Riccardo Nencini, “L’imperfetto assoluto”, Mauro Pagliai Editore, letto da Dante Maffia

limperfeLe disquisizioni sulla natura dei romanzi sono sempre farcite da preconcetti ideologici. Trovare una formula in cui recingere una storia è comodo e facilita poi il giudizio. Io credo, invece, che nessuna storia vada mai circoscritta, altrimenti si tratterà di un trattato entro cui si muovono figure dai requisiti prestabiliti, e non persone vive che travalicano il tempo e stanno con noi non appena apriamo le pagine in cui sonnecchiano. Necessaria precisazione per questo romanzo di Riccardo Nencini che ha sempre prediletto gli affreschi di un passato capace di ridare vigore al  presente, di ridisegnare prospettive che attingono alle radici, ma che poi diventano emblematiche situazioni e idee per comprendere la nostra presenza adesso. Del resto, al di là di tutto, la storia serve proprio a insegnare, come si diceva un tempo con una bella espressione latina. Ma a insegnare che cosa? Non date e guerre, non strategie e sanguinose battaglie, ma modi di concepire la società, scelte da fare per ricostruire l’assetto delle città, per imparare e fare politica senza astrazioni, senza secondi fini, consapevolmente. Prima di andare nello specifico de L’imperfetto assoluto un’altra piccola annotazione sugli intenti di Riccardo Nencini. Egli è convinto che (la lezione probabilmente viene da Gente di Dublino di James Joyce) l’universale è annidato in maniera radicata e sensibile nel “particulare” e che più si scava dentro le minuzie e le sfumature, più si arriva al centro del mondo. Quindi Firenze come mondo attorno a cui gira il resto, Firenze fulcro di civiltà che si irradia per ogni dove per far germogliare altri destini. Ma fare affermazioni perentorie è bello ed è facile se si sta nella, se si fa il gioco perverso del campanilismo , ma quando si vuole entrare nel fulcro complicato delle diramazioni storiche, tremano le vene e i polsi e sorge spontanea la domanda: “Ma come ha fatto Riccardo Nencini a orientarsi in  quel groviglio immenso di personaggi, di avvenimenti, di date con quella chiarezza e quella correttezza presenti in ogni pagina? Qui si tratta d’amore, senza il quale nessuna storia potrebbe reggere, soprattutto nessuna storia vera, pescata tra le tante nel diluviare del due e trecento fiorentino. La vicenda di Musciatto è molto simile a quella di alcuni personaggi odierni che sono partiti dal nulla per approdare a grandi imprese. Con la differenza che siamo a centinaia di anni addietro, quando non era per nulla facile salire la scala sociale per ragioni arciconosciute: difficoltà obiettive, pregiudizi, limiti imposti dalle silenziose e non tanto silenziose regole  stabilite dal potere. Musciatto, già conosciuto a Firenze e oltre per via di una novella del Boccaccio, comincia a lavorare come garzone in una banca e subito riesce a diventare mercante accorto… Ma non sono i fatti ad avvincere, almeno non sono soltanto i fatti, c’è la penna sagacia di Nencini, il suo saper entrare e uscire dal magma incandescente della Firenze d’allora portandoci al 1966 per farci incontrare con un manoscritto di cui  miracolosamente viene in possesso. Si dirà, un vecchio trucco utilizzato perfino da Alessandro Manzoni, ma non bastano i trucchi e le finzioni a rendere avvincenti e suadenti le pagine di un libro, ci vuole altro, per esempio quel miele sapiente che sa distillare dalla storia le tensioni per comprendere appieno i risvolti sia dell’epoca specifica e sia del mondo attuale. Se così non fosse, il romanzo perderebbe la sua necessità di esistere, di arrivare a dirci parole inconsuete e contundenti per portarci dentro la trama di un percorso che ci fa comprendere la ricchezza umana, culturale, artistica e politica di un città che forse non ha avuto uguali se non nell’antica Atene. Credo che a Nencini premesse proprio sottolineare, attraverso la ricostruzione fedele di tutto ciò che accadde all’epoca, la grandezza di un popolo la cui civiltà perdura ancora  se è vero, com’è vero, che nell’immaginario collettivo Firenze resta la signora indiscussa dell’arte. Non è facile entrare agevolmente nel libro se non ci si arma di pazienza e di amore per “vivere” attimo dopo attimo il fermento di un popolo che in un breve lasso di tempo ha generato un senso di immortalità infinita se solo pensiamo a Dante Alighieri, a Boccaccio, a