Scrive Benedetto Croce di Maupassant: La sua attività artistica nacque da una abbondanza di esperienza e di sentimento, che si era addensata nel suo spirito tra il 1870 e 1880, e sgorgò e corse impetuosa nel decennio seguente… Quasi non c’è scritto suo, per piccolo e leggero che sembri, dove non sia l’impronta dell’ingegno artistico.” E ancora: “Era poeta, poeta nella sua prosa narrativa assai più che nel verso… Le novelle di maupassant sono novelle liriche, non perché scritte con enfasi e lirismo, ma perché la lirica è veramente intrinseca al configurarsi della narrazione…
Guy de Maupassant nacque a Miromesnil, Seine Maritime nel 1850 da padre di origine lorenese e da madre di origine normanna. Fu proprio la madre, Laure Le Poittevin, donna coltissima e amica di Gustave Flaubert, a dargli le prime nozioni letterarie, in seguito sarà il grande scrittore francese a guidarlo interamente alla scrittura. Dopo la separazione dei genitori si trasferì con la madre e il fratello Hervé a Étretat. Dell’infanzia passata in mezzo alla natura conservò un indelebile ricordo, facendo della campagna e dei costumi normanni i veri protagonisti di tante delle sue novelle. La fama di Maupassant si fonda principalmente sulla sua produzione novellistica, racconti brevi e intensi, che hanno protagonisti donnine allegre, contadini, militari, cacciatori, bambini abbandonati. Tema fondamentale delle sue quasi 300 novelle è l’amore, l’amore fisico, carnale. Scrive il nostro: “Nessuno mai, appartiene a nessuno. Ci si presta, nostro malgrado, al gioco civettuolo o appassionato del possesso, ma non ci si dà mai…“. Spesso l’amore è accompagnato all’idea del tradimento. Altro tema, come già ricordato, è la natura, in particolare le descrizioni della Normandia e della Senna. Maupassant fu sempre in preda all’angoscia della morte e all’ossessione del doppio che in breve tempo lo portarono alla follia. Dopo un tentativo di suicidio, morì a Parigi il 6 luglio del 1893 a soli 43 anni. La novella scelta è La paura: due viaggiatori su un treno riflettono sulla paura e si raccontano storie di panico e apprensione.
LA PAURA
Il treno filava a tutto vapore nelle tenebre. Mi trovavo solo, di fronte a un vecchio signore che guardava dal finestrino. Nella carrozza, una carrozza della compagnia ferroviaria Paris-Lyon-Méditerranée proveniente senza dubbio da Marsiglia, c’era un forte odore di fenolo. Notte illune, senza un soffio, torrida. Non si vedevano stelle, e la ventata del treno lanciato a tutta corsa ci gettava in viso qualche cosa di caldo, di molle, d’opprimente, d’irrespirabile. Partiti da Parigi tre ore prima, andavamo verso il centro della Francia senza veder nulla del paese che attraversavamo. D’improvviso, fu come un’apparizione fantastica: due uomini erano ritti in un bosco, attorno a un gran fuoco. Li vedemmo forse un secondo: erano, ci sembrò, due pezzenti male in arnese, rossi nel chiarore abbagliante del fuoco, con facce barbute volte verso di noi: e intorno ad essi, come la scena di un dramma, gli alberi verdi, d’un verde chiaro e lucente, i tronchi colpiti dal vivo riflesso della fiamma, il fogliame attraversato, penetrato, irrorato dalla luce che vi fluiva. Poi tutto tornò nell’oscurità. Certo, fu una ben strana visione. Che cosa facevano, in quella foresta, i due vagabondi? Perché il fuoco in quella notte soffocante? Il mio compagno di viaggio trasse l’orologio e mi disse: «Mezzanotte precisa, signore: abbiamo visto una cosa veramente singolare». Ammisi che così era, e iniziammo una conversazione, almanaccando chi potessero essere quei due: malfattori che bruciavano qualche corpo di reato, o stregoni che preparavano un filtro? Non è per cuocere la minestra che s’accende un fuoco di quel genere, a mezzanotte, in piena estate. Che facevano dunque? Non sapemmo immaginare nulla di verosimile. E il mio vicino si mise a parlare… Era