“Gli italiani preferiscono le straniere” di Dante Maffìa, letto da Marco Onofrio

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Il penultimo romanzo di Dante Maffìa, “Gli italiani preferiscono le straniere” (Perrone, 2012, pp. 164, Euro 14), ha avuto forse meno successo di quanto avrebbe meritato – se fosse stato promosso e distribuito con grandi mezzi – per la sua immediata fruibilità narrativa. Qui Maffìa sa trovare un buon equilibrio tra la qualità letteraria e le regole del “consumo” che vogliono il libro godibile, alla portata del lettore comune (non soltanto quello “forte”: anche chi guarda più TV di quanto legge), ovvero il punto di saturazione tra le esigenze artistiche e le opportunità del mercato editoriale. In realtà Maffìa scrive liberamente, come suo solito, obbedendo solo alle proprie pulsioni, senza porsi il problema di “un” lettore o, tanto meno, di strizzargli l’occhio per accattivarsene la complicità. Questo afflato confidenziale deriva, semmai, dal tipo di storia narrata e dal modo che Maffìa sceglie di utilizzare per raccontarla: a livello di sguardo, prima ancora che di linguaggio. Quanto a quest’ultimo, occorre notare il contributo di naturalezza e fluidità che apporta alla narrazione, qui orchestrata (come già “Milano non esiste”, e come il recente, bellissimo “Monte Sardo”) celando l’arte dello scrittore dietro un “tono medio” che rende la lingua italiana insolitamente viva, concreta, efficace, funzionale, agganciata alle cose.  Ritroviamo, anche e soprattutto in questo libro, alcune caratteristiche tipiche della scrittura maffiana. L’autore del “Romanzo di Tommaso Campanella” ha un cuore poetico vastissimo, stratificato come le pagine del mondo da sfogliare, che lo vincola a una pienezza “libidinosa” del dire, a una dovizia di vita che trabocca dalle pagine. L’istinto primario della libido si traduce in voglia e fame, in desiderio e struggimento di bellezza, in golosità insaziabile e capacità di stupore infinito. La grande bellezza apre i suoi frutti a chi la sollecita e interroga con una percezione di tipo estatico, che elegge l’eros a chiave di appropriazione e degustazione: ed ecco la fresca, scintillante concretezza dei corpi, la luminescenza degli aloni, i guizzi fuggitivi degli sguardi. E le tracce che l’incontro e il passaggio delle persone lasciano nella nostra vita. L’amore frammentato in onde infinitesime. E lo sguardo che pettina le chiome iridate dell’incanto. C’è una vera e propria “abbuffata” di bellezza da godere nel mondo: è un cibo inesauribile, che nasce e si moltiplica dal suo continuo rimpasto, e trova la sua origine nel cuore, eterno, della sua stessa fine. Ed ecco il canto di lode alla donna, esaltata in certi tratti come meraviglia e quintessenza dell’universo, seppure non idealizzata: della donna Maffìa offre una rappresentazione realistica, che tiene assieme – in equilibrio dinamico – l’innocenza e la malvagità, la luce e l’ombra, il cielo e l’inferno. La donna è «miele e scintille», è angelo e diavolo, è dolce e crudele: come la stessa vita. L’io narrante di questo romanzo dice di amare la donna capace di far sognare, di accendere il cuore e curare le ferite come una «medicina miracolosa».

