«Dal dì che nozze e tribunali ed are/ dier alle umane belve esser pietose / di se stesse e d’altrui» (U. Foscolo, Dei Sepolcri, vv. 91-93), cioè da quando l’uomo può riconoscersi animale sociale e civile, Poesia, Cultura e Religione sono chiamate a fornire una spiegazione accettabile alla morte. È il mistero spaventoso della morte, difatti, il motore nascosto del pensiero umano: muove tutto da lì. Una specie di orizzonte pre-categoriale. Scrive Alberto Savinio (Prefazione a Casa “La Vita”): «… ho cominciato a pensare alla morte quando ho cominciato a pensare. Pensare è una sineddoche. Pensare è la parte di un tutto. Pensare implica un sottinteso che si tace per pudore mentale: per quel medesimo eufemismo che di una persona morta ci fa dire che “essa non è più”. Quando si dice “pensare”, s’intende “pensare alla morte”. E a che altro pensare?». La morte è il “non tempo” che permette il tempo e gli dà inizio, perché ne segna l’interruzione, l’irreversibile lacerazione, l’azzeramento della possibilità: è il “non più proponibile al nuovo”. Chi muore si ferma per sempre nel gelo del suo ultimo istante, mentre gli altri continuano a vivere, crescere, invecchiare, scorrere nel tempo. La morte permette di guardarsi dal di fuori: quel cadavere è ciò che un giorno anche noi saremo. Nel vivere con la morte, tentando disperatamente di sconfiggerla, è racchiusa la nostra solitudine infinita. La morte è l’unica cosa della vita non condivisibile, non sperimentabile insieme a qualcun altro. Ognuno è tremendamente solo dinanzi a questo mistero che non si può aggirare. Tutti i significati in cui l’uomo ha tradotto l’esistenza incomprensibile del mondo, rispecchiandosi in esso, nascono dal bisogno disperato di “farsi compagnia”. Abbiamo affollato il mondo di potenze simboliche, pur di non rimanere soli con la nostra paura del vuoto. La coscienza dell’uomo coincide con la sua capacità proiettiva, cioè di emergere dalla “presa diretta” del fenomeno naturale che ci consuma tutti, attimo dopo attimo, fino alla disgregazione. La cultura stessa nasce dalla stazione eretta, che libera la mano dagli scopi di locomozione permettendole di fungere da utensile abilitato a lavorare fuori dal corpo (pur facendone parte) e conquistare lo spazio circostante. Anche la scrittura è un medium proiettivo; anzi, ancora più efficace perché sublimato e simbolico: ci permette di essere “noi” al di fuori di noi stessi. Il poeta compie un rito di fondazione ancestrale, anticipando la propria morte nella forma lapidaria della parola scritta e poi stampata, che estrae da se stesso, dal mistero della propria verità. Ciò facendo, il poeta sperimenta la dimensione del Sacro. Ma il Sacro si manifesta al tempo storico dell’uomo sotto forma di Potenza immediata, da un lato, e di Potere mediato, dall’altro. Il Potere è una costruzione artificiale e tendenziosa: utilizza il Sacro (e il timore che il Sacro suscita) per tenere gli uomini lontani dalla sorgente primaria della Potenza. Il Potere sta alla Potenza come l’istituzione della Chiesa – con tutte le storture dei suoi “tradimenti” – sta all’esperienza mistica o alla fede sincera. O come l’Istituzione letteraria – con tutte le sue conventicole e le sue prelazioni gerarchiche – sta alla “scossa elettrica” della Poesia.
Ora, il punto cruciale è che molti poeti cercano il Potere, anziché la Potenza a cui attingere il sacro della propria arte. Amano più se stessi e il proprio successo, appunto, che la propria arte. Il valore, oggi, finisce per coincidere col potere: sei bravo se conosci, se hai rappresentanza, se sai collocarti e “muoverti” in alto loco. Non conta ciò che scrivi, o conta relativamente. Il poeta ricco di Potenza ma privo di potere viene surclassato dal suo antagonistico dirimpettaio, il poeta ricco di Potere e privo di Potenza. È sempre stato così, certo, ma oggi più che mai. La colpa è anche della pigrizia mentale dei fruitori che, quasi obnubilati nella loro autonomia di giudizio critico, tacciono il valore nascosto e viceversa amplificano il giubilo riconosciuto, ripetendo a pappagallo ciò che viene propinato dai mass media. L’autore viene giudicato sulla base dei “si dice” banalmente rimasticati, o dei segnacoli di Potere che ne veicolano l’ascesa: se lo ha pubblicato il grande editore o lo ha recensito il grande giornale, deve essere “per forza” bravo; anche nel caso in cui, poi, la sua pagina delude per mediocrità. Un ottimo libro pubblicato dal piccolo editore suscita reazioni di livido ostracismo; ma se invece poi ne parla la TV, ecco scrosciare gli applausi e fiorire i corteggi di genuflessioni.
