“La giostra del vuoto” di Patrizia Pallotta, letto da Marco Onofrio

giostra di Marco OnofrioQuesto secondo libro di racconti di Patrizia Pallotta, “La giostra del vuoto” (Universitalia, 2012, pp. 156, Euro 12), conferma, dopo il “battesimo” di “Racconti senza polvere” (2009), le qualità poetiche e atmosferiche della sua scrittura in prosa. È un’autrice predisposta al chiaroscuro: sfumature soffuse, mezzi toni, “pennellate” tenui, trasparenze velate, aloni smerigliati e malinconici. Come la poesia in versi, anche la prosa poetica le viene da uno sguardo naif, volutamente “ingenuo”, sincero, crepuscolare, acceso di fervore lucido ma pronto a sprofondare, nel climax della sua intensità energetica, verso l’incanto onirico della rêverie. L’impasto base testimonia una scrittura “del margine”, che perlustra la vita come “vuoto a perdere”, ispezionando il pieno della materia concreta per farne emergere le sconnessioni, le cause profonde, le conseguenze, il plesso dei destini e delle scelte, e quindi i ricordi, i rimpianti, le occasioni mancate, le cose perdute, l’immensità invisibile, e insomma tutto ciò che il tempo inesorabile nasconde. Patrizia, c’è da ribadirlo, ha una vocazione istintivamente poetica. La poesia, dunque, è il suo respiro naturale: anche quando scrive in prosa. La narrativa propriamente detta è un terreno dove gioca “fuori casa”, come suo malgrado. Lo attraversa con i passi attenti e un incedere cauto, ma con l’occhio guarda alla dimensione poetica e verso quella converge, inevitabilmente. Si capisce fin dai titoli dei racconti: “L’altrove nascosto”, “Il respiro della pace”, “Ereditare il vento”, etc.

In questo libro si assiste, peraltro, a un tentativo di narrativa più consapevole dei propri mezzi. Patrizia si misura con una materia corposa, stagliata con maggiore evidenza, e la affronta con approccio più diretto e immediato, almeno nelle intenzioni. Lo snodo tematico fondamentale dei tredici racconti de “La giostra del vuoto” è il rapporto dell’uomo con la realtà, ovvero il ventaglio problematico di connessioni fra interno ed esterno, io e mondo, surreale e reale, volto e maschera. La domanda-chiave del libro si incontra nel racconto eponimo: «Dove si nasconde la realtà e qual è lo sguardo giusto per riconoscerla?». E innanzi tutto: che cos’è “realtà”? Dov’è la base comune su cui ci si può intendere, e accordare, per definirne i margini? C’è in gioco l’incontro-scontro fra due universi paralleli e contrapposti: due costellazioni simboliche di senso. Da una parte il versante “candido” dell’innocenza, della sincerità, dell’autenticità; dall’altro il versante “mercuriale” dell’ambivalenza, e quindi – per degenerazione naturale del difetto – il coacervo umano (“troppo umano”) di miseria morale e disonestà, intessuto di false apparenze, egoismi, invidie, pregiudizi, inganni, ingiustizie, violenze, prevaricazioni etc., che avvelena ogni giorno di più l’inferno dei rapporti interpersonali, la visione del mondo e il sapore stesso della vita. Le infinite maschere del vivere “sociale” uccidono lo sguardo del bambino: diventare adulti è rassegnarsi all’amaro disinganno. Ma l’infanzia resta un nodo irrisolto, da non sciogliere fino in fondo: Patrizia la coltiva come una dimensione fatata e fiabesca, mai del tutto perduta, ed è pronta a raccoglierne i portati quando emerge – magari all’improvviso, dove meno la si aspetta – dai profili opachi delle cose. Nel primo racconto, “Un pugno di mosche”, vediamo in azione i bambini soldati di Mogadiscio, armi in pugno, pronti a “giocare” con la morte. Occorre raccontare favole per coprire il rumore delle bombe. La ferocia del mondo si esprime appieno con la potenza devastante della Storia, implacabile e cieca, a mo’ di schiacciasassi. Lo scrittore obbedisce al richiamo degli eventi, che lo costringono a raccogliere certe voci, l’eco di certe identità. Ci sono domande che resteranno sempre senza risposta: perché la Vita permette che muoiano i bambini? Perché la guerra? Perché le vittime innocenti?

«Può andarsene una piccola vita senza aver conosciuto l’amore di una madre, il calore di un pasto caldo consumato in famiglia, avere dei giochi, saper leggere e scrivere, inserirsi in un mondo pacifico?»

Lo spigolo duro del mondo ferisce la carne tenera degli individui. Siamo tutti impotenti dinanzi alla Storia. Ma il versante “candido” rivendica lo spazio delle sue istanze: è un nucleo altrettanto duro, ostinato, irriducibile. Ecco alcuni lacerti dove esso affiora, sfiatando parole importanti, alla superficie limpida del testo: «l’abbandono di una realtà falsa (…) recuperare pezzi di libertà fatti schiavi dalla morsa delle abitudini»; «liberare ciò che si ha dentro senza metterlo in tasca e condividerlo con gli altri, è espressione essenziale di vita, di partecipazione a un percorso comune, a una complicità che avrebbe aperto le porte della chiarezza e non occupato quelle dell’arroganza o dell’indifferenza»; «atti fanciulleschi che ti accarezzano, attimi dal sapore di sempre, prodighi di pulizia interiore. Bolle di sapone che si frantumano nel muro del passato»; «concediamoci il lusso di ritornare bambini»; «ripetere o creare momenti di bellezza e verità»… Ecco, bellezza e verità: sono parole che per Patrizia Pallotta hanno ancora un senso, ed è già emblematico di un certo modo di guardare alle cose, quasi a dispetto del loro generale disfacimento.

