Cinque poesie di Gabriele Tinti da “Rovine”, presentazione di Gabriella Palli Barone

Alessandro-Haber-legge-Lamenti-di-Gabriele-Tinti-Museo-dellAra-Pacis-Courtesy-Dino-Ignani

Alessandro Haber e Gabriele Tinti

È forse vero che “anche le statue muoiono”, come scrive Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino , richiamando il titolo dal catalogo della mostra Anche le statue muoiono. Conflitto e patrimonio tra antico e contemporaneo. Titolo provocatorio soprattutto per noi che ci troviamo in questo straordinario Museo di Palazzo Altemps, luogo di memoria e di conservazione di opere che, attraverso i secoli, sono giunte fino a noi. Eppure possiamo negare questo assunto, dopo aver ascoltato dalla voce bellissima di Franco Nero i versi di Gabriele Tinti dedicate alla statuaria classica: è la parola del poeta, la parola commossa e intensa, che ha fatto rivivere e portare al presente dell’emozione alcuni episodi del passato e i sentimenti dei protagonisti, che gli scalpelli di antichi artisti hanno sottratto all’oblio e affidato al nostro sguardo, alla nostra ammirazione, alla nostra contemporaneità e al futuro.

L’ekfrasis è un genere alessandrino che ebbe cultori come Virgilio (lo scudo di Achille) o Catullo (carme 64 il mito di Arianna) ed è giunto sino all’Ode sopra un’urna greca di Keats, tanto cara ad Attilio Bertolucci per il verso “Verità è bellezza, bellezza e verità”, che ispirò la sua poetica. L’ekfrasis torna ora grazie a Gabriele Tinti, ma torna con accenti nuovi e coinvolgenti.

Io ho sentito, recitata da una voce femminile, la poesia dedicata al Galata suicida qualche anno fa e ne fui fortemente commossa. La descrizione faceva risaltare il gruppo coinvolto nell’atto estremo della morte. Piegata a terra, dolente e già morente, la moglie, che ha chiesto la propria fine al marito. Ancora in piedi, ma già pronto a colpirsi, il barbaro. Ed erano i versi a sottolineare il farsi della tragedia; a mettere in risalto l’eroismo di una scelta irrevocabile, dettata dalla sconfitta (fu Attalo I re di Pergamo a celebrare nel 223 con un donario, da cui provengono le copie romane del Galata morente e del Galata suicida, la vittoria sui Galati); a far emergere la forza dell’unione coniugale e la dignità racchiusa nel gesto drammatico.

Qui e in altri versi è la nostalgia per la stagione mitica dell’arte e della poesia, cui la parola dava vita, ad ispirare il poeta Tinti. Egli sa che si è persa nel nostro tempo l’”aura”, quel filo sottile del tempo antico in cui, con Holderlin, “gli dei camminarono tra gli uomini” o in cui, con Bertolucci di D’après Poussin (le esequie di Focione), un “festino di dei laziali” o “esequie/di eroe” potevano celebrarsi tra “montagne d’ametista e fumi lontani”.

È la nostalgia il motivo profondo che ispira i versi e fa rinascere, pur nel dolore della fine e nel pensiero della solitudine e della perdita, il mito al presente. Un mito impregnato di sangue e di terra, di solchi neri e di tenebre, di dolore e di gloria; ma anche un mito, quello di un Apollo “spettro” o “burattino” della vita perduta (“Io sono il campo arato / la preda crudele dell’erba/ alta, della terra nera”), che solo il dio (o forse il cuore dell’uomo?) può contrastare, danzando nel tumulo funebre e scambiando “un’altra vita per una nuova”.

La poesia sorregge la speranza e la fede nella parola che sola può “scolpire l’irreparabile”, può incidere e cantare; può infine, con un grido, morire per sopravvivere: I poeti: ”Lasciatemi morire”. Era il grido di Sergio Corazzini, meno forte, più sommesso e lacrimoso in Desolazione del povero poeta sentimentale. Del poeta crepuscolare romano appare nella poesia di Tinti qualche eco o innesto, pur in un tessuto dalle voci dure e terrestri, addirittura aspre e violente. Ma ecco proprio nei versi sul Galata suicida affiora “quella triste canzone”; affiorano “i nostri sogni che seppelliremo con i vostri”. Ne deriva una musica più tenue e segreta, che riveste il dolore e la durezza della morte di tenerezza e rimpianto per il sogno e per l’ideale. Infine, per la vita.

