«Un anno, e in questa stagione ero a Roma. / Avevo Roma e la felicità. / Una godevo apertamente e l’altra / tacevo per scaramanzia.»: così Umberto Saba in “Gratitudine”, una delle “Mediterranee” incluse nel Canzoniere. Roma, dunque: per configurare un paradigma classico di perfezione, di compiutezza umana – miraggio forse irraggiungibile, precluso alla nevrotica ed epidermica sensibilità del poeta. «Materna calma imprendibile è Roma», scrive ancora in “Ebbri canti”. Eppure, per quanto accettata e ammirata, non arriverà mai ad essere la sua città: che invece era Trieste, dove nacque – con il cognome Poli, figlio di Ugo Edoardo, discendente da una nobile famiglia veneziana – il 9 marzo 1883. La materna calma di Roma resta «imprendibile» come l’amore combattuto della madre naturale, Felicita Rachele Cohen, abbandonata dal marito quando ancora in attesa di Umberto; mentre la concreta affettività di Trieste corrisponde a quella fluida e tenera che lo lega alla mamma adottiva, la contadina slovena Peppa Sabaz (da cui il cognome Saba). È la «scontrosa grazia» di Trieste che, fedele più di tutte alla sua essenza, gli assomiglia: «è come un ragazzaccio aspro e vorace / con gli occhi azzurri e mani troppo grandi / per regalare un fiore». Roma è, piuttosto, il sogno di una perduta armonia: il rovescio di una luce troppo grande, difficile da conquistare e mantenere accesa.
Avere Roma e, anzi, goderla apertamente, non può che renderlo felice: ma come in bilico, sempre sulla cresta di un’onda precaria, ebbro di una nube esilarante che nasce dalla sua stessa fragilità e cela un acuto, doloroso contrario di freddezza emotiva, di molle indifferenza. Ambivalenza di affetti che rende Saba un uomo strambo, e non solo agli occhi dei più: volubile, lunatico, incostante, preda di pulsioni oppositive, imprevedibile. «Dolcissimo» e «insopportabile», «capricciosissimo e insieme affettuoso, avvolgente, irresistibile»: con la precisa e sfuggente aderenza di questi aggettivi ne delinea un ritratto memorabile Antonio Debenedetti. Saba è lo stesso che, per misteriosi e non precisati motivi, improvvisamente annuncia il suicidio («diceva di avere, nascosto nel castone dell’anello, un potentissimo veleno») ed esce di casa, inghiottito dal buio di una sera di pioggia, lasciando i Debenedetti che lo ospitano al destino di una notte insonne e affannosa di ricerche, per poi farsi trovare all’alba, sorridente, mentre beve il caffè in una latteria di Testaccio. Roma lo accoglie nel ’39: premuroso mentore Ungaretti, che si cura di salvarlo dalle leggi razziali. Vi torna nel dicembre 1944, stavolta ospite di Giacomo Debenedetti e di sua moglie Renata Orengo. Casa Debenedetti è a via Sant’Anselmo, sull’Aventino. Roma geme sotto la morsa del freddo e della fame: il gas razionato e la borsa nera. Saba, non difforme dalla propria natura un po’ masochistica (amava soffrire per averne poi motivo di querula autocommiserazione), sceglie ostinatamente la stanza più fredda della casa, piccola, isolata, esposta a nord: la cameretta che un tempo era stata della servitù. È durante il suo soggiorno a via Sant’Anselmo, gradito ma più lungo del previsto, che i Debenedetti organizzano una serata con Palmiro Togliatti. Fra gli altri invitati, anche Mario Alicata e un giovanissimo Antonello Trombadori. Il cibo scarseggia, e però Renata – indaffarata in cucina – si organizza per far “miracoli”, complici le provvidenziali scatolette americane.
