Tutte cose che a Roma difficilmente potrebbe trovare, tanto meno come nota principale del contesto. Deve a Cesare Pavese, che pure – a suo modo – amava Roma, l’aver imparato a “vedere” Torino e a gustarne le “sottili bellezze, passeggiando per i corsi e le colline”. Poi New York, che Calvino visita alla fine del 1959 e che lo entusiasma letteralmente, per dei motivi che indirettamente la qualificano in senso antitetico a Roma: come modello di città contrapponibile, su un versante opposto, alle caratteristiche strutturali e morfologiche dell’Urbe.

«La città che ho sentito come la mia città più di qualunque altra è New York (…) ogni volta che ci vado la trovo più bella e più vicina a una forma di città ideale. Sarà anche che è una città geometrica, cristallina, senza passato, senza profondità, apparentemente senza segreti; perciò è la città che dà meno soggezione, la città che posso illudermi di padroneggiare con la mente, di pensarla tutta intera nello stesso istante».

Tutto il contrario di Roma che, invece, è una stratificazione storica di complessità incontenibile, forse addirittura impensabile, che sfugge da tutte le parti. Roma “non cape” entro gli schemi di una mente razionale e raziocinante: la provoca ma la mette a disagio, fino a mandarla in crisi. Parigi, dal canto suo, è una sorta di New York europea, con quel suo spirito modernistico, esotico e coloniale, da “esposizione universale” permanente.

«Ecco cos’è Parigi, è una gigantesca opera di consultazione, è una città che si consulta come un’enciclopedia».

Calvino va a viverci dal 1967 al 1980. È lì che ha modo di rivelarsi nella sua natura di semiologo, di scrittore-architetto, di infaticabile sperimentatore, di oulipien. Eppure, leggendo le sue riflessioni, sorprende che apprezzi di Parigi proprio ciò che, in maniera tanto più perfetta, potrebbe offrirgli Roma: l’idea della città come “discorso enciclopedico, come memoria collettiva”, come “gigantesco ufficio degli oggetti smarriti” che “invita a fare collezionismo di tutto, perché accumula e classifica e ridistribuisce” e in cui “si può cercare come in un terreno di scavo archeologico”.

F_33_007E insomma: Roma? Dal 1965 al 1967 Calvino abita, con la moglie Esther, a via Monte Brianzo. La Città Eterna dà i natali alla figlia Giovanna, ma ciò non gli basta a farsela amica. Ecco ad esempio che cosa scrive in un passo del celebre saggio sul “mare dell’oggettività”:

«Roma, vischioso calderone di popoli, dialetti, gerghi, lingue scritte, civiltà, sozzure, magnificenze, non è mai stata così totalmente Roma come nel Pasticciaccio di Gadda dove la coscienza razionalizzatrice e discriminante si sente assorbire come una mosca sui petali di una pianta carnivora».

Eccola, la città carnivora, la città-tentacolo che si teme (quanto più attrae). Come un gorgo: come una vertigine del senso. Ed ecco la visione agorafobica che di Roma ha Leopardi, nei primi giorni del suo soggiorno (dicembre 1822), evocata con empatia da Calvino in un saggio su “La città pensata: la misura degli spazi” (poi raccolto in Collezione di sabbia), per cui il recanatese si dice angosciato dalla sproporzione tra la misura umana e le dimensioni abnormi di spazi e edifici (ad es. il vuoto di piazza San Pietro o la mole gigantesca del Cupolone), rese ancor più disagevoli dal numero dei gradini che occorre salire per praticarli. Ed ecco, ancora, i fattori invasivi della città moderna, dannosi per la conservazione storica e archeologica delle sue inestimabili antichità, che Calvino denuncia in un articolo sulla Colonna Traiana (si legge sempre in Collezione di sabbia), dopo averla visitata con la guida illuminante di Salvatore Settis, dalle impalcature di un restauro provvisorio, per svelare la semiotica della spettacolare narrazione figurativa di bassorilievi a spirale sulle due guerre di Traiano in Dacia: “Sarà colpa dello smog, sarà colpa delle vibrazioni, o sarà la macina del tempo che millennio dopo millennio riesce a ridurre tutto in polvere, fatto sta che la presunta eternità delle vestigia romane è forse giunta al crepuscolo e toccherà a noi essere i testimoni della sua fine”.

Una idiosincrasia che si produce come silenzio eloquente, come riserva ininterrotta del tacere (o del non scrivere abbastanza: o del farlo, semmai, controvoglia). Forse perché Roma è poco funzionale alla sua attitudine da “cartografo” di mappe cognitive, impegnato nella “sfida al labirinto”. Sta di fatto che la Caput Mundi non entra nella sua opera, se non fuggevolmente: in Palomar (1983). Ma è una Roma bizzarra ed eterea, color grigio-piombo come le livree spelacchiate dei piccioni che la opprimono e la infettano ovunque; una città di tetti, vista dai tetti, che assorbe lo scenario di cui realmente, dal 1980, Calvino può disporre dal terrazzo-giardino della sua nuova casa romana, un appartamento su due piani in piazza campo Marzio, a due passi dal Pantheon. Ed è uno scenario tutto sommato sconfortante, triste, di decadenza.

«Stretta tra le orde sotterranee dei topi e il greve volo dei piccioni, l’antica città si lascia corrodere dal basso e dall’alto senza opporre più resistenza che altravolta alle invasioni dei barbari, come vi riconoscesse non l’assalto di nemici esterni ma gli impulsi più oscuri e congeniti della propria essenza interiore».

cupole-e-croci-su-romaTuttavia, il signor Palomar non può esimersi dal ricavare la “forma vera” della città in quel saliscendi di tetti, tegole, coppi, embrici, comignoli, pergole, tettoie, ringhiere, balaustre, serbatoi, abbaini, lucernari, antenne di ogni tipo, “magre come scheletri e inquietanti come totem”: la Roma aerea dei “golfi di vuoto” fra terrazzi, campanili, frontoni, attici, superattici, muri, torri, guglie, statue e cupole, soprattutto cupole, “come a confermare l’essenza giunonica della città: cupole bianche o rosa o viola a seconda dell’ora e della luce, venate di nervature, culminanti in lanterne sormontate da altre cupole più piccole”. Ha bisogno di questo sguardo da uccello (cioè di staccare gli occhi da Roma, verso il cielo) per sopportarne in qualche modo la scrittura. Invece che di Roma ci parla dei suoi orizzonti aerei, o dei pennuti che affollano il suo cielo (come gli storni, in nuvole d’ali o nastri sventolanti quando è sera), o del geco che si affaccia ogni notte d’estate sul suo terrazzo. Come se, per dire qualcosa di Roma, fosse costretto a parlare d’altro. Eppure afferma, in una intervista del 1984: “Quello che penso di Roma l’ho scritto nel mio ultimo libro, Palomar”. Ulteriore reticenza “romana”. Salvo poi ammettere, finalmente in modo esplicito:

«Per il resto, Roma, come l’Italia e come gran parte del mondo, è dominata dalla nevrastenia generale, è il luogo delle complicazioni superflue e delle approssimazioni confuse, è un luogo nel quale tutti si fanno in quattro per proclamare opinioni o giudizi e nessuno conosce più l’arte del silenzio, che è più difficile dell’arte del dire».

Marco Onofrio

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