Una mia vecchia nota di lettura di circa 18 anni or sono ad un libro di un autore nato negli anni settanta che fa una poesia di scuola, come ce n’è a centinaia; come si può notare, l’autore è bravo, possiede quelle tecniche di base che ti consentono di adire un linguaggio poetico, diciamo di accademia, ma di una bravura del tutto telefonata, la bravura di chi è andato a scuola da pessimi maestri ed ha imparato la media medietà… il fare poesia mediale mediamente acculturata… Scrivevo 18 anni fa:
Oggi, dopo l’interminabile foce epigonica degli anni Ottanta e Novanta del Novecento, dopo la stagnazione economica, stilistica, politica e spirituale di questi anni Zero, è sempre più chiaro a chi voglia vedere le cose senza gli occhiali ideologici del minimalismo, che l’epoca dello pseudo-simbolismo e dello pseudo minimalismo orecchiato delle scritture epigoniche non ha nulla da dire di comunicabile alla comunità nazionale, nulla di significativo ai cittadini. Posta l’impossibilità, certo, oggi, di costruire uno stile simbolistico ovvero, post-simbolistico, per via della caduta a picco del fondale simbolico, per quella problematicità di porre il simbolico come «simbolico», e per via di quella confusione di porre l’equivalenza: l’immaginario=mito e mito=simbolico, quello che rimane possibile da fare è, per la nuova generazione, un linguaggio poetico che non poggi su alcuna stilizzazione e su alcuno zoccolo stilistico. Lo so, è paradossale e fortemente antinomico, ma così è.
Quel poco di pseudo-classicismo che si è voluto accordare ad uno stile mitologicamente sostenuto, non ha lasciato traccia significativa, durevole. Lo pseudo-simbolismo del post-simbolismo del tardo Novecento è stato davvero una cosa curiosa: convenzionale nell’enunciazione e conservativo nella formalizzazione, non era in grado di offrire alla poesia delle nuove generazioni alcun sostrato su cui poggiare la forma-poesia. Adesso, è chiaro come i neoclassici della scuola orfica hanno scritto e parlato per tutto il tardo Novecento in una prosa rimata e ritmata al meglio, antichizzata e nulla più. Sono stati i simbolisti italiani del primo Novecento (Gozzano, Govoni, Moretti, Vallini, Corazzini) che hanno scoperto la prosa, la natura metaforica e prosastica del discorso poetico inteso come ambientazione di interni domestici e raffigurazione di personaggi.
Questi poeti hanno chiuso tutte le parole, tutte le forme, predestinandole esclusivamente ad un uso laico borghese e piccolo borghese. Se adesso facciamo un salto in avanti, alla seconda metà del secolo scorso, e precisamente ai decenni che hanno visto l’esaurimento dello sperimentalismo e della poesia degli oggetti, quello che vediamo è uno spazio linguistico senza frontiere, dove è possibile manovrare a piacimento il veicolo poetico alla ricerca del proprio orto botanico di linguaggio incontaminato, direi biologico, con tanto di autobiologia che fa rima con apologia dell’io.
Ne è derivato qualcosa di assai incongruo: il discorso poetico del secondo Novecento concede comodi divani agli esiti epigonici, c’è spazio per chi vuole accomodarsi, c’è un atrio per i ricevimenti, c’è un salotto per l’intrattenimento, c’è un corridoio lastricato di sperimentalismo «privato» e di oggettistiche «urbane», di periferie urbane e di ambienti privati, privatissimi; da qui non si può andare né avanti né indietro, né alzarsi, né sedersi, si scrive come se si fosse tutti davanti ad una telecamera che spii la nostra privatissima vicenda privata. Ecco la ragione per cui molti libri di poesia (e di narrativa) ci mettono davanti il piatto di una quotidianità da vetrina, imbalsamata, artefatta, finta, posticcia fatta apposta per l’occhio scrutatore della telecamera. Ecco la ragione di molta poesia turistica, che adotta a proprio modello la guida turistica Michelin. Con la conseguenza che il linguaggio poetico del tardo Novecento è rimasto privo di pavimentazione lessicale e stilistica, il che non può che riprodurre le medesime aporie e i medesimi nodi che erano già venuti al pettine negli anni del crepuscolarismo.