un vecchio del quale non mi riusciva determinare la professione. Un originale certamente, istruitissimo, e, sembrava, anche un po’ squilibrato. Ma chi sa quali siano i savi e quali i pazzi, in questa vita nella quale la ragione dovrebbe spesso chiamarsi stupidità e la follia chiamarsi genio? Diceva: «Sono contento di quello che ho visto. Per qualche minuto ho provato una sensazione perduta! Come doveva essere inquietante la terra, una volta, quando era così misteriosa! Man mano che si solleva il velo dell’ignoto, l’immaginazione degli uomini s’immiserisce. Non vi pare, signore, che la notte sia assai vuota e d’un buio assai volgare, da quando non vi sono più apparizioni? Si dice interiormente: “Nulla più di fantastico, più nessuna strana coincidenza: tutto l’inesplicabile è spiegato. Il sovrannaturale scema come un lago che un canale prosciughi: la scienza, di giorno in giorno, allontana i limiti del meraviglioso”. Ebbene, io, signore, appartengo alla vecchia razza, che ama credere. Appartengo alla vecchia razza ingenua abituata a non capire, a non cercare, a non sapere, assuefatta ai misteri che ci attorniano: la vecchia razza ingenua che si nega alla semplice e netta verità. Proprio, signore: si è immiserita l’immaginazione sorprendendo l’invisibile. Oggi la terra m’appare come un mondo abbandonato, deserto e nudo: se ne sono andate le credenze che lo rendevano poetico. Quando esco, la notte, come vorrei rabbrividire di quell’angoscia per la quale le vecchie donnette si fanno il segno della croce rasentando i muri dei cimiteri, e gli ultimi superstiziosi fuggono dinanzi agli strani vapori palustri e ai fantastici fuochi fatui! Come vorrei credere a quel qualcosa di vago e terrificante che c’immaginiamo di sentir passare nell’ombra! Come l’oscurità della sera doveva essere cupa, terribile, un tempo, quando era piena di esseri favolosi, sconosciuti, vagabondi, malvagi, dei quali non si potevano indovinare le forme, la cui apprensione agghiacciava il cuore, la cui occulta potenza oltrepassava i limiti del nostro pensiero, e la cui offesa era inevitabile! Scomparendo il soprannaturale, anche la paura autentica è scomparsa dalla terra, poiché non si ha veramente paura che di quanto non si comprende. I pericoli visibili possono allarmare, turbare, spaventare: che cos’è questo in confronto alla convulsione che agita l’animo quando si pensa che s’incontrerà uno spettro errante, che si subirà l’abbraccio d’un morto, che si vedrà slanciarsi contro di noi una delle spaventevoli bestie inventate dal terrore degli uomini? Dacché non sono più abitate da spiriti, le tenebre mi sembrano chiare. Lo prova il fatto che se ci trovassimo improvvisamente soli in quel bosco, più che dall’apprensione d’un qualsiasi pericolo reale saremmo ossessionati dall’immagine dei due esseri singolari apparsici poc’anzi nel lampo del loro fuoco». Ripeté: «Non si ha veramente paura che di quanto non si comprende». E ad un tratto mi tornò il ricordo d’un episodio raccontatoci una domenica da Turgenev in casa di Gustave Flaubert. Non so s’egli lo abbia poi inserito in qualche suo libro. […] Turgenev ci disse, quel giorno: «Non si ha veramente paura che di quanto non si comprende». Seduto, o piuttosto abbandonato, in un’ampia poltrona, le braccia pendenti, le gambe allungate e inerti, la testa interamente canuta, annegava in quel gran flutto di barba e di capelli argentei che gli dava l’aspetto d’un Padreterno o d’un fiume d’Ovidio. Parlava lentamente, con una certa pigrizia che conferiva un incanto alle frasi, e una certa esitazione della lingua un po’ tarda che sottolineava l’esattezza colorita delle parole. L’occhio chiaro, spalancato, rifletteva, come l’occhio d’un bimbo, tutte le emozioni del suo pensiero. Ci raccontò quanto segue. Un giorno, da giovanotto, egli cacciava in una foresta russa. Aveva camminato tutto il giorno, e