La realtà attuale della poesia in Italia è che tutti scrivono e quasi nessuno legge: è un continuo tamtam autopromozionale nel tentativo disperato di vendersi a un pubblico ormai inesistente e indifferente, proprio perché formato per lo più da poeti concentrati solo su se stessi e impegnati a sgomitare per la conquista del Potere, cioè del successo. Quest’ultimo è mutuato impropriamente, a mo’ di traslazione immaginaria, dai modelli globalizzanti dello star system. Ma lo star system è “prosa” feroce di investimenti, numeri e finanza: quanto di più lontano dal silenzio autologico e “inutile” della poesia, dalla sua tormentata e misteriosa inconcludenza. È mai diventato, un poeta, celebre, popolare e universalmente acclamato come un attore o un cantante? Accadde forse a Neruda, ma è un caso eccezionale e – soprattutto – erano altri tempi. A quanti poeti, benché autorevoli e “laureati”, si chiede oggi l’autografo per strada? Quante copie dei loro libri possono sperare di vendere? La chimera del successo è dunque una “fola” sciocca e improbabile, che distoglie il poeta dal suo mandato, vampirizzando le sue autentiche energie. La poesia è “altro” dai meccanismi dell’industria culturale: è forte del suo essere diversa, appartata, irriducibile, e deve appunto difendere la specificità del proprio spazio di resistenza umana, senza coprirsi di ridicolo imitando ambiti che non le pertengono e non le appartengono. Viviamo d’altra parte in un tempo post-utopico. Le merci linguistiche globalizzate si polverizzano nella frastornante caligine dei media. Il soggetto è scisso e privo di radici, apatico, disorientato: palpita in un flusso simultaneo di stimoli che lo conducono alla nevrosi. Il pensiero “debole” e la parola “inflazionata” hanno perso la loro compatibilità con l’esperienza, con la capacità di cogliere e comunicare un senso complessivo dell’essere e dell’uomo. Ecco il nichilismo imperante, cioè la perdita esiziale del “fondamento ontologico” su cui poggiava ogni ipotesi di unità. Ecco, di conseguenza, la rinuncia a priori alla dicibilità del mondo: il minimalismo, la parola vuota, la chat-poetry che autorizza tutti a sentirsi scrittori. Invece la magia resta questa: che il complesso dell’esperienza umana, cioè un profilo possibile dell’uomo frantumato in mille pezzi, può essere colto sempre e soltanto attraverso un atto creativo disinteressato, l’atto della poiesis. Da qui l’importanza della poesia per ridare vigore alla lingua consumata dai media e riaccendere la forza del pensiero. A patto che il poeta si concentri di più su ciò che realmente sta facendo, senza lasciarsi distogliere da interessi e ambizioni che con lui hanno davvero poco a che spartire.
Marco Onofrio
Complimenti vivissimi a Marco Onofrio che ci ricorda le più autentiche ragioni del poetare. Spero mi perdonerà un piccolo, ma credo non insignificante, ritocco al suo limpido meditare: “A patto che il poeta si concentri esclusivamente su ciò che realmente sta facendo…” Grazie Marco!
Grazie a te, caro Paolo. Con quel “di più” ho voluto concedere un piccolo spiraglio alla vanità, che sempre accompagna la personalità creativa in qualsiasi campo artistico. “Cum grano salis” non è aspetto dannoso, poiché correda di giusto orgoglio la consapevolezza del poeta. I danni o i disastri cominciano quando prevale soltanto l’ambizione e la ricerca del successo: è allora che il poeta si smarrisce dentro un labirinto nevrotico dove naufraga l’essenza del suo dono.
Grazie all’Autore. Una sottolineatura che dovrebbe essere meditata sia dai lettori che dai poeti:
“ La realtà attuale della poesia in Italia è che tutti scrivono e quasi nessuno legge: è un continuo tamtam autopromozionale nel tentativo disperato di vendersi a un pubblico ormai inesistente e indifferente, proprio perché formato per lo più da poeti concentrati solo su se stessi e impegnati a sgomitare per la conquista del Potere, cioè del successo.
…La poesia è “altro” dai meccanismi dell’industria culturale: è forte del suo essere diversa, appartata, irriducibile, e deve appunto difendere la specificità del proprio spazio di resistenza umana, senza coprirsi di ridicolo imitando ambiti che non le pertengono e non le appartengono.”
Forse hai ragione tu, caro Marco, a “concedere un piccolo spiraglio alla vanità”. E’ certamente una posizione più equilibrata e realistica. Eppure tanta poesia travalica i secoli proprio perché ha richiesto al singolo poeta un sacrificio totale, l’anticipazione della “propria morte nella forma lapidaria della parola scritta” come tu stesso felicemente scrivi. E non dimentichiamo che le originarie, antichissime e limpidissime fonti del poetare sono sostanzialmente anonime…
Concordo pienamente su tutto.
D. A.
Mi piace moltissimo questo articolo. Condivido in pieno. La poesia è un valore di umiltà e condivisione e non dovrebbe aspirare al successo editoriale, quanto ambire ad ergere la propria e l’anima altrui. Complimenti!