Nella scrittura di Maffìa vive, anzi palpita e respira, l’archetipo del “grande seduttore”. Qui ne abbiamo piena, felicissima conferma. «Mi piacciono troppo le donne, tutte», ammette il protagonista del romanzo. E ancora: «sono un infedele di natura». La schermaglia amorosa prevede che il cavaliere/seduttore si predisponga all’assalto dell’“armamento” femminile. E questo assalto, come ogni battaglia, necessita di tempismo, accortezza, coraggio, di gestioni sapienti, tattiche, strategie, abili manovre. «Io sfarfallo, vado di fiore in fiore»: è incapace dunque di fermarsi, di aderire ad una forma. La vita è flusso incalzante: occorre mantenersi fluidi per restare vivi. Non è possibile l’eternità dell’amore (sarebbe contro natura, contro la natura stessa della vita); può darsi invece l’eternità degli attimi di un amore, o di un “semplice” incontro fisico. Questo dongiovannismo erotico e intellettuale implica una sistematica ma sostanziale visione del mondo: è anche un modo di guardare alle cose. Giocare, sperimentare, vivere gioiosi: divertirsi. Il Don Giovanni maffiano è un uomo complesso e omnicomprensivo, che fluidifica e fa dialogare i diversi piani energetici della materia e dello spirito: vuole sì «liberare l’animale» che c’è in lui, ma anche disvelare e percepire l’anima, la magia, la raffinatezza evoluta dei sensi, il potere della parola che accende il desiderio e la musica dei corpi che vibrano all’unisono, accordandosi. Ed ecco risolto il “problema del tradimento”: negandolo, appunto, come falso problema. Se lo scrupolo morale impedisse di cogliere l’occasione, si chiede il protagonista, «non avrei perduto un dono immenso che la vita vuole regalarmi?» Le donne sono troppo belle per non essere godute. È qui la sua profonda a-morale innocenza; in questa incapacità di disubbidire all’imperativo della vita che lo invita, seducente tentatrice, unico e autentico comandamento. La libido, finalizzata al principio di piacere e guidata dall’istinto di sopravvivenza, è la forza più forte di tutte: letteralmente irresistibile. E si traduce in voglia e fame di vita, in desiderio e struggimento di bellezza, in golosità insaziabile e capacità di stupore infinito:

«È veramente bella, ha gli occhi che sembrano mandare fuoco e le labbra carnose e vogliose. I seni sembrano essere usciti da un orefice che li ha modellati come due gioielli da godere palpandoli con quella sacra partecipazione che occorre quando ci si rende conto di essere dinanzi a un miracolo».

La stessa prosa croccante, succosa e faconda, si ritrova nel rapporto vorace col cibo:

«Le lasagne sono eccezionali. Arrivo a mangiarne due piatti e mezzo. (…) Figuriamoci che succederà finché arriveremo alle bistecche di maiale, alle patatine arrosto, all’insalata che occhieggia sul tavolo di fronte ed è ricca di carote, finocchio, lattuga, radicchio, indivia, pomodori, sedano».

In entrambi i casi viene l’acquolina in bocca, dinanzi a tanto ben di Dio. Niente di ultraterreno, per carità: conta il modo con cui le cose si guardano. E guardarle in modo straordinario (con desiderio e attenzione amorosa) le rende straordinarie, per normali che siano. La scrittura è fresca e appetitosa e diretta (cioè sa ridurre al minimo lo scarto fra parola e cosa) perché essa stessa obbedisce alla pulsione “sana” e naturale del sesso. In questo romanzo, come in altre opere, Maffìa fa l’amore con il mondo e con le parole. È un coito primordiale, intriso di eros creativo e cosmogonico, di libertà assoluta, di aspirazione a un corpo e a un respiro collettivi, a una fluidità promiscua dei contatti e degli scambi energetici, a una praticabilità totale dello spazio e del tempo, a un dominio immaginario delle cose, a un assoluto-relativo e troppo umano. Ed ecco, nella linea del perfetto Don Giovanni,  il “catalogo” delle donne avute e/o sognate; e l’analisi fisiologica del suo gusto femminile (vale a dire perché, fra le altre, predilige un certo tipo di donna), e il ricordo accaldato dell’iniziazione sessuale, dell’imprinting.

