Tullio Masneri, ‘A chiana ‘e ru trisoru – Novella rossanese, Grafosud – 2016, letto da Dante Maffia

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C’è una Calabria culturale sotterranea o, se volete, periferica, che ogni tanto affiora con delle sorprese significative grazie ai cultori che non demordono: sanno che nei luoghi più disparati si sono verificati eventi rimasti nell’oscurità o hanno operato personaggi di rilievo, in vari campi, che non hanno cercato né la gloria né la notorietà comunque contribuendo in maniera rilevante alla crescita delle comunità. Non sempre si è trattato di casi eccezionali come quelli di Tomasi di Lampedusa o di Gesualdo Bufalino in Sicilia, ma sono da sottolineare ugualmente perché sono cartine di tornasole per misurare i fermenti di un’epoca, di un luogo, il clima che si respirava fuori dalle canonizzazioni e dai riconoscimenti ufficiali. A Rossano abbiamo avuto Tullio Masneri che a soli diciassette anni andò ad aiutare i terremotati di Reggio e Messina del 1908. Poi partì per la Prima Guerra Mondiale dove fu ferito per tre volte: agli occhi, alla mascella, ai denti. Uomo coraggioso, che non si arrese mai e organizzò non poche associazioni per soccorrere i reduci e le loro famiglie, fino a decidere di iscriversi alla facoltà di Farmacia e anche alla Scuola Pedagogica di Napoli. Durante questo percorso esistenziale frastagliato ha avuto il tempo e la voglia di scrivere ‘A chiana ‘e ru trisoruNovella Rossanese.

Tullio Masneri junior, il nipote, la ripropone  in una edizione di Grafosud a tiratura limitata, con una bella copertina di Eugenio Nastasi. Essendo una novella di poco più di trenta pagine può, si chiede Junior, “rappresentare una vita?”. La risposta è sì, “perché si tratta di un racconto di vita, ove si mescolano i valori dell’autorità senile, la bellezza e l’autenticità di esistenze provate da continue difficoltà ma forti della fatica quotidiana e fidenti nell’aiuto della Madonna Achiropita…”.

E a questo punto bisognerebbe aprire una parentesi intitolata “scrittori prolifici e scrittori di una sola opera” con postille e argomentazioni che però, resterebbero sterili disquisizioni. Io dico che vale l’uno e l’altro modo di esprimersi e Masneri lo ha fatto scegliendo la strada dell’essenzialità, che non significa opposizione all’altra, visto che, come ci informa il nipote, le sue letture andavano oltre i confini della Calabria (Misasi, Guidi, Tieri) e arrivavano ai russi e agli americani passando per la letteratura dialettale. La novella è raffinata e condotta con perfetto equilibrio. Una storia come tante che in quei primi anni del Novecento giravano da paese e a paese, da contrada a contrada, ma Masneri ha avuto il pregio di saper amalgamare un italiano forbito ed elegante con il dialetto rossanese senza che tra le due espressioni ci siano idiosincrasie o alterazioni o cadute di stile. Descrive il paesaggio con toni manzoniani e riesce a darne il senso della bellezza con quella misura che appartiene a narratori consumati, la cui tecnica ha raggiunto esiti impeccabili. Lo stesso si dica del “ritmo” imposto alle vicende che, pur essendo un quadro idillico realistico quasi di repertorio, pur legato al patetico di sapore verghiano filtrato attraverso le esperienze di Matilde Serao, di Virgilio Brocchi e di Salvatore Farina, non si fa imbrigliare nelle spire del torbido. La novella, nella logica intrinseca in cui Masneri la porta fin dall’incipit, non poteva che finire nell’abbraccio fatale della morte: “La mattina dopo i contadini, che si recavano al lavoro, trovarono sulla Chiana ‘e ru Trisoru due cadaveri avviticchiati in un ultimo e supremo amplesso d’amore. E in terra tizzi di carbone e ceneri spente”.

Dante Maffia

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