Gabriella Palli Baroni

 

FAUNO

È maschera tutto ciò che non è la morte
(E. Cioran, “La tentazione di esistere: Rabbie e rassegnazioni”)

Il Fauno, creatura dionisiaca, Dio dei boschi, da sempre simboleggia la pienezza creativa, la potenza della vita che nel suo traboccare, nel proprio esaltarsi, nel raggiungere la massima intensità, si trasforma in distruzione e morte. Egli era “qualcosa di sublime e di divino”, in lui cantava “la natura non ancora toccata dalla conoscenza”, di fronte a lui “l’uomo incivilito si riduceva ad una creatura bugiarda”. Era il coro ditirambico che dalla loro voce scaturiva a ricondurre tutti al “seno profondo della natura”, era seguendo il loro canto che accadeva di vedersi mutare di fronte a se stessi, di agire come se si fosse in altri corpi, in altri caratteri, di essere pronti alla morte. Era lì che l’incantesimo tragico, il fenomeno drammatico primitivo, si rivelava, tramutando ogni volta il “tripudante dionisiaco” in un mondo di “immagini apollinee”.

“Con questo coro si consola l’anima profonda del Greco, più delicata e più sensibile di ogni altro; con occhio acuto egli vede il terribile spirito di annientamento della cosiddetta storia universale e la crudeltà della natura ed è messo sul punto di desiderare un annientamento buddista della volontà. Lo salva l’arte e, per mezzo dell’arte, la vita salva lui”.

Devi calmarti
hai perso la testa
stai farneticando.

Su scendi in pista
scalda le vene
come si deve.

Si sta bene qui
mira non sbagliare
guarda fuori.

Il cielo è a pezzi
trema, arranca,
porta la sua croce.

Tu non ci pensare
bevi tutto quanto
c’è ancora da bere.

Affila le spade
riempi la coppa,
così va bene.

È quasi l’alba
eri cieco ma ora sì
ora cominci a vedere.

È bello danzare!
Sei stato liberato
io ti ho liberato!

Adesso corri però!
Via di qua!
Non ti fermare.

 

DORIFORO

“Policleto fece il Doriforo, virile ragazzo” (Plinio)

L’atleta o l’eroe – forse Achille – avanza senza incertezza, la gamba sinistra arretrata, il braccio corrispondente a sostenere una lancia (o uno scudo), la testa lievemente piegata sulla spalla. L’impressione di potenza e, al contempo, di serenità è evocata attraverso l’articolazione studiata dell’anatomia, l’unità ideale dell’insieme, lo studio matematico dei contrasti e contrappunti, le proporzioni armoniche “di un dito rispetto all’altro, di tutte le dita rispetto alla mano, del resto della mano rispetto all’intero braccio” (symmetrìa) (Galeno, 129-200 d.c.).

Nessun dubbio che Achille sia stato il più bello, il più grande, degli eroi. Il suo grido di guerra era “di bronzo”, capace, da solo, di scuotere di terrore le linee nemiche (Iliade, XVIII, 214-221). Grido spaventoso ogni volta accompagnato da un digrignare di denti – “odónton kanaché” -, da un batter di mascelle, da una furia che gli deformava il volto in una maschera terribile.  Destinato ad una vita breve, mantenne davanti alla morte un contegno divino, accettandola. Quando si gettò su Ettore per vendicare Patroclo, la madre Tetide lo avvertì, profettizando che sarebbe morto all’istante qualora non avesse desistito. “Che muoia io pure!” rispose l’eroe accecato dal pòthos del lutto, incapace di scacciare il ricordo del defunto. Rifiutando ogni attività potesse favorire in lui l’oblio della perdita, Achille si allontanò progressivamente dalla comunità degli uomini per non dimenticare. E l’unica volta che cedette, anche solo per un istante, al sonno, l’eidolon di Patroclo fu lì, pronto a rimproverarlo: “Achille tu mi hai dimenticato” (Iliade, XXIII, 69).  È così che l’eroe non smise di far scempio di coloro che avevano ucciso il suo compagno fino a quando non cadde alle porte di Scee come predetto, colpito nel tallone destro dalla freccia scoccata da Paride e diretta da Apollo. Tetide lungamente pianse il figlio assieme agli immortali e ai mortali. I lamenti funebri durarono diciassette giorni. Il giorno successivo il cadavere fu posto sopra la pira.