«Ho pensato molto alle estati trascorse in campagna dagli zii che avevano una tenuta vicino Viterbo e in luglio e agosto invitavano molti amici e parenti a trascorrere delle settimane con loro. Avevo circa dodici anni quando mi sono trovato per la prima volta una donna nuda davanti nella stalla che era situata alla fine del vialone principale della villa. Stavo vagando in cerca di foglie strane per una improbabile collezione che avrei tenuta tra le pagine dei libri e poiché avevo sentito nitrire i cavalli entrai senza rendermi conto di niente, senza badare che avrei potuto ricevere un calcio dalle bestie o altro. Priscilla, una delle governanti di zio, era sdraiata su un mucchio di paglia e si accarezzava il ventre. Non si scompose e non si arrabbiò, lo ricordo benissimo; mi disse soltanto di avvicinarmi e di non disturbarla per un po’, poi mi avrebbe dato retta. Rimasi a guardarla imbambolato, come folgorato, dentro un raptus che non si scioglieva e anzi prendeva sempre più forma di un vago desiderio a cui avevo tante volte pensato ma che mi sembrava soltanto possibile in qualche rivista di nudi intravista nella cameretta delle mie due sorelle. A un certo punto Priscilla strabuzzò gli occhi, pronunciò delle parole incomprensibili e si accasciò, come una che ha raggiunto un traguardo e finalmente può riposarsi. Subito dopo mi abbracciò cominciò a toccarmi con una tale dolcezza e un tale ardore che mi sentii invaso da una specie di nebbia calda dentro la quale navigai felice e ormai dimentico delle foglie e del nitrito dei cavalli. Per tutta l’estate, ogni giorno, Priscilla mi dette appuntamenti sia nella stalla e sia nella sua camera. A un certo punto non si limitò soltanto a baciarmi e ad accarezzarmi, disse che era venuto il momento della iniziazione e mi fece entrare con il mio pisellino in quella che mi parve una caverna calda e accogliente che mi dette spasimi infiniti e mi fece sentire adulto e forte».

 Il versante erotico, che costituisce la linea portante e più immediatamente visibile del romanzo, è doppiato da quello cognitivo e gnoseologico: all’avventura amorosa corrisponde quella dell’intelletto, della conoscenza. E quindi, anzitutto, la ricerca della verità, che è sempre indecidibile, poiché la realtà è stretta in una trama di aporie. Ed ecco il pensiero cosciente, e quello subconscio (gli automatismi, i gesti involontari, le domande che ci facciamo guardando le persone). E, quindi, l’indagine su questo iceberg (con la più parte sommersa) che è il comportamento. Come nascono i desideri? Quanto pesano gli archetipi e i pregiudizi alla radice delle abitudini acquisite? Il protagonista cerca di svellersi da queste abitudini che ne impastano lo sguardo, di allenarsi al confronto delle posizioni, all’esercizio mentale di guardare le cose da opposti e complementari punti di vista. Da che parte sta la ragione? Quasi sempre da entrambe! Ecco la scoperta a cui perviene alla fine del suo percorso narrativo: la complessità del mondo, cioè la sua ricchezza. Ecco dunque il confronto coi “luoghi comuni” e la capacità di infilzarli, di trapassarli, di rovesciarli. Da cui l’abominio dei giudizi affrettati: «non bisogna mai affrettare giudizi su nessuno, perché la realtà è così pazza e bizzarra che se all’improvviso aprissimo le camere da letto di tutta la gente scopriremmo delizie e mostruosità impensate».  E ancora: «Mai farsi delle idee sulla gente e dare patenti sulla base delle apparenze».

Lo stereotipo più ricorrente (in questo caso fin dal titolo) è quello della generalizzazione geografica dei “tipi”. Ad esso è dedicato uno dei versanti analitici più ficcanti de “Gli italiani preferiscono le straniere”. Il protagonista del romanzo sembra come percepire l’azzardo di tali generalizzazioni, ma si confronta pure con il fondo di verità che sembrano nascondere, per lo meno a livello remoto. È pur vero che le persone hanno dentro la Storia della loro terra, sono frutto degli incroci di popoli che le precedono nella catena generazionale. Per cui, ad esempio, le italiane hanno «lineamenti superbi» e un «profilo classico» che sintetizza secoli di storia, di arte, di tradizione: «Le italiane sono tante Gioconde e a guardarle ci si sente ristorare, riempiono il cuore di meraviglia». Ma le “italiane” chi? Agli occhi di quali uomini? Secondo quale arbitraria astrazione dai singoli casi particolari? In realtà esiste l’uomo, esiste la donna, nelle infinite variabili della universale unicità di ogni individuo. Ogni persona è un unicum irripetibile. La nudità, come la morte, svela e livella («una volta nude, le donne sono tutte uguali»); ma in realtà anche nudi siamo diversi: basti pensare alle differenze (sia pure impercettibili) che rendono unici i nostri organi genitali. È in questa dialettica fra particolare e universale, diverso e uguale, altro e identico, uno dei portati più significativi del romanzo. Da una parte la vita inarginabile, dove tutto scorre per conto proprio e le cose spesso prendono il loro verso, indipendenti dalla nostra volontà; dall’altra le strutture che tentano di opporre una inutile difesa: l’artificiosità ingessata e ridicola delle gabbie, delle forme, delle divise. Il protagonista, insomma, preferisce le donne italiane alle straniere (di cui non si fida, e rispetto alle quali resta insolitamente bloccato e impacciato), contrariamente a tutti i suoi amici e, in genere, agli uomini italiani. Per quale motivo, secondo lui, gli “italiani preferiscono le straniere”? Perché le italiane hanno alzato la “cresta”: troppo indipendenti e aggressive per l’uomo italiano, sostanzialmente mammone e maschilista, portato ad apprezzare la devozione, l’obbedienza, l’arrendevolezza di una donna che lo faccia sentire “padrone”.

