La poesia di Pirandello letta da Dante Maffia

Luigi_PirandelloNon so se sia un vezzo, un consumato luogo comune o una verità quello di affermare che nelle prime esperienze di uno scrittore, siano esse in prosa o in versi, siano teatro o saggistica, esista in nuce tutto il mondo che poi sarà sviluppato nelle opere successive. Per Luigi Pirandello lo si è fatto con insistenza e da parte di molti, per esempio Carlo Salinari, Massimo Bontempelli, Leone de Castris, Pietro Pancrazi, Vittorio Santoli, Giovanni Macchia, Emilio Cecchi e Gianfranco Contini. Scrive addirittura Giovanni Getto che le poesie di Pirandello “hanno una loro evidente importanza per gli sviluppi dell’attività successiva”, ribadendo un concetto di de Castris ed evidenziando che sono testi pullulanti di “reminiscenze varie (per esempio, Petrarca: ‘dolce, ne la memoria, e mesto invito’) e anticipazioni (per esempio, Gozzano: ‘una vanessa occhiuta)”. Un fatto è certo, le prime pagine pubblicate da Pirandello sono di poesia, nella quale, anche se con il senno di poi, si possono individuare quei segnali preistorici che alla fine sono divenuti una certa storia pirandelliana molto precisa. Il primo volume di versi è del 1889, Mal giocondo (titolo rubato a un verso di Angelo Poliziano). Vi si riscontrano le lezioni non camuffate di Leopardi, di Rapisardi, di Olindo Guerrini di Boito, di Graf, di Praga, di Aleardi e di Prati, oltre che di Ariosto, di Tasso, di Machiavelli di Carducci e di D’Annunzio, ma c’è una nota diversa rispetto a questi poeti, Pirandello vi immette una pastosità realistica sconosciuta, un argomentare piuttosto massiccio svariando dalla Grecia antica al Rinascimento cavalleresco e perciò mostrando la sua natura tesa a cogliere da una parte il fluire degli eventi nel loro corso imprendibile e sempre ambiguo, e dall’altra quella che Alonge, in un saggio documentato e acuto, ha discusso come oscillazione tra misticismo e realismo. Non è stato comunque mai studiato a fondo il rapporto con il Machiavelli scrittore di versi e di teatro, ne verrebbero fuori molte sorprese ( si legga almeno Belfagor, dai Poemetti).

La sensibilità dello scrittore agrigentino aveva già percepito la crisi in atto che vedeva mutamenti eclatanti. Basti pensare a ciò che accadrà nel 1894, anno della repressione dei Fasci siciliani, e poi allo scandalo della Banca Romana, alla strage di Milano, alla messa in discussione dei valori ottocenteschi che via via perdono consistenza all’affacciarsi di nuove regole, di nuove norme che puntano a stabilire il corso degli eventi in direzione antipositivistica. Pirandello si muove tra immersioni pessimistiche e accensioni vitalistiche, come se in lui albergassero Leopardi e Carducci in una tenzone abbastanza cruenta, ma non molto efficace sul piano poetico. I metri sono assembrati sui modelli greci passati attraverso il solito Carducci, e Pirandello dimostra di saper maneggiare disinvoltamente la metrica latina scrivendo delle odi “barbare” con virtuosa perizia.. Nessuno ricorda più che non è stato Montale a coniare il “male di vivere”, ma Pirandello con questo verso: “il mal triste di vivere”. Piccole indicazioni che la dicono lunga, prescindendo dagli esiti, sulla intuizione che Pirandello aveva della realtà in atto. Nella Introduzione che Francesco Nicolosi scrive per l’edizione di Tutte le poesie, uscite in un Oscar Mondadori nel 1982, il critico si sofferma sui rapporti che Pirandello ha strettamente con i suoi maestri. Questa insistenza ci mostra la capacità di un  lettore accanito e attento di poesia nella quale però non trova la libertà che lo svincoli dalle pastoie letterarie, anzi la letterarietà è un lacciolo assai duro che non gli permette di uscire dal cerchio angusto di alchimie che lo chiudono nei riflessi degli altri e lo rendono un imitatore, seppure di grande rilievo.

