“Miniere cardiache” di Roberto Pallocca, letto da Marco Onofrio

miniere

Giunto alla sua quarta prova narrativa, dopo un silenzio “sabbatico” di sette anni, con “Miniere cardiache” (EdiLet, 2015, pp. 128, Euro 12) Roberto Pallocca porta a maturazione il suo talento letterario e perfeziona a livelli di eccellenza il suo strumento espressivo, confermandosi come uno degli scrittori italiani più interessanti e promettenti delle nuove generazioni (è nato nel 1981). In questi sette anni Pallocca ha preso la mira e calibrato il tiro, crescendo senza ansia di apparire, strafare, bruciare le tappe. Ha sedimentato vita, ascoltando le storie degli altri e vivendone di proprie. Ha letto centinaia di libri, soprattutto opere di narrativa. Ha percorso migliaia e migliaia di chilometri su e giù per l’Italia, espletando il suo lavoro quotidiano di capotreno nei velocissimi Frecciarossa. Insomma, ha filtrato l’acqua metaforica del mare, come l’ostrica, per ricavarne la perla lucente di questo libro, splendido e inappuntabile, che ha la consistenza organica di un’auto-antologia calibrata sulla misura perfetta del racconto breve.

Sono racconti pervasi da un’inquietudine sottile e persistente, difficile da tenere a bada. Un’inquietudine che abbraccia il rischio connaturale all’esistenza, la giostra dei destini in corso, la potenza schiacciante del tempo che divora, e la febbre inestinguibile di vivere, di essere esperienza. C’è un malessere strano, come un dolore difficile da localizzare: l’insaziabilità di una ricerca che non ha mai fine perché serve a vivere, e coincide col vivere stesso, con l’ebbrezza libera di esserci. La pienezza armonica dell’esistenza è irraggiungibile per definizione: è un sospiro che vale solo come rimpianto, o al limite come rimorso. È la ferita scorticata del possibile. Al pari della felicità: la si desidera come puro traguardo, orizzonte o termine ideale, ma si fa di tutto per esorcizzarne la delusione, l’inevitabile caduta, il punto dove dirsi “è tutto qui”. La felicità mette paura! I personaggi di Pallocca sono creature umane che cercano di sopravvivere, di tenersi a galla, di cavarsela tra le onde e le tempeste della vita. Ci fanno da specchio, vibranti e imperfetti come siamo. Ogni racconto di questo libro è, a ben vedere, il nastro trasportatore di un’esperienza evolutiva e conoscitiva, racchiuso tra i bordi del tempo e della realtà. Ogni racconto si può misurare su un piano esterno (diacronico-sequenziale), e un piano interno (sincronico-simultaneo) dove si rivela il “doppio fondo” della valigia trascinata e aperta dal prestigiatore-narratore. Il censimento narrativo del mondo prevede dunque una dimensione parallela alla realtà delle cose toccabili: è lì che accade ripetutamente una trascrizione metaforica e spesso emblematica del sentimento, in cui Pallocca avvince per la freschezza sorprendente delle sue similitudini; ed è lì che si disegna una sorta di topografia stratificata delle emozioni: ecco ad esempio i luoghi dove si ripongono i sorrisi (il corpo stesso è un «luogo in cui tornare, un odore, un calore»), o i «boschi emozionali» del didentro. Sono luoghi – spiega Pallocca in un passo – che «non occupano uno spazio (…), luoghi immaginati, eppure danno emozioni più concrete dei loro omonimi geografici. Sono coordinate interiori, latitudini dell’anima, in cui si mette piede solo grazie a qualcuno che ci accompagna»: e «non esistono mappe, non esistono indicazioni», anche perché «da un istante all’altro le cose cambiano». L’impermanenza e la fragilità dell’umana condizione sono tratti peculiari della narrativa di Pallocca: ha un occhio istintivamente predisposto a indovinare crepe e prevedere il vuoto, anche in presenza del muro più solido e compatto. Esistere significa essere «come un tetto di paglia al cratere di un vulcano»: tutto può incenerirsi in un momento. Ognuno è solo dinanzi a se stesso, al proprio respiro fragile, alla propria morte; per quanto l’amore ci possa mescolare le ossa, gli umori, i respiri. L’amore stesso è un «percorso personalissimo che ognuno fa dentro di sé». Ma amarsi è anche «scardinarsi a vicenda le solitudini chiuse a chiave nel cuore, lasciarle evaporare». E la morte è il termine assoluto che dà senso e valore alla vita. Il muro finale che rende unico ogni viaggio.

