Questo è un tema “di sempre”, con cui ogni presente della storia ha dovuto confrontarsi; e tuttavia – oggi più che mai – implica una riflessione, collaterale e inevitabile, sul ruolo dei classici nella cultura contemporanea: e dunque sui confini assegnabili alla tradizione, attraverso le forme e le dinamiche della sua stessa “censibilità”. Che cosa è ancora degno di essere, o diventare, un “classico”? secondo quali criteri? e che rapporto c’è, di volta in volta, tra il classico acquisito e il contemporaneo? come si definiscono l’uno in ragione dell’altro? È evidente che la traduzione dei classici, se ancora è possibile o ha senso per “quelli che siamo diventati”, assurge a pietra angolare di qualunque altra traduzione, e consente di assegnare il giusto valore, in una scala di proporzioni e aggiustamenti reciproci, agli attori del dialogo infinito di cui, nella catena generazionale, si nutre la cultura allo specchio dei secoli.
Ma occorre anzitutto riflettere sulla letteratura come lezione di ascolto, anche e specialmente attraverso la pratica della traduzione. Tanto più se si traduce poesia, e se il traduttore è a sua volta poeta. Scrive il comparatista Armando Gnisci: «Un poeta che traduce un altro poeta produce la forma di amore comunicativo più eccelsa e rischiosa, perché tradurre poesia significa porsi all’ascolto più totale dell’altro nella sua lingua, restituendogli il merito nella propria». E Raffaello Utzeri comincia la sua Introduzione ai Tutti i sonetti di W. Shakespeare, da lui recentemente tradotti e riveduti in seconda edizione (EdiLet, 2013, pp. 344, Euro 14), con questo motto emblematico: “come parlare a chi si ama di ciò che si ama”. Che si tratti di amore, lo si capisce anche da questo: come l’amore trasforma e serve a conoscersi meglio, così la traduzione serve a scoprire sempre nuove sfumature dell’autore tradotto; e lo stesso traduttore, nello sforzo di immedesimarsi, conquista zone sconosciute della propria lingua e della propria coscienza. Se poi a tradurre il poeta è un altro poeta, la traduzione assomiglierà inevitabilmente un po’ all’uno e un po’ all’altro. Sarebbe interessante capire, nella fattispecie, quanto del “compositore verbale” Utzeri si è riversato dentro la voce di Shakespeare. E se (e come) il traduttore abbia saputo rispondere al nucleo oggettivo del testo originale, assolvendo al requisito primario che secondo Umberto Eco si deve pretendere dalla traduzione di un’opera straniera («che la traduzione possa darmi al meglio possibile cosa c’era scritto nell’originale»). E ancora, come il traduttore sia riuscito a risolvere certe questioni di interfaccia tra i due codici linguistici, distanziati fra l’altro da un divario di quattro secoli: ad esempio – su tutte – la resa in endecasillabi italiani del blank verse (pentametro giambico) shakespeariano. Ci vuole una certa dose di sana follia, oltre a una grande competenza, innervata di sensibilità linguistica e poetica, per intraprendere una simile impresa (dopo quelle di Ettore Sanfelice, 1897; Lucifero Darchini, 1908; Piero Rebora, 1941; Augusto Guidi, 1958; Alberto Rossi e Giorgio Melchiori, 1964; Alessandro De Stefani, 1964; Sara Virgillito, 1988; Alessandro Serpieri, 1991; Roberto Piumini, 1999; senza contare la celebre selezione ungarettiana del 1946), dal momento che con i 154 sonetti di Shakespeare ci troviamo dinanzi ad un’opera tra le più complesse, ambigue e problematiche della letteratura di tutti i tempi. Straordinaria, fino a livelli quasi inconcepibili di astrazione, la capacità che il grande poeta inglese ha di cesellare e trasfigurare il linguaggio, scandagliandone le più oscure e misteriose profondità. Ecco ad esempio l’emblematico sonetto 144:
Two loves I have of comfort and despair,
Which like two spirits do suggest me still:
The better angel is a man right fair,
The worser spirit a woman coloured ill.
To win me soon to hell, my female evil,
Tempteth my better angel from my side,
And would corrupt my saint to be a devil,
Wooing his purity with her foul pride.
And whether that my angel be turned fiend,
Suspect I may, yet not directly tell;
But being both from me, both to each friend,
I guess one angel in another’s hell:
Yet this shall I ne’er know, but live in doubt,
Till my bad angel fire my good one out.
