Giuseppe Paternostro “Il linguaggio mafioso – Scritto, parlato, non detto”, Aut Aut Edizioni, 2017

Linguaggio mafioso -fronte

Ciò che il libro vorrebbe far emergere è in primo luogo il paradosso della comunicazione mafiosa. Questo paradosso muove da una domanda, forse ingenua, ma non per questo meno necessaria da porsi: per quale motivo un’associazione che ha fatto della segretezza, del silenzio, di tutto ciò che apparentemente è l’antitesi della comunicazione, in una parola (non a caso legata a quest’ambiente) dell’omertà, ha dato luogo a un sistema di comunicazione peculiare e, dunque, riconoscibile come tale?  L’obiettivo è quello di analizzare il linguaggio usato dalla mafia in maniera organica, cercando di offrire una prima panoramica dei capisaldi del suo apparato comunicativo. Pizzini, lettere di scrocco, intercettazioni, testimonianze e silenzi sono gli elementi che ne costituiscono l’impianto comunicativo, in costante oscillazione fra una comunicazione interna e una comunicazione esterna, due facce distinte ma complementari.

 

I.6. La mafia parla sul web

Negli ultimi tempi, sempre più spesso si assiste ad atti di identità mafiosa espressi attraverso le nuove tecnologie di comunicazione digitale, segno che i topoi costruiti dal mondo di riferimento della mafia si siano adattato benissimo alle mutate condizioni della comunicazione. Dal santino funebre di Calò Vizzini si è, dunque, passati alle esternazioni televisive e processuali di Luciano Liggio, Michele Greco o Totò Riina, fino alla nuova frontiera dei social network, in cui è possibile constatare anche il grado di consenso sociale di cui ancora oggi godono la mafia e i suoi adepti. Un esempio di quanto questa organizzazione criminale abbia saputo adattarsi all’era del 2.0, sfruttando un mezzo duttile e difficilmente controllabile come quello dei social network, è dato dagli interventi che dal suo profilo Facebook Tony Ciaverello, genero di Totò Riina avendone sposato la figlia primogenita Maria Concetta, dedica a notizie che riguardano direttamente o indirettamente la sua “famiglia” (di sangue e acquisita). Nel giugno 2016 Ciavarello, in seguito all’‘inchino’, cioè alla sosta non prevista della processione della statua di San Giovanni Evangelista davanti alla casa della suocera, Ninetta Bagarella, moglie di Riina e sorella di Leoluca Bagarella, uno dei più feroci sicari corleonesi, ha formulato non troppo velate minacce (condite da insulti) nei confronti di Dino Paternostro, giornalista e segretario della locale Camera del lavoro, reo di aver condiviso l’articolo dell’edizione palermitana de «La Repubblica», firmato da Salvo Palazzolo, nel quale si dava conto della vicenda: «Signor Paternostro, questa volta le devo dare l’occasione di denunciarmi, ma me lo lasci dire… Buffone Lei e il suo collega che ha scritto l’articolo. Ma lei di più di chi l’ha scritto, visto che conosce benissimo le tradizioni corleonesi e dà visibilità a altri buffoni che x due lire spalano fango su un intero paese». Il post di Ciavarello denuncia una certa “aria di famiglia” rispetto ad altri analoghi interventi compiuti in passato da ben più blasonati (sul piano criminale) esponenti corleonesi. In particolare, si può osservare come l’argomentazione di Ciaverello tenda surrettiziamente a far passare la notizia che una delle processioni più sentite a Corleone sia stata caratterizzata da una sosta non prevista per rendere omaggio alla moglie di un ergastolano come un attacco contro l’intero paese, che in questo modo viene di fatto identificato con una sola famiglia. Inoltre, una tesi esplicita (Dino Paternostro è un buffone) viene impiegata per sostenerne una implicita, mascherata da argomento della prima (i giornalisti che danno notizie come quella dell’inchino spalano fango su un intero paese). Non siamo molto lontani dalla più classica delle tesi negazioniste sull’esistenza della mafia sin dalla creazione del comitato “Pro Sicilia” fondato nel 1902 da Giuseppe Pitrè per difendere l’onorevole Raffaele Palizzolo dall’accusa di essere il mandante dell’omicidio di Emanuele Notarbartolo, già sindaco di Palermo e