Pasqua di Gea, che esce nel 1991 a Milano (ma le poesie erano state scritte tra il 1889 e il 1890 a Bonn e tutte dedicate a Jenny Schulz-Lander,  la donna di cui fu innamorato in quel periodo in cui visse in Germania), vuole essere un canto di rinascita, una rinascita che si oppone apertamente alla morale cristiana legata al sacrificio e al dolore. A cominciare dal metro (tutti settenari), sentiamo che si tratta di arie da minuetto, gioiose, allegre( non c’ entrano Frugoni, Metastasio,  e i melici settecenteschi?), fuori dalla seriosità del precedente libro che aveva tenuto a modello troppi nomi e aveva sperimentato con  eccessi di adesione forme perfino desuete e comunque con un linguaggio tinto da tentazioni retoriche e dagli strascichi dei difetti della lirica anziché dei pregi. Assistiamo a un Pirandello che scioglie le riserve e le cautele e invita la donna a vivere nella libertà più assoluta, addirittura incolpa  Cristo di non essere capace di sentire il risveglio intorno a Sé, di non cogliere il senso della fioritura. Non solo, andando avanti possiamo leggere pagine ispirate dalla lettura del Magnifico, dove troviamo quel sentimento del tempo che sarà poi una nota vibrante di Giuseppe Ungaretti  e di cui ha parlato così pertinentemente in un magistrale saggio Giovanni Getto. “Lo sguardo del poeta si rivolge al tempo che è avvenire e subito irrompe nel passato. Ma non è la malinconia del passato che importa. Essa è data per scontata. Quel che conta è l’avvenire che deve essere accolto con la ‘fronte lieta’ nella novità dei suoi doni e dei suoi sogni, anche se essi sono ‘larve’ e ‘chimere’ che ‘vanno e vanno e vanno’ “. Le parole di Getto ci danno la misura di questo libro che in fondo vuole scandagliare nei recessi di un panteismo che io non esiterei a definire metafisico, anche se per Pirandello qualsiasi etichetta perde immediatamente significato nell’accezione tradizionale, perché gli aspetti della sua poesia, e non solo, hanno sempre mille volti e si muovono dentro un caleidoscopio affascinante ed estraniante.

Le Elegie renane, anche queste dedicate a Jenny, seppure scritte a Bonn vengono edite a Roma nel 1895. Non c’è bisogno di esplicitare da dove egli attinge il titolo e forse anche le movenze e direi la tematica. A differenza comunque di quelle di Goethe (di cui ha tradotto appunto le Elegie romane), in queste di Pirandello avvertiamo sempre al fondo, scrostando l’angoscia e il sentimento di dolcezza e di abbandono, quella stemperata malinconia che svicola nell’angoscia fino a diventare presagio della fine: “Penso: vivrà, vivranno costei ch’ora accanto mi viene, / questa riva, quel bosco, uomini e cose, quanto // vedomi intorno e sento, ancora vivranno, quand’io / lungi da qui sarò, dove il destin mi chiami. // Volgomi a guardar l’orma del passo di lei su la neve; / altri passi tra poco cancelleran quest’orma”. Tuttavia il palpito si sente soltanto quando Pirandello riesce a trasmettere la furtiva sensualità degli incontri con la ragazza e quando non vigila la rievocazione degli incontri. Nei versi abbonda il clima di una “educazione lessicale” che poi, nel teatro e nelle novelle, sarà rotta, frantumata e offesa per trovare la dimensione della scrittura viva che doveva rendere la pienezza della vita e dei sentimenti umani fuori dai limiti imposti dai libri. Nicolosi è molto bravo nel cogliere anche le affinità con il Carducci di Alla stazione in una mattina d’autunno, poesia certamente tra le più moderne che siano state scritte da duecento anni a questa parte e che è stata imitata e saccheggiata a piene mani da Ceccardi, da Barile, da Boine, da Mario Novaro, da Sbarbaro, da Rebora, da Cardarelli e  soprattutto da Montale che se la porta appresso come una ossessione e ne cava parecchie risonanze e indicazioni in molte sue liriche. Anche Pirandello ne era rimasto preso, proprio per la sua modernità , per quel sapore aspro  e dolce insieme che adombrava l’avvento di una musica nuova e di una visione nuova del senso della vita.