No, non ti ho dimenticato!
Sono pronto a morire.

Avanzo senza far rumore.
Faccio leva col piede pesante

per meglio fiutare la sorte.
L’affretto, ne sento il sapore,

so concentrarmi sul dolore.
Il mio corpo brucia le ossa,

rovina cadavere lungo la notte.
Si spegnerà, si farà seppellire

per lasciarsi piangere
e poi germogliare.

 

ESIODO

“(Mio padre)…prese dimora presso l’Eliconia, in una misera borgata, ad Ascra, trista d’inverno, penosa d’estate e non mai piacevole” (Le opere e i giorni, 634 sgg.)

Ritenuto a lungo dagli archeologi il ritratto di Seneca, il frammento bronzeo della Villa dei Papiri restituisce l’immagine di un anziano poeta lirico, probabilmente Esiodo. Capolavoro della ritrattistica ellenistica qui lo scultore abbandona completamente la tradizione estetica classica per evocare la passione e l’energia del poeta presente persino in un corpo provato dalle sofferenze di un vivere quotidiano modesto. Nel busto si riconosce un rimando all’iconografia dei contadini e dei pescatori, come a voler significare che anche in un emarginato, in un uomo segnato dagli stenti e dalla fatica, può risiedere un grande spirito. L’uomo in là con gli anni, trasandato, concentrato, alla ricerca della giusta parola, sembra appunto rimandare a Esiodo, al “vate contadino che le muse elessero poeta mentre pascolava le capre sull’Elicona e che condusse una vita di incessante lavoro, di preoccupazioni e delusioni” (Paul Zanker, “La maschera di Socrate”).

Ultimo dei poeti
scolpisci l’irreparabile

sei pronto a tutto
incidi le parole.

Impaziente scaldi
antiche ferite

il canto ribolle
nelle tue vene.

Chi devi chiamare?
Chi vuoi incendiare?

Più nessuno t’aspetta
nessuno che t’offra

un rifugio sicuro.
Soffochi di solitudine

cominci ad appassire.
«Allora forza!» – gridi –

«fatemi a pezzi!
Lasciatemi morire!».

#

Prepara la messe della notte il poeta
contadino, affina il fiuto, prova la gola.

Tu seguilo se puoi, tendi l’orecchio.
Tra poco il gelo abbraccerà la sera

e non ci sarà più verso buono per noi.
Da nessuna parte fuggiremo questa

sventura. Vorresti piangere ma le lacrime
frenano sulla tua scorza di bronzo.

Sei triste lo so, in te abbaia soltanto
l’angoscia. Stringi più forte tutto quel buio,

non lasciartelo sfuggire. S’estinguerà
in memorie e silenzio, in poche righe.

 

OMERO

Il ritratto di un uomo anziano, dai lunghi capelli cinti dal cercine e dalla barba folta, giunto fino a noi in numerose copie costituisce un ritratto retrospettivo di Omero. L’intenso volto, l’aura di un’immagine sovraumana che da questo trapela, mi ha sempre fatto provare una profonda nostalgia per un’età mitica dell’arte e della poesia in cui questa riusciva a cantare davvero, un’età in cui efèbi, bardi – presto destinati a scadere in rapsodi ed infine negli scribacchini quali noi siamo divenuti – utilizzavano la parola viva con voce divina.