direttore generale del Banco di Sicilia: la mafia non era altro che il frutto di un complotto per infangare la Sicilia e i siciliani. […] Il mondo della rete (e dei social in particolare) non ha lasciato indifferente la nuova generazione degli uomini d’onore. Giusy La Piana, nel suo citato lavoro del 2010, ricorda come Sandro Lo Piccolo (arrestato nel novembre del 2007 insieme al padre Salvatore, capo del mandamento di Resuttana – San Lorenzo) fosse un patito della rete, che utilizzava per cercare informazione e tenere i contatti durante la latitanza. Più recentemente, Antonio Nicaso ha messo in luce la passione per Facebook delle nuove leve della mafia palermitana, che, nascondendosi dietro profili di comodo, raccontavano della loro ascesa all’interno dell’organizzazione, con tutti gli annessi e connessi: foto con auto e barche di lusso, minacce contro poliziotti ed avversari celate dietro facezie più o meno dozzinali, come tante se ne leggono sul social più diffuso al mondo. Così, ad esempio, Domenico Palazzotto, giovane rampollo della cosca dell’Arenella, che si vantava di appartenere a una delle più antiche famiglie mafiose di Palermo, ancora pochi giorni prima dell’operazione che lo avrebbe condotto in galera, lanciava la sua sfida agli investigatori: «Tra il dire e il fare… c’è di mezzo il mare… quindi… siete e rimarrete dei poveretti… con un pugno di mosche in mano… hahaha erano convinti sti secchielli i miaidda» (http://espresso. repubblica.it/inchieste/2014/07/10/news/mafia-la-vitasu- facebook-del-giovane-padrino-tra-selfie-limousine71 lusso-e-insulti-alla-polizia-1.172851, pagina consultata il 20/10/2017). L’apertura delle nuove leve mafiose a un mondo, come quello dei social network, in cui l’ostentazione di parole, immagini, corpi è la ragione stessa della presenza di chi decide di entrarvi con un proprio profilo che comunica una specifica identità (vera o falsa, univoca o molteplice che sia), sembra sovvertire del tutto il tradizionale basso profilo che ogni affiliato è chiamato a tenere. L’horror vacui che sembra pervadere gli utenti dei social è, apparentemente, quanto di più lontano possa esserci dal silenzio a cui dovrebbe conformarsi l’uomo d’onore. In realtà, ciò che sembra emergere dai ragionamenti condotti fino a questo momento, è la capacità di Cosa nostra di adeguarsi al contesto (storico, economico, sociale, culturale) in cui opera, sfruttando, per quanto possibile, a proprio vantaggio le risorse comunicative che il contesto mette a disposizione. I giovani boss (o aspiranti tali) usavano Facebook come strumento di legittimazione e affermazione del loro potere, in un quadro in cui si ritiene necessario imporre la propria presenza e perseguire i tradizionali obiettivi attraverso anche questi nuovi mezzi. In una certa misura, il miglior modo di mimetizzarsi nell’era dei social network è apparire, ‘fare scruscio’. D’altra parte, non è tipico del mafioso ostentare la propria indifferenza alla possibilità di fare un po’ (ma non troppa) di galera? Non è tipico del mafioso mostrare obbedienza e rispetto ai propri capi? E non è, in ultima analisi, tipico del mafioso mostrare agli altri che a lui tutto è concesso? Nel capitolo successivo vedremo come il sistema comunicativo elaborato da Bernardo Provenzano negli ultimi dieci anni della sua più che quarantennale latitanza sia una delle prove più evidenti di questa capacità di adattamento della comunicazione mafiosa ai condizionamenti imposti dal contesto. Un contesto nel quale era meglio apparire non mostrandosi.

Giuseppe Paternostro

 

s200_giuseppe.paternostroGiuseppe Paternostro è ricercatore di linguistica italiana nell’Università di Palermo, dove insegna Analisi dei testi pubblici. I suoi interessi di ricerca vertono attorno alla sociolinguistica dell’Italia contemporanea e ai rapporti fra lingua, discorso e identità. In quest’ambito ha studiato in particolare le modalità di costruzione dei discorsi narrativi e argomentativi in diversi contesti (da quello quotidiano a quello politico) e in diverse varietà (italiano e dialetto)

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