Poi l’Autore di Uno nessuno e centomila pubblica un libro di sapore pascoliano, nel 1901. Libro variamente interpretato e discusso. C’è chi sostiene che sia un passo indietro, opera di un poeta che non sa cogliere i sintomi dell’attualità e si rinserra nei canti pastorali accorandosi per la vita della gente umile e campagnola e chi invece ne avverte la prontezza della scelta verso una poetica che soltanto in seguito,ad opera di Giacomo Debenedetti, sarà riconosciuta come  rivoluzionaria. Pascoli ha portato dentro la poesia italiana, insieme a  Salvatore Di Giacomo (lo riconoscono perfino Montale e Zanzotto), quella ventata necessaria di rinnovamento linguistico e figurale che altrimenti sarebbe rimasta soltanto una tentazione filtrata a suo piacimento dall’irruenza d’annunziana che per sé funzionava e dava frutti prelibati, ma non permetteva agli altri di abbeverarcisi.

I Poemetti forse aprono a una prosaicità che poi fu attribuita tutta a Gozzano ma che già in Pirandello aveva assunto quella cadenza colloquiale  che la dice lunga (ancora una volta magari prescindendo dagli esiti poetici) sull’intuito e la percezione che egli ebbe dei rinnovamenti in atto in tutte le direzioni. Seguiranno Fuori di chiave, nel 1912, e Poesie varie, quest’ultime trovate su le riviste più disparate (ma ancora si tratta di una raccolta provvisoria) e scritte in anni diversi. L’esigenza di poesia in Pirandello fu sempre molto forte, in versi affrontò tutti i temi possibili e immaginabili, anche se alla fine il suo canto poetico altro non è che un controcanto della sua prosa e del suo teatro che riescono  a diventare autonomi e a trovare una strada maestra personale e universale. Mi sembra esagerato affermare, come fanno i ciechi innamorati di Pirandello, che egli abbia raggiunto risultati notevoli nei suoi versi. Certo, riuscì sempre ad anticipare i tempi, a saper entrare nel vivo delle questioni di poetica e soprattutto del linguaggio, ma non aveva la natura del poeta, quella leggerezza che dosa da sé lievito e cultura, sensazioni e pensiero e ne fa accenti indimenticabili. Inutile insistere sul poeta, non basta saper essere i primi e dare le svolte (si veda il caso Capuana-Verga), bisogna, nelle svolte, imprimere il passo del gigante. Quel passo che Pirandello ebbe nel teatro e nei racconti, ma che gli mancò nella poesia, fermi restando la sua intuizione e la sua prensile sensibilità e fermo restando il merito di aver abbassato il tono aulico della lirica italiana e averlo intriso di quell’umorismo essenziale che nei crepuscolari prenderà coloriture ironiche e autoironiche.

 Dante Maffia

8 commenti
  1. ‘”Nessuno ricorda più che non è stato Montale a coniare il “male di vivere”, ma Pirandello con questo verso: “il mal triste di vivere”.”‘.
    Grazie, gentile Dante Maffia, per averlo ricordato in questo saggio esaustivo e illuminante su un aspetto di Pirandello spesso trascurato o sottovalutato nell’economia dell’opera del grande agrigentino.
    Giorgina Busca Gernetti

  2. Molto ben strutturato e denso di contenuti quest’intervento di Maffia su Pirandello poeta. Un piacevole mattutino.
    Certo lo scrittore siciliano non deve la fama ai suoi trascorsi poetici. Ma pure colpisce senz’altro la sua puntualità nel delineare ritmi e figure. Si vedano, per non andar lontano, i versi pirandelliani citati da Dante Maffia: “Penso: vivrà, vivranno costei ch’ora accanto mi viene, / questa riva, quel bosco, uomini e cose, quanto // vedomi intorno e sento, ancora vivranno, quand’io / lungi da qui sarò, dove il destin mi chiami. // Volgomi a guardar l’orma del passo di lei su la neve; / altri passi tra poco cancelleran quest’orma”. Versi che, sotto il profilo metrico, sono distici elegiaci, dove l’esametro è composto da un settenario e un novenario, e il pentametro da una coppia di settenari. Tutti tecnicamente perfetti, settenari e novenari.
    Anche se ci sarebbe molto da dire sul modo in cui il poeta toscano, e quindi anche lo scrittore siciliano, rendono in italiano il ritmo del pentametro.
    Pasquale Balestriere

