
Hermann Hesse, Calw, 2 luglio 1877 – Montagnola, 9 agosto 1962
Soltanto la certezza che il suo sguardo basti da solo a rendere grande il lupo consola l’incapacità a trasfigurarlo licantropo pacifico in trecce e pelle di daino mentre scruta con rammarico gli ecomostri e li sconta con Toro Seduto, Geronimo e Capo Giuseppe. Orfano di domani, il suo cucciolo in via di estinzione commuove, perciò, nelle scuse che gli si porgono, bisogna proteggerlo.
La salvaguardia di Hermann Hesse per gli spiriti che si cercano lupi solitari accompagna ansia e costanza per sostare e pervenire alla scelta dell’interiorità. L’inquietudine assetata di sicurezza è la costante che consente di spendere le ore dei giorni e le settimane degli anni, spesso sciupati dalla banalità e dall’amministrazione ordinaria dell’orgoglio. Anche Siddharta e Harry Haller sono cercatori che sfruttano l’investimento dell’esistenza con il passaggio da indagine in esame, dalla concentrazione alla filosofia, fino al mondano. Nessun maestro riesce a definire le acquisizioni, l’emersione va colta nella singolarità del tutto che migra dalla pietra all’uomo e dona la prossimità della vecchiaia. “Lentamente fioriva, lentamente maturava in Siddharta il riconoscimento, la consapevolezza di ciò che realmente sia la saggezza, qual fosse la meta del suo lungo cercare. Non era nient’altro che una disposizione dell’anima, sentire l’unità e per così dire respirarla”.
La seduzione del brillio, nipote dell’apparire, rifluisce dietro la pacatezza della senilità al sorriso per prosperarsi soddisfazione o ironia. La laboriosità di posizione, lontana dalle primizie della materialità è il morire a sé con la neutralità del cuore che si svuota del superfluo.
La spersonalizzazione del pensiero apre all’immediatezza delle cose, il mondo senza indagine dispone all’infanzia della maturità e dopo l’iniziazione al sesso con Kamala e agli affari la rende diffida che approda al rifiuto. Non c’è pretesa di indicare la via ottimale per raggiungere il benessere, ma di supportare la condizione che privilegia lo spoglio delle emozioni e l’apporto da dentro di etimi e autopsie opposti all’astratto. Govinda non ha imparato niente e, quando supplica l’insegnamento della saggezza, Siddharta si limita a baciarlo e lo distanzia per aver intrapreso percorsi fuori dalla ragione. Il siero delle origini è alternativa, non rigetto ma rispetto per una logica disadorna che esercita fascino e seduce senza tecnicismi. Goethe anticipa nel Divano occidentale-orientale le premesse dell’armonia cosmica e la sua consapevolezza alla rinuncia delle vanità, Schopenhauer riceve le suggestioni e le suscita polemica contro la cieca volontà di vivere, Hesse eredita gli spunti con l’intento di unire i poli senza le reciprocità totalitarie degli egoismi. Durante lo spettacolo, per scongiurare il suicidio, Harry “Il lupo della steppa” compie il delitto ai danni di una Hermine consenziente. Dopo la pugnalata scatta l’ergastolo nel “Teatro magico” tra i matti, con Mozart a fianco che lo insulta e lo provoca all’ilarità delle sue disgrazie in eterno. Le H anagrafiche, Hesse-Harry-Hermine fingono il mosaico di un assemblaggio tra biografie e il manoscritto sulla natura bicefala, una elevata con inclinazioni alle arti, l’altra di brado che rifiuta l’esteriorità della classe media sono memoriale di esclusione con manie anticonservative.
Lo svezzamento disinibito di Hermine e la Dissertazione sul lupo della steppa adempiono all’unità di propositi e tendenze senza scismi nella persona, stringono le sue indoli con varietà e sfaccettature di genere per definirsi prosciugamento di un modello interpretativo. Lo sfogo “Questo pianerottolo con l’araucaria ha un odore delizioso, non riesco mai a passare senza fermarmi un momento” è la guarigione dalle aporie se si presume Harry di Hesse sogno di un’ombra e se la metafisica del palcoscenico trasforma l’ascesi di uomini e valori catarsi definitiva con l’omicidio intimo delle lusinghe, sebbene il crimine paia colposo in apparenza. La ressa dei propositi che articola le neutralità si attiva sirena d’emergenza e fa confluire sani nella disperazione all’uscita di sicurezza, dove “Attenti al lupo!” insiste ritornello che scoraggia il panico.
Gli itinerari non negoziabili, digiuno e astinenze assieme all’esodo nell’anti successo sono fatica selvatica verso le adesioni salvifiche della modestia. Deporre i veli alla ristrettezza di orizzonti e distrarsi dallo smartphone è sarcasmo conveniente per le operette morali in seno alla comunità del dispiacere, invece l’inedia di ululati è sempre paralisi difronte alla vita ancor prima di affrontarla.
Michele Rossitti
Grazie