Così traduce Utzeri:
Ho due amori, salvezza e dannazione,
che mi possiedono come due spiriti:
un angelo, che è un uomo biondo e bello,
e un diavolo, una donna tutta nera.
Per ben dannarmi, la mia donna diavolo
mi porta via il mio angelo dal fianco
cercando di corromperlo, da santo,
in un demonio con la sua lussuria.
E che lui lo sia già, io lo sospetto,
ma non posso affermarlo; so che entrambi
non li ho con me, e so che sono amici:
l’angelo, forse, nell’inferno all’altra.
Non potrò mai saperlo. Vivrò in dubbio
finché il peggiore avrà bruciato il buono.
Occorre vibrare, consuonare, entrare in risonanza con il testo originario. Studiarlo, sentirlo, capirlo a fondo: cogliere il valore filologico, cioè storico e critico, che in quella lingua riveste quel particolare vocabolo o quella espressione. Tradurre tendendo conto del “sistema di evidenze” che il testo racchiude nei suoi sedimenti profondi: ciò che a quel tempo era sottinteso e che ora sottinteso non è più. Portare alla luce questi contenuti sommersi e trovare un terreno fertile per farli dialogare con il “tradimento” inevitabile che la traduzione, obbedendo al gusto del traduttore e andando soggetta all’evoluzione della lingua, finisce ogni volta per comportare. La tradizione si ridefinisce continuamente proprio attraverso il tradimento che le infliggono i diversi traduttori, consegnandola al loro presente e, da quel momento, all’infinito mare del futuro.
Il problema dei problemi è che ogni lingua ha un suo DNA, un suo ritmo endogeno connaturale. Notava Giorgio Caproni (che fu anche abile traduttore): «Un Leopardi francese non ci avrebbe dato, parola per parola, il corrispondente di “negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi”. Avrebbe usato altri vocaboli per generare lo stesso gioco musicale». È difficilissimo rendere lo specifico di una lingua nello specifico di un’altra. Dante, infatti, dubitava della traducibilità delle lingue. Scrive in un passo celebre del Convivio: «E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in altra trasmutare sanza rompere tutta la sua dolcezza e armonia», cioè: traducendo si perde inevitabilmente la musica della lingua originaria. Ma già ogni scrittura è, di per sé, traduzione imperfetta, sbiadita e inefficace dell’Idea: sempre inferiore alla totalità espressiva del dicibile. C’è un divario pressoché incolmabile rispetto all’assoluto della Forma. Eppure, è il dono della lingua che ci innalza al di sopra della natura. È lì che si radica la “casa dell’Essere”. È lì che si fonda la “sporgenza ontologica” che siamo. L’essenza linguistica dell’uomo è quella di nominare le cose. La lingua stessa è e rappresenta la nostra essenza spirituale. Per questo i libri sono tesori di parole racchiusi in forzieri di pagine.
Del compito del traduttore parla Walter Benjamin in Angelus Novus. La traduzione non è la sorda equazione tra due lingue. «Nessuna traduzione sarebbe possibile se la traduzione mirasse, nella sua ultima essenza, alla somiglianza con l’originale». Ciò che va al di là della mera comunicazione, l’ineffabile, il misterioso, il “poetico”, il connotante, gli armonici espressivi: è con questo nucleo, in gran parte intraducibile, che si misura il traduttore, in una lotta sfiancante e talvolta furiosa con la più profonda sostanza linguistica delle parole, una ad una. E può riuscirvi solo a patto che cominci a poetare a sua volta. Le due lingue implicate nella traduzione sono come sponde di un fiume, che si fronteggiano. Il “fiume” è la lingua di verità e di pensiero, mentale e reale, che a tutte è sottesa e preposta. Una sorta di “oltrelingua” universale cui tendono, come affluenti dello stesso corso d’acqua, tutte le sue diverse incarnazioni storiche. Il traduttore si adopera come traghettatore tra le sponde e, per arrivare all’approdo, deve immergersi nel fiume della “lingua universale”. Scrive Benjamin: «La traduzione deve amorosamente, e fin nei minimi dettagli, ricreare nella propria lingua il suo modo di intendere, per far apparire così entrambe – come i cocci di uno stesso vaso – frammenti di una lingua più grande». Il compito del traduttore è dunque di «redimere nella propria quella pura lingua che è racchiusa in un’altra (…) liberarla nella traduzione». Il traduttore non deve aver paura di lasciar «potentemente scuotere e sommuovere» la propria lingua dalla lingua straniera, ma – anzi – deve aspirare ad approfondirla mediante essa. Consapevole che ogni traduzione implica sì, in parte, una riscrittura del testo originale, ma anche un dialogo a distanza, attraverso il tessuto linguistico, con la cultura e la storia che da quello separa la stessa traduzione.
