Parecchi anni fa, esattamente nel 1985, scrissi un libro su Giorgio Saviane edito da “Lunarionuovo” di Catania con una lunga e dettagliata Presentazione di Dario Bellezza. Non sono stato mai soddisfatto del lavoro e ne do le motivazioni. Era l’epoca in cui, dopo avere letto le opere di alcuni autori italiani, mi piaceva tracciarne un profilo come quelli dedicati a Gina Lagorio, Grazia Deledda, Salvatore Quasimodo, Antonio Altomonte, Claudio Magris, Antonio Tabucchi. Non ho mai confessato a Giorgio Saviane che mentre mi stavo dedicando alle sue opere, prendendo gli appunti su fogli di carta protocollo, in casa mia entrarono i ladri e con quei fogli incartarono alcune cose preziose e delle bottiglie di vino prese in cantina. Chi conosceva il suo carattere sa che mi avrebbe telefonato dandomi fretta di finire e io, avendo perduto il filo magico di certe osservazioni di lettura e di certe intuizioni che, come lui scrive, non sono la verità “ma uno scalino della verità” (p. 143) non sapevo come riannodare la logica del discorso con immediatezza. Così rabberciai un poco, ma non fui soddisfatto del libro, se non per alcune parti, come quella dedicata a Il mare verticale. Direte che sarebbe bastato raccontare del furto a Saviane e pregarlo di avere pazienza. Sarebbe sembrata una di quelle bugie, di quelle scuse imperdonabili che avrebbero suscitato in lui il sospetto di non avere lavorato sui suoi libri e che stavo un po’ giocando. Insomma, non sono soddisfatto del mio testo di allora e perciò ho riletto tutto daccapo senza tenere conto del passato, anche per vedere se oggi i libri di Saviane reggono, hanno ancora da dire, se sono segni di una perennità che appartiene ai grandi scrittori. Non c’è dubbio che reggano e possono ancora, e direi sempre, arrivare al cuore del lettore per una serie di motivi che vanno dalle tematiche affrontate alla passione con cui sono interpretate, e da quel prezioso fiato etico che accompagna le vicende senza mai farle entrare nell’ombra o nell’ambiguità. La scrittura di Saviane non ammette l’indeterminatezza o l’oscurità, non si presta alla confusione; ha il dono evidente della consapevolezza e senza che questa impedisca le emozioni forti. Ma andiamo con ordine.
Dunque ho di proposito dimenticato quel che ho scritto trenta anni fa. Rileggo tutto come se fosse la prima volta, voglio assaporare le sorprese, il calore umano e spirituale che mi arriva dalle pagine e verificare se i protagonisti che allora mi affascinarono siano ancora vivi, ancora compagni di viaggio validi e se le idee di Saviane hanno ancora la forza contundente che lo portò alla ribalta letteraria già al suo secondo libro, L’inquisito (1961), dopo una cauta accoglienza riservata al primo, Le due folle (1957) comparso sotto il nome di Federico Saviane. Cauta per modo di dire, perché era stato recensito da Manacorda, Baldacci, Senesi e De Logu. Non mi soffermerò, se non di sfuggita, sulla novità portata da Saviane, nel panorama spesso ripetitivo della narrativa italiana, cercherò di tenere fede al titolo della mia relazione e vedere come l’ossimoro amore-ragione abbia avuto libro dopo libro un rigore quasi filosofico. Sia quando si tratta di amore terreno e sia quando si tratta di amore divino. La mia attenzione verterà sull’amore terreno, sulla figura della donna per cercare di capire quanto sia necessaria per entrare anche nelle verità dell’Assoluto. Saviane non ha mai barato, né con gli altri né con se stesso, e quindi basta seguirlo attraverso le figure femminili per poter delineare come egli abbia inteso e vissuto l’amore, quali siano state le ragioni dell’amore.
Ne Le due folle c’è Lia, che ha qualcosa di irregolare nel comportamento, che è sicuramente buona, che non è devota, ma ha un odore che turba e avvince e Don Sergio ne è preso come se fosse entrato in un delirio dolce da cui non sa come uscire. Aldo è innamorato di lei, incarica Don Sergio di convincerla a sposarlo, ormai da meccanico è diventato calciatore di serie b e avranno quindi agiatezza. E Don Sergio va a Firenze dalla ragazza e le parla, ma è come se parlasse per se stesso, come se a un tempo commettesse un’azione maligna nei confronti di Aldo e una scelta d’amore nei confronti di se stesso. C’è un precedente molto simile nella narrativa italiana, La madre di Grazia Deledda. Anche prete Paulo si dilania nel dubbio, vive le contraddizioni più atroci, si ripete che “La castità non è un sacrificio” (p. 152), che “la castità è bella” (p. 153), ma l’amore è forza dirompente che fa crollare le montagne e allora ecco come risolvere il dilemma: “l’amore inonderà la terra e noi dobbiamo imparare a rizzare il capo e respirare l’aria di Dio”. Insomma, l’amore ha sempre delle ragioni e anche quando paiono irrazionali o addirittura metafisiche, ci accorgeremo che si tratta di ragioni che comunque non si possono rispettare secondo la logica delle convenzioni sociali o religiose. Le scene del gallo, delle bisce, del ragno sono descritte da Saviane con dovizia di particolari per preparare ciò che accadrà tra Don Sergio e Lia. A dimostrazione del fatto che nel desiderio amoroso, nelle spinte verso l’altra ci sono anche ragioni della carne, non solo del cuore e della mente. Il