Un vento freddo raggela ogni parola.
La terra ci attira a sé. «Dove sei?»

chiamiamo inutilmente. A tastoni cerchiamo
dove trovarti nello sproloquio dei poemi,

dei secoli nostri, di quelli passati e di quelli
a venire. «Dove sei?». Dopo di te arranchiamo

con le gambe spezzate lungo questa ferita
che lascia tracce poco profonde. Sparito!

Sparito! Piangiamo il canto che non sappiamo
più cantare, noi ai quali è dato soltanto cadere.

Gronda sangue l’alloro dei poeti, illumina
appena quel po’ di buio che possa bastare.

 

ANACREONTE

Anacreonte, poeta di origine ionica, trascorse molti anni nella città di Atene che, tempo dopo la sua morte, dedicò lui una statua sull’Acropoli. Il poeta è rappresentato nudo, con un corpo bello e nobile, mentre suona il barbiton. Egli viene qui celebrato come simposiasta moderato, cittadino modello che non perde il controllo nemmeno nell’ebrezza del banchetto conformemente alle norme tipiche della società attica del tempo (V secolo a.C.). L’entusiasmo e l’ubriachezza del cantore è soltanto accennata dal leggero barcollio del capo. L’elegante mantellina drappeggiata definisce il torso. Il membro è infibulato per astinenza sessuale o semplicemente in segno di decoro e qualità morale. Questa celebrazione retrospettiva del poeta come modello virtuoso di un ideale sociale rimuove il vero Anacreonte che, così viene descritto dalle fonti antiche, era amico dei tiranni e degli aristocratici, edonista, bevitore incallito e animatore di banchetti.

Che cosa devo inventare ancora?
Su che cosa mi obbligate a scrivere?

Io sono un poeta, me ne frego
delle vostre opinioni, d’ogni richiesta.

Forza, brindate! Fate festa! Mi troverete
da solo all’obitorio a incoronarmi d’alloro.

Salute vicini! Salute cari! Salute a tutti!
Non dovete preoccuparvi, non minaccerò

le vostre tiepide gioie, tanto per voi
sono solo un passante. Andate pure

non vi fermate a pensare. La mia testa
dondola sul collo, non mi lascia dormire.

Aspetta la notte, si fa avanti ubriaca.
Cerca compagnia per un’altra bevuta.

Gabriele Tinti

 

sergio-ritratto-296x300Gabriele Tinti è un poeta e scrittore italiano. Ha scritto ispirandosi ad alcuni capolavori dell’arte antica come Il pugile a riposo, Il Galata suicida, il Giovane vittorioso (Atleta di Fano), il Fauno Barberini, Il Discobolo, I marmi del Partenone, l’Ercole Farnese e molti altri ancora, collaborando con Istituzioni come il Museo Archeologico di Napoli, I Musei Capitolini, il Museo Nazionale Romano, il Museo dell’Ara Pacis, il J. Paul Getty Museum di Los Angeles, il British Museum di Londra, il Metropolitan di New York, il LACMA di Los Angeles e la Glyptothek di Monaco. Le sue poesie sono state lette da attori come Marton Csokas, Robert Davi, Vincent Piazza, Michael Imperioli, Franco Nero, Burt Young, Anatol Yusef, Luigi Lo Cascio, Alessandro Haber, Enrico Lo Verso, Silvia Calderoni (Motus) e Joe Mantegna. Nel 2014 è stato invitato a partecipare alla Special Edition Series del SouthBank di Londra. Nel 2016 ha realizzato un progetto con la Fondazione Giorgio e Isa De Chirico componendo tre poesie ispirate a tre dipinti di Giorgio de Chirico: La nostalgie du poète (1914), L’incertitude poète (1913) e Arianna (1913) collaborando con il Metropolitan Museum of Art e la Peggy Guggenheim Collection. Le poesie sono state lette dall’attore Burt Young al Metropolitan di New York. Sempre nel 2016 ha pubblicato “Last words” (Skira) in collaborazione con Andres Serrano. Nel 2018 il suo progetto di poesia ecfrastica “Rovine” è stato insignito del Premio Montale con una cerimonia al Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps. Il progetto è stato recentemente scelto per celebrare il riallestimento delle collezioni del Getty Museum.

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