Il percorso di maturazione impone all’individuo una scelta etica nei confronti del proprio sé: restare coerenti con la propria natura originaria procurerà soddisfazione intima e, insieme, sofferenza esterna; uccidere il bambino che eravamo (e in fondo siamo) per adeguarsi agli stereotipi sociali provocherà la reazione esattamente opposta. I racconti di questo libro sono indagini esplorative delle strategie di autodifesa: penetrano nel guscio psicologico (talora psicopatologico) che ci costruiamo intorno, come un bozzolo, per sopravvivere alla violenza del mondo. Quali sono i confini dell’idealismo? Dove cade l’equilibrio delle forze? Meglio appartenere al mondo o a se stessi? Essere o non essere? Ed ecco la difficoltà a rapportarsi, l’incomunicabilità, le pulsioni masochistiche e autodistruttive. Ci sono personaggi «a un passo dal perdersi nel baratro della solitudine». A un certo punto si legge:

«Rimbalzo su questo mondo claudicante, su un ponte che traballa».

Dalla lastra fotografica dello scrittore affiorano i riflessi del mondo contemporaneo, inglobato nella filiera delle sue gigantesche complessità. Non solo però i grandi problemi storici e sociali, ma anche e soprattutto il “basso continuo” della coscienza per sedimentazione e masticazione del tempo attraversato, rimuginando ore e situazioni: da cui il ribollire dei pensieri e dei ricordi che affiorano imprevisti, agganciati a un amo accidentale. Ecco ad esempio la morte del padre:

«Come il fiore di loto galleggia e scivola nello stagno, in me rivive, nelle sembianze di un’immagine mai dimenticata, mio padre che saluta il mondo. Ricordo che gli dissi aggrappandomi alla sua mano Non mi lasciare».

I racconti di Patrizia si nutrono di questi traumi, valorizzano le crisi come opportunità, adescano i “se” irrisolti che conserviamo dentro. La scrittura sfoglia l’album dei ricordi, estraendo dal tracciato delle epoche interiori il «bilancio personale dei debiti e dei crediti». Il titolo del libro traguarda una dimensione di profondità metafisica che resta immobile e sottesa, al di fuori delle pagine dei giorni. La “giostra del vuoto” è la camera oscura dove si sviluppano le foto della nostra esistenza; il magazzino segreto dove si annodano e snodano i destini, le infinite possibilità: dove il visibile si unisce all’invisibile. È la ruota del cielo. L’eco del vuoto «coniugato dal tempo inarrestabile». Siamo umanamente fragili dinanzi all’agguato del caso:

«L’istante di un batticuore fa spazio al buio, ti passa accanto per dirti che sei solo, mentre “quel vago presentimento” sorride soddisfatto per essere stato confermato veritiero, proclamando la personale vittoria dell’uomo».

Non solo sensazioni sottili; anche la tangibile presenza degli oggetti, in mezzo ai quali viviamo e che spesso ci sopravvivono, parlando agli altri di noi, di ciò che siamo e siamo stati. Il lettore potrà gustare la poesia struggente de “La solitudine dei giocattoli”, con tutto il loro potenziale epifanico di ricordi, echi, atmosfere. E dunque la gioia che i giocattoli hanno donato, benché ora giacenti nell’oblio di una soffitta. Le cose sono più fedeli e affidabili delle persone: a un certo punto si dice di «un amico sincero e muto come solo un giocattolo sa essere». È importante il ruolo degli oggetti nella scrittura di Patrizia Pallotta: spesso li anima, li umanizza, e assume il loro “punto di vista”, si identifica con la loro essenza, ne estrae dal sonno apparente che dormono – dentro la quiete della materia – il bagliore onirico di un’inquietudine che è rivelazione. I sogni per Patrizia hanno una duplice funzione: servono sia ad evadere dalla ferocia della realtà, trascolorandola e rendendola “infinita”; sia – ed è ciò che più interessa – a conoscerla più profondamente.

Da notare infine, tra le corde che vibrano nel libro, una dimensione intertestuale, di dialogo con la cultura (nella fattispecie Anna Freud, Erika Mann, il poeta Auden), e metapoetica, di riflessione sull’arte della scrittura. Che cosa significa scrivere per Patrizia? Come se lo racconta – anche con lo specchio segreto dei personaggi?

«Scrivere per confessare, per confidare, per sperare di incontrare l’eterno dentro un altro essere, dentro un’altra figura, dentro un mito sempre cercato e anelato».

Ma è soprattutto alle ultime pagine del libro che prende corpo una “confessione di poetica” che mi pare emblematica del mondo di Patrizia Pallotta, del suo modo di guardare alle cose e di porsi in contatto con la realtà:

«Scrivere per me è come tendere una mano per stringerne un’altra che si stringa a sua volta alla tua e ti porti lontano, sempre più lontano, attraversando una danza leggera, senza meta, senza ritorno».

Marco Onofrio

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