Se dovessimo disegnare in uno schema i poli magnetici di questo universo narrativo, potremmo individuarli così: da un lato, in orizzontale, Amore e Psiche, cioè istinto, sentimento, apertura al divenire, incoscienza, «soffice e ingiustificata gioia di vivere» contrapposti a ragione, realtà, coscienza, certezza di essere e di appartenere; dall’altro lato, in verticale, Tempo ed Eterno, cioè storia, identità e persona contrapposte a natura, mistero e mondo. Il fulcro della scrittura di Pallocca è l’intersezione pulsante e, per così dire, la compromissione esistenziale dell’Essere col Tempo. Anche l’amore è «a tempo»: «Ogni cuore è dinamite e la tua miccia è accesa da troppo tempo». E Pallocca si chiede, insistentemente: qual è l’inizio della fine? Qual è il momento esatto in cui si capisce di non amare più? E cosa càpita nel cuore quando questo accade? E quando emerge il punto della crisi? Quand’è che si rende visibile la crepa? E come si accetta la fine di un sentimento? Come si dice addio? E ancora, con la forza ipnotica di un mantra: «come si riconosce che un amore sta finendo? Ed è possibile prenderlo per tempo? Salvargli la vita facendo prevenzione, come per le malattie incurabili? È possibile?» Sono domande a cuore aperto, volutamente “ingenue”: presuppongono la stessa sospensione dell’incredulità che si richiede al lettore, disteso sopra l’onda di un racconto. Credere all’essere non può disgiungersi dalla percezione profonda e dolorosa del tempo «entro cui» all’essere è dato articolarsi nell’evento, attraverso un attimo che cambia per sempre le cose. Pallocca li chiama «momenti performanti, in grado di dare forma, spazio, direzione a ciò che ancora deve avvenire». Il racconto-tipo di questo libro attraversa e ispeziona l’essere, e quindi la difficoltà cruciale delle scelte, poco prima o subito dopo un evento decisivo, spesso irreversibile (ad esempio il matrimonio che trasforma la quotidianità; o un incidente simulato, anzi procurato, per riscuotere i soldi dell’assicurazione; o la notizia di una diagnosi medica sbagliata che riporta in vita, dopo che erano stati pronosticati quattro mesi scarsi); oppure si interroga su ciò che sarebbe accaduto se le cose fossero andate diversamente: «Mi chiedo da ore dove sarei adesso se quattro anni fa non fossi andato in vacanza a Palinuro. E non avessi fatto lo scemo quella sera». Ma il tempo circoscritto dalle scelte non de-finisce soltanto l’infinito delle possibilità, mortificando la libera espansione delle energie creative; il limite reale delle cose ha anche una capacità terapeutica di compensazione. Pallocca scrive di «proprietà salvifica delle emozioni dolci, dei progetti a lungo termine». Il tempo come futuro, come progetto, come speranza, ma anche come ritorno, restituzione, perdono. Le cose sono intrise di tempo, di essenza, di presenza: è in questo corposo e palpabile sapore che si rivela, più potente che mai, l’impronta umana: «le cose» – nota Pallocca – «non sono più cose senza gli uomini che le afferrano, le strizzano, le usano. Senza le mani che le nobilitano, le lingue che le chiamano. I cuori che si affezionano. Gli occhi che le osservano».  Così, nel tempo storico che dilatano, soffiando dentro i sogni di una vita, i personaggi di Pallocca sprigionano la loro condizione di disagio sociale: la loro solitudine, spesso piccola come un bicchiere quando devi svuotarci il mare dell’infelicità. Vivono lo spessore del silenzio entro cui pensano alla propria esistenza. Marcello, ad esempio, «sente la distanza, il vuoto che c’è tra i suoi desideri e la sua vita, il peso di quel vuoto lì». Ecco manifestarsi, più evidente, l’arte non contraffabile dello scrittore, con la sua capacità di aderire alla sottigliezza – indecidibile, ma per questo più decisiva – di certe misteriose sfumature. Da cui l’importanza dei dettagli, che nascondono e al tempo stesso svelano l’infinito. E dunque la “microfisica” impalpabile dei sentimenti, anche a livello di “chimica” dei corpi e dei pensieri. E la struttura energetica parallela al peso consistente delle cose: il loro “doppio” invisibile o pulviscolare.

