Gianluca Spitalieri, “L’ora di ricevimento”, Aut Aut Edizioni – 2019

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Un comune filo rosso scorre tra queste pagine in cui si scrive di bullismo, di emarginazione, di fragilità, ed è la funzione della parola e della sua carica eversiva. Le storie qui raccontate sono storie minime, comuni che, però, racchiudono una inequivocabile ordinaria resistenza. Le storie di Karima, di Matteo, di Euthalia, di Susanna, di Luca, ci dicono che può esserci un’alternativa, che la scuola può continuare a essere un luogo sicuro dove crescere e istruirsi.

II

Le parole in una stanza

 

Se ne era stato al sicuro nel suo riparo come una volpe che desidera soltanto leccarsi le ferite, lontana dal bosco pieno di trappole. E qualche trappola Matteo era riuscito a scansarla durante gli anni delle scuole elementari e delle medie, perché sua madre l’aveva disinnescata abilmente, precedendolo a ogni passo, come un bulldozer che tritura e frantuma ogni cosa che incontra per strada. Lo aveva scortato quasi fosse un piccolo Budda, un potenziale campione che abbisognava delle cure indefesse della giovane amazzone. Il primo campo di battaglia Matteo lo aveva affrontato a sei anni, in avanscoperta, quando, a un certo punto, si era trovato di fronte a decine di suoi piccoli coetanei in balìa dei demoni della parola. Migliaia di parole si arrampicavano sui muri dell’aula scolastica, fonemi di ogni fattura, perifrasi ingarbugliate che stanavano ogni maestra: una guerra a colpi di minuscoli vocabolari ambulanti. Anche Matteo aveva dato prova di orientarsi bene con le parole, a tre anni aveva farfugliato attraverso strani movimenti labiali parole come mongolfiera e dinosauro e aveva usato correttamente l’aggettivo delizioso. Improvvisamente, però, quelle sillabe, una a una, cominciarono a ripetersi, a prolungarsi fino a interrompersi. In quell’aula colorata di disegni e con le pareti accuratamente tappezzate di numeri e di lettere, le parole di Matteo erano scomparse, o meglio, c’erano, ma si aggrovigliavano involontariamente. Matteo sapeva con esattezza ciò che avrebbe voluto dire, ma non era in grado di farlo a causa di quegli involontari arresti. In quella babele di nuovi linguaggi che scalciavano per farsi strada con parole ancora acerbe, Matteo esitava, ingannava con false partenze, a volte perdeva il filo del discorso fino ad abbandonare la frase che stava pronunciando, iniziandone una nuova subito dopo. Tutto ciò avveniva di fronte allo sbigottimento inizialmente composto dei suoi compagnetti, poi divenne un gioco. A gara tutti, anche la più timida della classe, quella che manco in croce sarebbe riuscita a mettere quattro parole una dietro l’altra, iniziarono a completare le parole di Matteo, era un gioco divertentissimo: bastava una sillaba inceppata a scatenare la caccia alla parola. Con gli anni aveva imparato a sostituire alcune di quelle maledette parole che non riuscivano proprio a venir fuori con altre; a suo modo, anche Matteo aveva inventato un gioco, un personalissimo gioco: piccoli trucchetti ed escamotage lo aiutavano ad alleviare la frustrazione. Intrufolava delle interiezioni a inizio frase: «ehm giochiamo?», «eh a che ora passi a prendermi?», «mmm perché?», oppure si aiutava col corpo, contraendo le mandibole, irrigidendo la lingua e il collo. Sbucarono fuori piccoli movimenti involontari a carico del viso e iniziò a stringere sempre più spesso il pugno quasi a voler dare la spinta per sputar via quelle parole. Servirono a ben poco anche gli stupidi esercizietti con la candela che gli aveva suggerito uno strampalato logopedista: «devi riuscire a mantenere costante l’emissione del fiato contro la fiamma della candela, senza farla spegnere». Matteo era diventato un bambino taciturno, tutti quegli esperimenti lo avevano reso vulnerabile, alcune volte si era sforzato talmente tanto che sentiva tutta la tensione nello stomaco. E quel groviglio di rabbia, di silenzi obbligati, di emozioni taciute, di notte, prendeva la forma di incubi terribili. Una sera era andato a letto prima del solito, si era addormentato come gli capitava spesso, racchiuso su se stesso, con le braccia incrociate e le mani che sfioravano il corpo. Quella sera sognò a più riprese di annegare e di non riuscire a chiamare aiuto, soltanto l’amazzone sentì le urla che provenivano dalla sua cameretta, subito si precipitò al suo fianco, gli accarezzò il volto, lo strinse al petto e gli sussurrò parole dolci. Quelle trappole, quegli incubi, quel complicato modo di comunicare che era toccato a Matteo, lo avevano reso uno di quei tanti ragazzini che popolano le scuole: uno studente trasparente. Lo studente trasparente non si assenta mai da scuola, entra ogni giorno in classe dieci minuti prima che suoni la campanella, è seduto generalmente al penultimo banco ed è l’ultimo ad andar via. Percorre con balzi fulminei i lunghi corridoi delle scuole, si mimetizza abilmente durante l’intervallo e non va mai in bagno, quasi a costo di farsela addosso. Appare docile e inoffensivo, talvolta tra le nuvole, remissivo con i prepotenti, ma appena rientra in casa, cerca subito lo sfogo come un otre colmo di rabbia che desidera soltanto essere liberato. […]

Gianluca Spitalieri

 

JGUunnSOGianluca Spitalieri è nato a Palermo nel 1980. Dopo aver conseguito un dottorato di ricerca in Italianistica e aver studiato e lavorato a Malta, in Grecia, in Belgio e in Francia, nel 2009 si trasferisce a Bergamo, dove attualmente insegna letteratura italiana e storia. Ha pubblicato le raccolte poetiche: Come pietre nere sulla terra (Manni, 2009) e Racconti di un’assenza (Transeuropa, 2016).

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