verso la fine del pomeriggio era giunto in riva a un calmo corso d’acqua che scorreva sotto gli alberi, tra gli alberi, pieno d’erbe galleggianti, profondo, limpido e freddo. Il cacciatore fu colto da un bisogno imperioso di gettarsi in quell’acqua trasparente. Si svestì e si lanciò nella corrente. Era un giovanotto grande e grosso, robustissimo, e nuotatore ardito. Si lasciava galleggiare lentamente, tranquillo nell’animo, sfiorato dall’erbe e dalle radici, felice di sentir scivolare leggermente le liane contro la sua carne. D’improvviso una mano gli si posò sulla spalla. Egli si voltò con uno scatto e scorse un essere spaventoso che lo guardava avidamente. Somigliava a una donna o a una scimmia. Aveva una faccia enorme, rugosa, che faceva smorfie e rideva. Due cose innominabili, due mammelle di certo, le galleggiavano davanti, mentre i capelli smisurati, arruffati, arrugginiti dal sole, le circondavano il viso e le sventolavano sulla schiena. Turgenev si sentì trafiggere dalla schifosa, glaciale paura delle cose sovrannaturali. Senza riflettere, senza pensare, senza comprendere, si mise a nuotare disperatamente verso la riva. Ma il mostro nuotava ancora più veloce e gli toccava il collo, la schiena, le gambe, dando in piccole risatine di gioia. Pazzo di spavento, il giovanotto raggiunse finalmente la riva e si slanciò nel bosco a tutta velocità, senza nemmeno pensare a riprendere gli abiti e il fucile. Un essere spaventoso lo seguì, correndo come lui e sempre brontolando. Al termine delle forze e paralizzato dal terrore, il fuggiasco stava per cadere, quando un fanciullo che custodiva alcune capre accorse armato di frusta, e si mise a colpire l’orrenda bestia umana che fuggì gridando di dolore. Turgenev la vide sparire tra i cespugli, simile alla femmina di un gorilla. Era una povera pazza che da più di trent’anni viveva in quel bosco della carità dei pastori, e passava metà del giorno nuotando nel fiume. Il grande scrittore russo concluse: «Mai nella mia vita ebbi tanta paura, semplicemente perché non avevo capito che cosa potesse essere quel mostro». Il mio compagno di viaggio, al quale avevo ripetuto l’avventura, annuì: non si ha paura che di quanto non si comprende. «Già, non si ha paura che di quanto non si comprende. Non si prova veramente quell’orrenda convulsione dell’animo che si chiama spavento se non quando alla paura si mescola un po’ del terrore superstizioso dei secoli passati. Anche io ho provato questo spavento in tutto il suo orrore, e per una cosa tanto semplice, tanto sciocca che oso appena raccontarla. «Viaggiavo in Bretagna, solo soletto, a piedi. Avevo percorso il Finistère, le lande desolate, le terre nude dove il giunco è l’unica cosa che cresce accanto a grandi pietre sacerdotali, pietre magate. Il giorno prima avevo visitato la sinistra punta del Raz, questa fine del vecchio mondo dove si battono eternamente due oceani: l’Atlantico e la Manica. Avevo la mente piena di leggende, di storie lette o raccontate a proposito di quella terra di credenze e di superstizioni. «E camminavo da Penmarch verso Pont-l’Abbé, di notte. Conoscete Penmarch? Un lido piatto, piatto senza eccezione, bassissimo, più basso del mare, si direbbe. Lo si vede dovunque, grigio e minaccioso, quel mare irto di scogli bavosi come bestie infuriate. «Avevo pranzato in una bettola di pescatori, e ora camminavo sulla strada diritta, fra due lande. Era buio fitto. «Di quando in quando, simile a un fantasma eretto, una pietra druidica sembrava mi guardasse passare; e a poco a poco mi sentivo invadere da una vaga apprensione: di che? Proprio, non lo sapevo. Vi sono certe sere nelle quali ci pare d’essere sfiorati da spiriti: l’anima rabbrividisce senza ragione, il cuore palpita nel timore confuso di quel qualcosa d’invisibile ch’io rimpiango tanto. Quella strada mi sembrava lunga, lunga, e interminabilmente