Giuseppe Manfridi, “La cuspide di ghiaccio”, Gremese, letto da Dante Maffia

7054f38f44dcc21f9329a647def8330c_origSono sempre stato convinto che i romanzi degli scrittori di teatro pullulano di vita vera e spesso sono più palpitanti di tanti altri libri di scrittori dediti interamente alla narrazione. E c’è una ragione obiettiva in questo, essi sono abituati al dialogo, sono duttili ed essenziali e non fanno mai aggiunte esornative che non servano alla sostanza delle vicende. Prova ne è La cuspide di ghiaccio di Giuseppe Manfridi, sicuramente uno dei massimi drammaturghi italiani e non solo, uno che alle parole fa sempre corrispondere il fiato umano e non astrazioni di pura letteratura.  Premessa doverosa, la mia, per dare l’idea di un romanzo lontano dalle sperimentazioni in atto da qualche decennio, per preparare il lettore a godere pagine altamente dense di problematiche che nascono da un vissuto saputo raccontare con dovizia di particolari, ma soprattutto con la lucidità di chi vuole scandagliare i rapporti umani fuori da qualsiasi stereotipo e presentarli nella naturalezza dei contrasti, nelle complicazioni sociali e  psicologiche con i loro strascichi pesanti. Al di là della storia comunque interessante e ricca di risvolti, perfino impensati, quel che conta in questo libro è la maniera in cui Manfridi racconta, il suo saper portare la parola a una fusione perfetta con le cose. Ancora una volta pregio che arriva  dal teatro, dove non si può bleffare con i ghirigori e gli eufemismi, e dove tutto deve avere sapore e palpito di verità. Si noti come Manfridi sa dosare gli scatti narrativi, il ritmo, perché no, la suspense, come sa calibrare i rapporti ora rendendolo complicati e ora aprendoli al soccorso di una qualche soluzione che però serve a sviare e a ridare spazio a una nuova circostanza…

Certo, sul rapporto delle coppie esistono migliaia di volumi, ma qui c’è qualcosa di diverso e non è tanto da cercare negli avvenimenti di un quotidiano che in fondo si ripete da millenni, ma nel come lo scrittore li pone in sequenza e li decifra, ce li fa sentire come eventi di cui in qualche modo siamo addirittura responsabili. La narrazione è scandita da brevi capitoli che portano un titolo esemplificativo, per dare un solco da percorrere visto che la materia si snoda e si apre a continui affluenti che intendono da un lato specificare il senso dei rapporti e dall’altro intrecciarlo ad annotazioni direi sapienziali, perfino metafisiche. Ci sono momenti, riguardanti soprattutto Giovanna, nei quali Manfridi mette la protagonista dinanzi al suo male, ma rendendola partecipe di un universo armonico che le evita di cadere nel pozzo profondo per diventare filosofia dell’essere e del divenire; momenti in cui il fatto si carica di nodi esistenziali che stridono e vorrebbero uscire dal circuito delle abitudini: “L’impalpabilità di uno spettro è ferro per la tenera carne di una mano viva che sia chiamata alla sfida. Come combattere contro il mare, o il fantasma del cielo. L’inumano è sempre più forte dell’umano. L’irreale del reale”. Appena un cenno, un assaggio della plasticità e della intensità della scrittura di Manfridi che in questo libro tenta una strada pressoché impossibile: far convivere generi diversi in una medesima pagina, trovare una soluzione per amalgamare romanzo noir e fantasy, psicologico ed esistenziale, romanzo di idee, giallo e mistery. Operazione riuscita grazie a due elementi  importanti che lo scrittore possiede in sommo grado: la fermezza di una regia che antivede e distilla in dosi omeopatiche gli accadimenti e la conoscenza dell’argomento stabilito  nel momento stesso dell’incipit. Non ci sono le trovate e gli escamotages delle improvvisazioni, non  ci sono gli espedienti ormai dilaganti dei tanti nuovi romanzieri che si servono di finzioni stratagemmi, ripieghi e sotterfugi per sbalordire, c’è la sostanza di una narrazione che porta avanti una tesi nella “libertà” scelta e concordata da Manfridi per Manfridi con impegno etico ed estetico. Da qui quell’alitare poetico che, pur nella complessità di un groviglio psichico dei personaggi poggiato su una cuspide di ghiaccio, rende la lettura piacevole e affascinante anche se non sempre facile perché a volte troppo ricca di sfumature e di sensi reconditi o inediti. Riuscitissimo il ritratto di Giulietta, innanzi tutto, e poi di Giovanna e di Enrico, ma soprattutto riuscite alcune pagine esemplari che fanno immergere in certe atmosfere di Huysmans o di Ibsen. Bando però alle percezioni che hanno sempre una dose molto personale di emozione. Certo è che in taluni momenti, non so, si leggano le pagine 128, 129, 130, per fare un solo esempio, la penna di Manfridi si fa aerea, felice e tocca punte di perfezione quando parla del paesaggio in un quadro o quando nel finale, da una parte inaspettato e dall’altra conseguentemente logico, sentiamo fremere il mistero in tutta la sua portata esoterica. Libri così riusciti sono la conferma che la narrativa italiana, quella che non bada a fare cassetta, è ancora vivissima. Forse i giovani narratori dovrebbero frequentare un poco di più il teatro, che ve ne pare?

Dante Maffia

 

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