romanzo ha pagine indimenticabili addirittura espressioni poetiche rilevanti, dei versi indimenticabili, ed ha il “merito di aver per la prima volta introdotto con intenzioni serie nella letteratura quel grosso fenomeno della vita moderna che è lo sport in generale e il calcio in particolare”, come annota Giuliano Manacorda, ma io non entrerò nei tanti meriti di un esordio, siamo negli anni cinquanta, cioè in pieno neorealismo imperante, che ignora la moda e si tuffa, adopero di proposito il verbo, in argomenti difficilissimi, esistenziali, umani, sociali e religiosi innestandosi sulla linea dei grandi filosofi e narratori europei, da Dostoievskij a Bunin, da Hamsun a Mann, da Montaigne a Renan, da Pascal al migliore Papini. Mi limito a seguire il filo del discorso sull’amore che in Saviane, a cominciare dal primo libro, non è mai intriso soltanto di terrestrità o di divinità, ma è posto sempre a confronto, con scontri e abdicazioni, con pacificazioni e contrasti enormi fino ad arrivare, a volte, a rasentare l’eresia, anche se nella concezione di Saviane, lo dice in maniera perfetta Carlo Sgorlon, in un bellissimo scritto pubblicato su “Nuova Antologia”, “Non vi è orrore che l’amore non possa capire e perdonare”, perfino quel pensiero davvero scandaloso che Don Sergio ha in un momento in cui è “Teologo della verità che non capiva” e “Voleva cambiare nome a Dio e alla verità”. Le due folle è importante anche per un’altra ragione da non trascurare: Saviane intuisce, prima ancora di tanti sociologi e politologi americani, il problema che ormai è pieno di situazioni angoscianti e drammatiche tra l’individuo e la folla. Quella “folla solitaria” di cui poi si è parlato, e che è davvero una bestia senza capo né coda che vegeta dentro la più sordida irrazionalità. E nella più sordida irrazionalità (qualcuno dice casualità) vegetava e vegeta anche la giustizia. Saviane ha vissuto nell’ambiente dei tribunali e ne ha conosciuto i meandri oscuri, le atmosfere kafkiane e i rapporti alienanti tra avvocati e accusati, giudici e pubblici ministeri, codici che restano barlume di teorie. Scrive L’inquisito con una carica di indignazione sbalorditiva portando la scrittura in un crogiuolo lucido di allucinazioni tanto è sincopata e ossessiva. Nessun antefatto prima di entrare nella cosa, subito lo scatenamento del terrore con quel colore nero che ribadisce lo stato d’animo (la mia monografia del 1985 su Saviane si intitola I colori della vita nella narrativa di Giorgio Saviane) del protagonista Luca Marniani.
Anche in questo romanzo, dove potrebbe sembrare che la donna, l’amore non abbiano nessuna funzione, o appena una funzione marginale, le ragioni dell’amore (le corse per andare a trovare Paola, Paola come risorsa per superare l’angoscia, per respirare, per sentirsi vivere) sono al centro della salvezza dell’inquisito: “Recarmi da Elvira significava ammettere che Paola era morta senza lasciare traccia di sé, inutilmente” (p. 58). Invece l’amore persiste anche dopo la morte, ha ragioni ancestrali e inspiegabili che però aiutano ad essere se stessi, dentro quella libertà vincolata in cui si ricrea l’universo e lo si guarda attraverso la razionalità dell’abbandono protetto. Paola è l’amore; Elvira l’occasione, il sesso, la carità. E l’occasione, il sesso, la carità non hanno ragioni, tutt’al più possono configurarsi per un attimo in apparenze di verità in fuga, sono un palliativo.
Ne Il Papa Saviane si dispiega in tutta la sua ampiezza introspettiva e scava nella psiche con una visionarietà che ha dell’incredibile, Tanto che “il maggiore pensava che quel prete era un poeta, e che un poeta è sempre un santo”. Romanzo assai complesso, condotto con rigorosità psicologia e strutturato dentro una logica nella quale le “vertigini” dei sogni di Claudio non si piegano a nessun dubbio. Perché, “l’amore… è azione, coraggio, spavalderia” (p. 243)… “una carica istintiva” (pag. 266), e dunque ha “ragioni” ancestrali dentro le quali è estremamente difficile spiare per poterne comprendere l’essenza se non ci si mette dalla parte di chi ama, quale che sia l’oggetto dell’amore.
Sul successivo romanzo di Saviane, Il passo lungo, i critici si sono sbizzarriti nelle definizioni fino ad affermare che si tratti di romanzo morale o a segno morale, come scrisse Toscani. La vicenda del libro, per molti aspetti autobiografico, a detta dell’autore, è ricca e affascinante. La storia d’un amore s’intreccia e s’innesta a quello di un altro amore e il tempo sparisce collocando le scene in un’atmosfera di singolare bellezza, in un tempo dell’anima. Qui le ragioni dell’amore diventano perentorie, quali che siano, e non importa da dove scaturiscono e dove potrebbero andare. Sono ragioni ancestrali, di un’anima che ha accumulato il senso del vivere e del morire dentro una linea logica a cui bisogna obbedire per non far diventare tutto bruttura e inessenzialità. La penna di Saviane diventa magica e così l’amore prende la sua identità che non riconosce confini e limiti e non perché si siano rotte le coordinate etiche, ma perché le pulsazioni del sangue hanno trame che si diramano verso l’infinito del senso, per definire quella che poi sarà la poetica della “verticalità”.
Dante Maffia