Confrontarsi con la parola di un classico, tanto più se straniero, significa comunicarsi a tutto il tempo di cui quella parola è intrisa, che porta con sé e che trasmette, a mo’ di scossa elettrica. Per questo la traduzione di un classico è sempre occasione per un’operazione complessa di rilettura, che tocca e solleva problemi aperti di filologia, di storicizzazione, di sguardo incrociato fra epoche e culture. Antico sempre nuovo, diceva il Pascoli. Tutto il passato è contemporaneo, nel momento stesso in cui lo si rilegge. La traduzione entra così nella dialettica tradizione/nuovo che anima i confini del processo culturale. Anche il confronto con la tradizione implica un processo di traduzione, di trascrizione, di confronto serrato e affaticante. Scrive a tal proposito Thomas S. Eliot: «La tradizione non è un patrimonio che si possa tranquillamente ereditare; chi vuole impossessarsene deve conquistarla con grande fatica. Essa esige che si abbia, anzitutto, un buon senso storico, cosa che è quasi indispensabile per chiunque voglia continuare a fare il poeta dopo i venticinque anni; avere senso storico significa essere consapevoli non solo che il passato è passato, ma che è anche presente; il senso storico costringe a scrivere non solo con la sensazione fisica, presente nel sangue, di appartenere alla propria generazione, ma anche con la coscienza che tutta la letteratura europea da Omero in avanti, e all’interno di essa tutta la letteratura del proprio paese, ha una sua esistenza simultanea e si struttura in un ordine simultaneo. Il possesso del senso storico, che è senso dell’a-temporale come del temporale, e dell’a-temporale e del temporale insieme: ecco quello che rende tradizionale uno scrittore. Ed è nello stesso tempo ciò che lo rende più acutamente consapevole del suo posto nel tempo, della sua contemporaneità».
Marco Onofrio
Va bene Onofrio, in futuro eviterò di esprimere dei giudizi che possano irritare. Però vorrei cogliere la palla al balzo per spostare il discorso sulla traduzione poetica in Italia. A mio avviso, a parte alcuni traduttori degni di questo nome, esiste in questo campo in Italia una massa di “scarpari” (non calzolai come propone Linguaglossa), ma di veri e propri scarpari, incluendo anche illustri accademici. Personalmete potrei elencare alcune “perle” di notissimi slavisti che, anziché limitarsi a scrivere eccellenti saggi, si sono voluti inoltrare nel “minato” campo della poesia. La colpa a mio avvisso è soprattutto degli editori, che non curano come dovrebbero la qualità del prodotto, e stampano qualunque cosa venga loro proposta da un sedicente e convincente traduttore. A titolo di esempio in molti altri paesi la traduzione poetica viene affidata a poeti-traduttori, in Italia basta essere “traduttori”…
“Riflessioni”, queste di Marco Onofrio, di grande acutezza, profondità e persino di pratica utilità. Questo il passo, filosoficamente assai pregnante, che mi è parso più significativo, fertile di molteplici, possibili sviluppi pur così radicato nella storia del pensiero, tanto da ricordarmi Giordano Bruno: “Non è la materia che genera il pensiero, è il pensiero che genera la materia”. E infatti «ogni scrittura è, di per sé, traduzione imperfetta, sbiadita e inefficace dell’Idea: sempre inferiore alla totalità espressiva del dicibile. C’è un divario pressoché incolmabile rispetto all’assoluto della Forma. Eppure, è il dono della lingua che ci innalza al di sopra della natura. È lì che si radica la “casa dell’Essere”».
Rileggendo a un anno di distanza questi miei commenti, mi rendo conto di essere stato aspro e presuntuoso, pertanto chiedo venia a Marco Onofrio e a Luciano Nota, sperando che come dice il proverbio: “peccato confessato sia mezzo perdonato”. Se possibile, vi pregherei di cancellare questo mio infelice intervento. Grazie.