deserta. «Nessun rumore fuorché il fragore dei flutti, lontano, alle mie spalle: e a tratti quel rumore monotono e minaccioso sembrava vicinissimo, così vicino che pareva le onde mi fossero alle calcagna e corressero attraverso i campi con la loro fronte di schiuma: e io avevo voglia di fuggire, di fuggire a gambe levate per sottrarmi ad esse. Il vento, un vento basso che soffiava a raffiche e faceva fischiare i giunchi intorno a me. E per quanto camminassi veloce, avevo freddo alle braccia e alle gambe: un brutto freddo d’angoscia. «Oh, come avrei voluto incontrare qualcuno! «Era così buio che ora distinguevo appena la strada. «E d’improvviso davanti a me, lontanissimo, udii rotolare qualche cosa. Pensai: “To’, una carrozza”. Poi non udii più nulla. «Un momento dopo percepii distintamente lo stesso rumore, più vicino. Non vedevo nessun lume, però; ma dicevo tra me: “Non hanno fanale. C’è da stupirsene, in questo paese di selvaggi?” «Il rumore s’interruppe ancora una volta, poi riprese. Era troppo esiguo perché si trattasse d’una carretta: e d’altronde non udivo il trotto del cavallo, cosa che mi stupiva, perché la notte era calma. «Cercai: “Che cosa sarà?” «S’avvicinava veloce, velocissimo! Certo, udivo soltanto una ruota: nessuno scalpitio di zoccoli o di piedi: nulla. Di che cosa si trattava? «Era vicino, vicinissimo: mi gettai in un fosso con un movimento di paura istintiva e vidi passare accanto a me una carriola che correva… sola… nessuno la spingeva… già… una carriola… sola… Il cuore mi balzava con tanta violenza che m’accasciai sull’erba e ascoltai turbinare la ruota che s’allontanava, che se ne andava verso il mare. «Non osavo più alzarmi, né camminare, né fare un movimento: perché, se la carriola fosse ritornata, se mi avesse inseguito, sarei morto di terrore. Stentai a lungo per riprendermi: e feci il resto della strada con tale angoscia nell’animo che il minimo rumore mi troncava il respiro. «Non è sciocco, tutto ciò? Ma che paura! Riflettendo, più tardi, ho compreso: senza dubbio, un ragazzo, scalzo, spingeva la carriola: io, invece, cercavo la testa d’un uomo ad altezza normale! Voi mi capite… quando si ha già in mente un brivido di soprannaturale… una carriola che corre… da sola… Che paura!» Tacque un istante, poi riprese: «Vedete, signore, noi stiamo assistendo a uno spettacolo curioso e terribile: questa invasione del colera! «Sentite l’odore del fenolo di cui queste carrozze sono sature?… vuol dire ch’esso è presente, chissà dove. Bisogna vedere Tolone in questo momento. Ah, davvero si sente ch’è presente, lui. E non è già la paura d’una malattia che fa impazzire quella gente. Il colera è un’altra cosa, è l’Invisibile, è un flagello d’altri tempi, dei tempi passati, una sorta di Spirito malefico che ritorna e che ci stupisce quanto ci spaventa poiché, almeno così sembra, appartiene alle età scomparse. I medici mi fanno ridere, col loro microbo. Non è un insetto quello che terrorizza gli uomini al punto che si buttano dalla finestra; è il colera, è l’essere inesprimibile e terribile venuto dal fondo dell’Oriente. «Attraversate Tolone: nelle sue strade si balla. Perché ballare in questi giorni di morte? Nella campagna, in vicinanza della città, si lanciano fuochi d’artificio, si accendono fuochi di gioia: le orchestrine suonano ariette allegre in tutte le passeggiate pubbliche. «E questo perché Egli è lì, perché lo si sfida, non già il Microbo ma il Colera, e si vuol essere spavaldi di fronte a lui come di fronte a un nemico nascosto che ci attende in agguato. È per lui che si balla, si ride, si grida, s’accendono quei fuochi, si suonano quei valzer: per lui, lo spirito che uccide e che sentiamo presente dovunque, invisibile, minaccioso, come uno di quegli antichi geni del male che i sacerdoti barbari esorcizzavano…».
Guy de Maupassant (traduzione di E. Bianchetti, Mondadori, 1983)