La convivenza coi Debenedetti fa sorgere occasionali contrasti tra il loro rigido igienismo e la beata noncuranza di sé che il triestino lascia viceversa trapelare, evitando gli auspicati correttivi. Indossa sempre lo stesso maglione rosso scuro, e non sente l’esigenza di cambiarsi perché – sostiene – la frequentazione dei bagni turchi ha reso il suo corpo immune da impurità. In occasione della partenza da Roma, decide di offrire una “merenda” di pasticcini al Caffè Greco, dove esagera un po’ teatralmente, in chiave sentimentale, i toni e le parole dell’addio. Solo temporaneo, però, perché di lì a qualche mese Saba torna, inatteso ospite. È da casa Debenedetti che, in una lettera alla moglie Lina e alla figlia Linuccia, datata 26 aprile 1945, egli afferma di non sentirsi più libraio antiquario, qual era, anche perché Roma lo ha “viziato”. Ma in un’altra, datata 6 luglio 1945, ecco riaffiorare l’impenetrabile cuore di indifferenza affettiva: «Quando avessi licenziate le ultime bozze e firmato il contratto per Scorciatoie (e, se possibile, incassato qualcosa), non avrei più altro da fare a Roma; vale a dire che potrei stare a Roma come in qualunque altra città. Ma quale città, Lina mia?». Estraneità sostanziale che – contrapposta all’amore di pancia per Trieste – è confermata anche in una riflessione del 1946 (l’anno del Premio Viareggio): «(…) se la mia poesia è – come ogni poesia – ‘un’interpretazione totale del mondo’, questo mondo è veduto da Trieste, non da Cesena o da Predappio, o da Firenze. E nemmeno da Roma».
Ma a Roma Saba torna, e resta, negli anni ’50, per una serie di cure disintossicanti. È relativo a questo terzo soggiorno romano uno dei ricordi più dolci e struggenti del poeta. A regalarcelo ancora Antonio Debenedetti, allora poco più che bambino. Saba è a cena dai Debenedetti. Chiede del piccolo Antonio che, come sempre quando ci sono ospiti, ha mangiato prima: lo raggiunge nella sua stanza e ci resta un po’ a parlare, indugiando con soave, ineffabile tenerezza, come un nonno con il nipotino. Antonio gli è caro perché figlio di Giacomo, ma anche perché legato per sempre al ricordo della sua “breve felicità”. Saba, fra le altre cose, racconta di Oco-Oco: il suo cane che, ascoltando l’Isotta di Wagner suonata dal grammofono, è solito accompagnare il canto con “musicali guaiti”. Renata a un certo punto chiama e Umberto si accomiata da Antonio, a malincuore, non prima di avergli dato appuntamento per il pranzo della domenica: un’occasione in più per continuare a stare insieme e parlare piacevolmente. Antonio accetta di buon grado. Senonché, il giorno dopo, giunge da un amico un “invito irrinunciabile” proprio per quella domenica: pranzo a casa sua e poi, con il padre, allo stadio della “Rondinella” per assistere a un avvincente Lazio-Juventus. Antonio “rimuove” l’impegno preso con Saba: se ne ricorda solo dopo la partita, nel tardo pomeriggio. Preso dal senso di colpa, nonché dalla tristezza per la domenica che muore, col pensiero alla scuola dell’indomani e ai compiti «al solito non fatti», finisce per non rispondere al saluto che Saba gli rivolge in macchina (Giacomo è venuto a prenderlo e il poeta ha voluto accompagnarlo). La doppia mancanza (il pranzo disertato e il saluto non ricambiato) sortisce una lettera di bonario rimprovero che Saba scrive e invia ad Antonio, qualche giorno dopo: «(…) tanto desiderio mostravi di rivedermi (così almeno mi diceva mamma tua), e poi, il giorno che sono venuto a pranzo a casa tua, non solo hai preferito una partita di calcio alla mia compagnia (cosa più che comprensibile, ed interamente perdonata), ma, quando mi hai ritrovato in automobile, nemmeno mi hai salutato. Era, per te, come non fossi nemmeno esistito… Prego Dio di averti nella Sua Santa Guardia e ti saluto affettuosamente». Non è lui, del resto, ad aver osservato la volubilità estrema dell’età giovanile, per cui «sono come le nuvole i fanciulli»?
La felicità breve e impossibile di Roma, peraltro, gli riserverà ancora due forti lampi dorati, prima della morte (a Gorizia, il 25 agosto 1957): nel 1951, con il Premio dell’Accademia dei Lincei, e due anni più tardi, con la laurea “honoris causa” dell’Università. Giungeva in tempo, dunque, il sospirato “riconoscimento ufficiale” del poeta ormai settantenne: e proprio a Roma, per le mani di Roma. Questo infine era e sarebbe stata, la Città Eterna, per Umberto Saba: un liquore troppo dolce da gustare, in quel “sorso amaro” cui la vita, al doloroso amore dei suoi occhi, finisce stretta stretta per ridursi.
Marco Onofrio