Garbo misurato e pacata attenzione misti a cautela nel formulare i giudizi all’occorrenza sanno farsi soavi e implacabili rasoi. Così la misura di Giuseppe Pontiggia, scomparso nel 2003, si colma nella narrativa, in articoli di giornale brevi e mantenenti rigore di saggio, secca concentrazione o aforismo. L’economia della frase è programmata, forse vocazionale per dissidio fra cuore romantico e pensiero illuministico. Il riassunto lombardo della letteratura manzoniana con tributo a Dossi, Gadda e Tessa polarizza la sua altalena d’equilibri rispetto a enfasi amplificative. Tale carattere emerge dalla sua pagina nella costruzione di dialoghi frequenti e insistenti fra personaggi. Sotto lo scambio rapido di botta e risposta delle comparse che per troppa emarginazione o appartenenza a sé medesime recitano governate dalla sorte distratta, si concentra un substrato interiore in perenne subbuglio. Brevitas e stile in levare sono per Pontiggia possibilità d’accesso al racconto dei sentimenti primari, al contrario la freddezza dello scrivere, distante da passioni esplicite, è proiezione e cantiere per un’elementare crittografia emotiva. Punti costantemente coperti, perché nascosti da una concisione scritturale che spinge a scorrere le righe con impazienza verso lo scioglimento fan perciò progredire tappe all’inconscio che invece lavora. Esordio di fama, La morte in banca è la biografia di un diciassettenne che terminato il liceo approda al posto più invidiato, corollario di sicurezza, stipendio e magari carriera. La noia pervasiva di malattia cronica dell’anima, senz’ali e non solo sonnolento addio spirituale, lo arpiona per destarlo che la sua scheletricità impiegatizia è, nei fatti, una delle infinite tombe della vita. Veemenza primaria è anche il vortice di perfezione che irrita Il giocatore invisibile: una querelle universitaria scoperchia il pattume di un contesto dominato da timori e ansie persecutorie bramose di vendetta. Paura senza limiti sconosciuti che sconvolge il proprio universo risale Il raggio d’ombra, intreccio allucinante per concentrazione e compattezza di spie e spiati durante il fascismo. Clandestino dall’ex libris, in La grande sera, il dileguarsi del protagonista dagli affetti quotidiani e dalla professione genera nei sopravvissutigli, ora suoi sostituti nel ruolo, rabbia contrita e disistima. La secca introspezione dei recessi promuove Pontiggia autore morale, non moralista. L’ironia meno implosiva dei romanzi si muta da aforisma stimolante a premessa per la prova del fuoco, crescita critica senza erudita destrezza sorregge la continuità dell’opera saggistica. Speleologie partecipi si testimoniano Il giardino delle Esperidi e L’isola volante oltre al penultimo Prima persona che raccoglie i testi pubblicati settimanalmente sul Domenicale de Il Sole- 24 ore. Narrativa e saggistica nelle sue opere omozigoti slittano raffinatezza acuta in humor, tanto da arrotarsi tagliente concetto estetico che mai prescinde dal vigile e severo sentimento d’etica. Nel 2000 Nati due volte sconfina, in ritardo ai suoi meriti, notorietà permeata di amore paterno e materno, colpa e vergogna. La relazione complessa fra papà e figlio disabile concentra maggiore affabilità e vena malinconica per riaccordare le note della sua narrativa. “Possiamo immaginare tante vite, ma non rinunciare alla nostra” è diluizione di Pontiggia su preghiere esaudite o inascoltate e non si facciano spallucce al travaglio altrui finché qualcosa di loro non abbracci e passerella resti dentro. Fattosi le ossa sui classici greci e latini ne modera calibratura e proporzione di rispondenti pesi, derivata la comunicabilità apparente da Manzoni ne rifiuta la semplice espressività di creta, riesaminata tra i tasti di una Olivetti. Il suo martellio di direzione autoritaria è sempre rivelazione e anfratto, tunnel dove far presa per intravedere le sagome della verità. A rileggere i suoi libri vien da sorridere con lui in copertina. Ignori la morte, non l’hai conosciuta in guerra però la scorgi nel tuo sudore, poi rinasci o la traspiri in perdita e polvere insudicianti, nell’afflizione e in amore sempre. Non sembra che una siepe di tempo e album cancellino la vita, pare sopravviva oltre scaffali e memoria bibliofila quando nei capitoli di Pontiggia trovi la testardaggine e l’increspatura priva di calendari. Non si è mai vicini a uno scrittore e consulente editoriale come nella concisione lapidaria che porge dati piuttosto di colorarli mero autobiografismo. L’estremo rispetto della tradizione ambrosiana gli dona fiuto per richiamare le esistenze e giudicare “in casa” la costanza dello straordinario figlio Andrea e della moglie, vantaggi per la solitudine scritturale e tributo restituito di gratitudine familiare. Tutto in natura ha essenza lirica, destino tragico e esistenza comica ma Pontiggia rifrulla la miscela di Gogol e Dostoevskij nell’opinione sulla sua esperienza e produzione. Il livello descrittivo, quasi cronachistico, accompagna intenzioni e speranze con risvolti di macchietta per lo squallore di attori e vicende, infine è moira di banalità anonima che sfocia negli spai del trapasso senza riuscire infausta. L’odore muffito di Commedia balzachiana più mediata dall’Ortis che dal post Napoleone batte le piste, humus di vita domestica e orientamenti: tutto avviene sottotono e si pretende teatro ma rimane retroscena.
Michele Rossitti