Questi racconti nascono, più di quanto appaia a prima vista, da un confronto serrato con i limiti del sogno e gli spigoli appuntiti del reale. La maturità che l’autore sta conquistando attraverso la sua crescita di uomo si percepisce, a livello psicologico, nella via maestra che conduce il perfezionismo all’ottimalismo. Pallocca ha imparato ad accogliere la “complessità” della vita, che non è mai un percorso netto e pulito, poiché «ci sono inciampi, ci sono delitti, ci sono malinconie. Questo, chi ama davvero, non può fingere che non esista». Chi cerca la perfezione è destinato alla continua sofferenza; l’ottimalista mette in conto le altalene della vita e dell’amore: accetta le cose così come sono, senza illudersi o raccontarsi favole. E questo contribuisce alla buona salute della nostra mente. Per scrivere, poi, è imprescindibile esplorare il rovescio della presunta normalità, affrontando l’ombra che nutre il chiaro della luce fino a comprendere il contenuto immenso che abbiamo dentro, appunto le “miniere cardiache”, la presenza che emerge quando «i lineamenti smettono di insistere sul viso e si dilatano», quando cioè la maschera sociale si scioglie nella verità del volto. Pallocca rivendica ai suoi personaggi il diritto di sporcarsi, smarrirsi, combinare guai, deragliando dalla diritta via: «volevi sbagliare (…) persino tradire. Persino fare fatica a perdonarti. Volevi avere il disagio di amare, non la sola gioia». Amare la «pallida imperfezione degli esseri umani»nella quale conoscersi e riconoscersi. Anzi: la profondità enigmatica delle cose e l’apertura al rischio consentono di vivere in un modo più «intenso e vivido», cioè autentico, «fatto di incertezze, aspettative, delusioni e sorprese». La ragione semplifica la vita, ma la impoverisce. Il “meglio” è nell’iceberg sommerso: «Un rapporto» scrive Pallocca «è soprattutto ciò che non si dice, che non si concede, che non si confessa (…). Voglio sapere molto, ma non troppo». Da questo punto di vista, il matrimonio è Psiche che intrappola Amore: «non sarà più una scelta vedersi, telefonarsi, mangiare insieme». Alla freschezza della scoperta subentra la solidità dell’abitudine, che rischia facilmente di trasformarsi in noia. Si giunge così al contrasto insuperabile tra Vita e Forma. La forma de-finisce e, con ciò stesso, congela la possibilità: ne realizza, di volta in volta, “una” su tutte. Ecco il modello umano dell’“equilibrista sentimentale”, uno dei più felici e riusciti del libro. All’acrobata delle storie parallele una donna sola non basta: è un libertino della conoscenza. Non può accontentarsi di ciò che trova, perché escluderebbe tutto ciò che resta da cercare. E il senso della ricerca è soprattutto nella ricerca stessa. Sente il fascino infinito dell’orizzonte: che cosa c’è al di là? “Il più bello dei mari / è quello che non navigammo” dice il grande poeta Hikmet. E ritorna potente la realtà multipolare e complessa che ci rende umani. L’“equilibrista sentimentale”, infatti, crede possibile «amare più di una persona nello stesso momento, per la semplice ragione che non siamo una persona soltanto». Egli è altresì cosciente di vivere nella menzogna, di essere un simulatore, un mistificatore, un traditore di fiducia mal riposta. Sa di sbagliare. Ma ama così tanto il suo peccato che scende a patti con se stesso. Si assuefa all’emergenza. È consapevole del rischio continuo di essere scoperto, però il gioco vale la candela: «La mia pena» pensa «sarà inferiore ai delitti. Non varrà l’ebbrezza di ciò che ho vissuto».  Anche da questo breve tratto si percepisce la potenza umana dei racconti di Pallocca, che sembrano veicolare e articolare – in appena 120 scorrevolissime pagine di tascabile – tutto l’esprimibile, l’esistibile, il dicibile del mondo. È un libro da leggere perché dentro, da qualche parte, c’è nascosto il riflesso di ciascuno di noi; così come accade quando la letteratura si illumina e ci illumina, come in un bagliore di rivelazione, per la sua capacità di rispecchiamento e di inveramento. Non è cosa da poco, soprattutto oggi.

Marco Onofrio

5 commenti
  1. Come commento a questa perfetta lettura dei racconti di Roberto Pallocca si dovrebbe trascrivere la motivazione del Premio “Simpatia” 2016 attribuito al saggista e critico letterario Marco Onofrio.
    Le qualità di critico evidenziate nella motivazione sono tutte evidenti in questa eccellente pagina, profonda ma nel contempo elegante e limpidissima.
    .
    Giorgina Busca Gernetti

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