Petrarca, a Giotto, ad Arnolfo. Ma Nencini non assume mai il tono del vincitore, non si serve mai della posizione del primato. Sarebbe stato facile gioco ma non avrebbe congiunto il mondo di ieri qa quello di oggi, non ci avrebbe dato una “cronica” adeguata e viva, come dev’essere quando si mette mano alle bacheche immobili degli archivi. Nencini ha lavorato come un artigiano che deve cesellare e non può permettersi distrazioni, ha utilizzato una miriade di fonti (si veda la bibliografia) e ha scavato e confrontato, ma soprattutto ha messo in gioco la sua sensibilità e il suo amore per uomini e cose della sua tradizione. Il risultato non poteva che essere questo ponderoso e poderoso romanzo (440 pagine) che non trascura neppure il minimo indizio storico ma diventato patrimonio personale, elemento che serve al narratore per incidere nella carne viva dei protagonisti e farceli intendere nella loro grandezza e nella loro miseria, nel loro trionfo e nella loro decadenza. Nencini ha trovato la giusta saldatura tra invenzione e storia e la utilizza con perizia senza che l’una travalichi l’altra, ma non mi riferisco ai protagonisti, visto che dalla Nota dell’autore apprendiamo che solo Telda “nasce dalla fantasia dell’autore, ma all’interra struttura. Da ciò mi pare evidente che le implicazioni e le interpretazione di questo romanzo passano obbligatoriamente sotto la ghigliottina delle sette ambiguità di cui parlava Emerson per la poesia. Ogni lettore vi entra con le sue lenti e la sua sensibilità e le percezioni, al di là degli obiettivi dell’autore, diventano multiple creando un alone di possibilità che danno al libro un sapore un tantino “biblico”, cioè di tono e atmosfere sacre, comunque da seguire con attenzione suprema. Del resto credo non sia casuale che Franco Cardini abbia cominciato la sua Prefazione con le parole del Vangelo di Giovanni: “In principio era il Verbo” a testimoniare che per Nencini la parola ha un peso specifico di rilievo e che la sua scrittura nasce dagli umori del Mugello, dalle salde tradizioni contadine che hanno saputo e sanno dare estrema importanza perfino al buongiorno mattutino, al saluto di gioia il giorno della mietitura. Credo che le origini di Nencini siano state all’origine dei suoi scritti: il microcosmo del suo borgo ha via via preso le dimensioni del pianeta e la Storia si è imposta per chiarire a se stesso e agli altri il motivo per cui Masciatto Franzesi è diventato il modello a cui si è ispirata la modernità. Lo fa presente Cardini, così come fa presente, che sicuramente in queste pagine ci sono tanti motivi autobiografici. Ma evitiamo il gioco, potrebbe diventare perverso e fuorviante, a cui la critica ufficiale ci ha abituati andando alla ricerca di archetipi, di affinità, di fonti. Il romanzo ci trascina in atmosfere nelle quali ci sembra di vivere in maniera reale tanto è documentato e vissuto in ogni parte. Personalmente ho avuto momenti di indignazione e di condivisione, di dissenso e di adesione con ognuno dei protagonisti, ma soprattutto con la visione, come chiamarla, filosofica, antropologica di Nencini che spesso pone le questioni in maniera manicheistica ma senza comunque forzare la mano. Insomma, è libro che prende anche alla pancia, che non passa come meteora nella psiche del lettore, neppure nella mia psiche di lettore rotto a tutte le intemperie. Ciò significa che l’autore ha fatto dapprima sua tutta la materia, l’ha amalgamata e sradicata per ripiantarla più fluida, più legata alla quotidianità, più aperta agli esiti narrativi. Il tutto con un linguaggio chiaro, comprensibile. Sì, proprio “Una cronaca accurata ed emozionante raccontata con la precisione dello storico e il coinvolgimento del romanziere d’avventura”. Perché, Nencini intende il romanzo alla maniera di Ippolito Nievo, “strumento di cultura totale, adatto a ricevere tutto, di qualsiasi ordine, rappresentazione, racconto e riflessione critica; e scrisse che il romanziere deve essere nello stesso tempo un botanico, un paesista, un filosofo, un economista, un filologo, e in più un poeta. Nel suo caso avrebbe potuto  aggiungere uno storico e un politico”. E’ Guido Piovene a parlare  e se avesse potuto leggere L’imperfetto assoluto sono certo che avrebbe espresso lo stesso giudizio su Riccardo Nencini.

Dante Maffia

 

 

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