Vorrei posare, sul marmo che vela
la tua forma che lenta si disperde
il sangue mite delle prime rose
il lungo dolce oblio del loto, il lieve
puro manto del giglio, l’enigma della fosca passiflora
e il pàmpano che sempre si rinnova
e la carne impalpabile del colchico
che veste i prati quando l’estate muore
E mai nient’altro ti saprò donare
che questi aridi fiori fatti d’aria
e suono e vuoto e colore senza vita
e nutriti di veglia e solitudine
questa corona di musiche e silenzi
già vizza al primo fuoco del mattino
*
Se mai una notte tu dovessi vagare
fra le lapidi, spettro impaurito
smarrita la via, non udito
il debole richiamo dei compagni
eternamente eguali nell’oblio
discendi pure sul mio sonno, e destami
Ci sarò io allora a stringere
non so come, la tua immagine vacua
e a prenderti per mano, a ricordarti
i nomi delle stagioni e dei venti
e del fuoco, e degli astri, e delle età senza numero
che già furono, un tempo, intrecciati
al tuo e al mio, così dolci e labili
*
Come rubare al tempo
e alla polvere se non in questo
lieve artificio il fermo simulacro
che di te mi rimane, chiuso
nell’istante perpetuo dello scatto –
come gemma nel fregio delle ore
l’immagine lontana e dolce che volesti
lasciare agli occhi tremuli
di chi ti amava
Mi sorridano, tra i riflessi, la quiete
delle labbra, il puro specchio
dello sguardo, l’etereo
tepore delle carni .
e si accenda il sempre nuovo
stupore del ricordo, e la memoria abbia luce
dai limpidi sorrisi dell’argento
*
Il vuoto che si schiude
oltre il tuo viso .
il bianco della foto
gelida aureola di silenzio e luce
che cinge il breve giro
del chiaro sguardo e della carne fragile –
che altro è se non l’icona labile
del tempo senza fine che ha confuso
l’esile trama dei tuoi giorni .
nera selva
fitta d’echi, ove sola, sulle soglie
del nulla, respira la memoria
*
Il ciclamino, il fiore
che nel suo giro fragile
di colore e profumo chiude il cerchio
delle ere e degli astri, e col suo muto palpito
fa eco al chiaro riso delle stelle
ignaro di mesi e di stagioni
è fiorito ai confini dell’inverno
Forse c’era in quel madido viso
di petali e steli, in quelle tenere urne
in quel fragile dono
di tua madre, madre di mia madre
come un’eco ostinata
del vostro e tuo generare, un’impronta
del seme remoto d’ogni nascita e vita
*
Un bagliore rapito
al sole rischiara la tua lapide
come una stella stretta fra i signacoli
vuoti del nulla
E nelle notti d’inverno, quando il gelo
e le tenebre stringono il tuo viso
nella piccola immagine
da quel baleno avrai calore e luce
come un cuore stremato ancora beve
la dolcezza di un ultimo sorriso
che brilla in fondo alla memoria, eterno
«L’uomo non è più padrone a casa sua. Deve vivere ora in una chiesa, ora in un sacro boschetto di druidi, l’occhio padrone dell’uomo non ha dove riposarsi né dove trovare pace. Tutto il vasellame si è ammutinato. La scopa chiede riposo, la pentola non vuole più bollire ma chiede per se stessa un significato assoluto (come se bollire non fosse un significato assoluto). Hanno cacciato di casa il padrone ed egli non osa più entrarvi. Ma come fare con la adesione della parola al suo significato: forse che si tratta di una dipendenza fortificata? Ma la parola non è una cosa. Il suo significato non è affatto una traduzione di se stessa. Infatti, non è mai accaduto che qualcuno abbia battezzato un oggetto e l’abbia chiamato con un nome inventato. La cosa più conveniente, e nel senso scientifico più esatta, è guardare alla parola come ad una immagine…».
Sono parole di Mandel’stam contenute nel saggio Sulla natura della parola pubblicato nel n. 32 di «Poiesis» nel 1993 e nel 2004 tradotto da Donata De Bartolomeo.
Se è chiaro, per sommi capi, quanto abbiamo detto in queste righe, ci sarà chiara anche la scelta di un autore della generazione degli anni Settanta come […] per una «poesia povera», una «poesia da scrittoio», che ci parla di cose semplici e antiche come un «ciclamino», di affetti privati e domestici, dell’ombra della morte che si allunga, al tramonto, su tutti e le suppellettili del quotidiano. Ed ecco che ritornano tutti gli stilemi e i topoi del crepuscolarismo: la vita come «pianto», l’alba «grigia», «l’istante perpetuo dello scatto», «l’edera figlia del silenzio», il «buio che avviva le mura dei cimiteri», «il verde riso della primavera», la preghiera sulla «lapide», la presenza pervasiva e costante della «morte», l’ombra della «madre», la «primavera nebbiosa», e via cantando per centinaia di versi buonisti e populisti come va di moda di dire oggi, etc., etc.
Come l’edera figlia del silenzio
e del buio che avviva le mura
dei cimiteri e reca in quella quiete
il verde riso della primavera
così è questo mio canto che vive
nutrito dalle tenebre e dal nulla
Giorgio Linguaglossa
Ma conta più quello che si dice,o la maniera?