  3. Giuste osservazioni quelle di Pasquale Balestriere sul modo di rendere in italiano la metrica greco-latina effettuato da Carducci, Pascoli, Pirandello e altri.
    Il problema, nonostante la perfezione dei settenari e novenari pirandelliani, sta in questo: la metrica greco-latina è “quantitativa”, mentre quella italiana o neolatina in genere è “accentuativa”. Si avverte spesso in queste poesie coniate sulle forme poetiche classiche (anche sulla strofe saffica o sull’endecasillabo alcaico) un che di “voluto”. Ciò, pur rispettando il valore intrinseco delle composizioni, lascia un poco perplessi.
    Giorgina Busca Gernetti

  4. Data per scontata la differenza tra la metrica della poesia classica (quantitativa) e italiana (accentuativa), a me pare che l’esametro sia reso in italiano (da Carducci e da altri) in modo accettabile. Quello che non funziona è il pentametro, che il Carducci riesce a rendere in modo decente solo nella lirica “Nevicata” (tranne che nel primo emistichio del quarto verso) e in qualche rarissima altra occasione, e il Pirandello, per rifarci all’esempio sopra riportato, solo nell’emistichio “lungi da qui sarò”. Tanto sostengo perché il pentametro classico è un verso catalettico “in syllabam” in terza e sesta sede e dovrebbe dunque avere anche in italiano i due emistichi con l’accento sull’ultima sillaba. Invece Carducci e gli altri usano versi (ed emistichi) piani e fanno saltare il ritmo.
    Pasquale Balestriere

    • Verissimo. Ecco perché ho scritto che mi lascia perplessa questo trasferimento dei metri usati dai classici greco-latini, in cui “quantità” delle sillabe è fondamentale, in una lingua che non la percepisce. Più facile del pentametro è la strofa saffica che ha dato esiti apprezzabili in vari poeti tra cui il Pascoli. I tre versi iniziali sono endecasillabi saffici (endecasillabi) e l’adonio finale è un pentametro. Il problema è che, forse, la lettura fatta dagli antichi era molto diversa dalla nostra lettura di moderni, con l’orecchio all’accento e non alla lunghezza o brevità delle sillabe.
      E’ come trascurare il valore delle note musicali, suonando una minima e una semiminima perfettamente uguali. Addio ritmo e melodia!
      Giorgina Busca Gernetti

    • Grazie, gentile Pasquale Balestriere.
      Si vede che stavo già dormendo!
      Nello spostare con il taglia-incolla alcune parole in un discorso un poco diverso, ho lasciato pentametro invece che quinario. Si figuri che, nel mio piccolo, ho scritto anch’io alcune poesie in strofe saffiche.

      “Il sonno l’ora meridiana induce
      e i dolci sogni e le vane memorie
      e fantasie d’avventure fiabesche
      nel sole ardente.”

      Giorgina Busca Gernetti

      • “Ποικιλόθρον᾽ ἀθανάτ᾽ Ἀφρόδιτα,
        παῖ Δίος δολόπλοκε, λίσσομαί σε,
        μή μ᾽ ἄσαισι μηδ᾽ ὀνίαισι δάμνα,
        πότνια θῦμον”
        Saffo, ode, Diehl 1
        *
        « Ille mi par esse deo videtur,
        ille, si fas est, superare divos,
        qui sedens adversus identidem te
        spectat et audit. »
        L.Valerio Catullo, Carme LI
        *
        “Corron tra ’l Celio fosche e l’Aventino
        Le nubi: il vento dal pian tristo move
        Umido: in fondo stanno i monti albani
        Bianchi di neve.”
        G. Carducci, “Dinanzi alle terme di Caracalla”
        *
        “Gemmea l’aria, il sole così chiaro
        che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
        e del prunalbo l’odorino amaro
        senti nel cuore.”
        G. Pascoli, “Novembre”.
        *
        E’ evidente che l’adonio finale dei due classici è stato reso con un quinario (pantasillabo) dai due poeti moderni.

        Giorgina Busca Gernetti

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