Ecco allora (con perfetto tempismo, poco oltre la metà del libro) l’esperimento da lui escogitato e proposto agli amici per superare il suo tabù: 14 donne (7 italiane e 7 straniere) a disposizione di altrettanti uomini per eleggere la «regina delle puttane», dopo due settimane di cattività sessuale in un albergo di Rimini affittato in pieno inverno, servitù compresa, alla “modica” cifra di 100000 euro (poco più di 7000 euro a testa per ogni uomo partecipante). La rotazione delle coppie è precisa e inesorabile, ma si rivela un boomerang. L’esperimento naufraga nella noia, nella ridicola meccanicità del sesso a comando (giacché il sesso è vita, non tollera catene di montaggio). Passata l’euforia iniziale, tutto si rivela uno stupido capriccio. E la vita si vendica, facendo pagare un pegno terribile alla fine. Al personaggio più ombroso e misterioso e affascinante: la russa Olga. La situazione da reality che si viene a creare nell’albergo evoca, da lontano, l’allegra brigata del “Decameron”: qui però la peste è metaforica, appartiene come condizione storica al mondo-puttanaio e corrotto. Trapela dunque la desolazione di una società decadente, vista attraverso le lenti colorate di alcuni borghesi privilegiati (professionisti, «pariolini scoglionati e figli di») che ne solcano le scintillanti superfici e ne sondano la nausea, il putridume, il disfacimento. Una sorta di “Dolce vita” 50 anni dopo (non a caso, forse, Rimini: e il colpo di scena finale come corrispettivo del polipo emerso sulla spiaggia di Fregene), ma senza i presupposti salvifici che ancora – partendo da quella società – Fellini poteva intravedere. Un mondo, quello odierno, di corruzione e disperazione generalizzate. Ed ecco il versante sociologico, la virulenta critica che Maffìa vuole rivolgere, senza facile moralismo, ai malcostumi del nostro tempo. “Gli italiani preferiscono le straniere” è un romanzo molto tagliente e caustico nell’analisi dell’attualità. Maffìa – pur essendo metafisica e conoscitiva la vocazione più autentica della sua scrittura – non teme di fondersi e confondersi con la natura effimera dei fenomeni: fa anzi in modo che la cronaca trapeli dalla profondità invariabile della nostra essenza, e viceversa; che insomma il flusso del tempo, con tutte le scorie dei suoi accidenti, lasci la sua impronta sulle parole, e le rispecchi, le renda “sporche” e torbide di vita.

 Marco Onofrio        

 

 

1 commento
  1. Marco Onofrio, come di consueto, con una prosa limpidissima ed elegante, senza alcun artificioso abbellimento così caro a chi non ha il coraggio della luminosa semplicità classica, offre un ritratto di uomo amante della vita goduta in tutte le bellezze che essa offre, “in primis” le donne. Non “la donna” come ideale e nel contempo essere concreto da ammirare e “amare” con passionalità tutta mediterranea, ma proprio “le donne” secondo il celebre motto (maschilista?) che ogni lasciata è persa. Il romanzo “Gli Italiani preferiscono le straniere” del noto scrittore Dante Maffia, qui recensito, presenta appunto l’uomo Dante Maffia nella sua sincera descrizione di sé soprattutto nel rapporto con le donne che, al contrario di moltissimi italiani esterofili, egli preferisce italiane (simili alla Gioconda), adducendo anche le ragioni di tali diverse scelte. Gli altri preferiscono le donne straniere ‘perché le italiane hanno alzato la “cresta”: troppo indipendenti e aggressive per l’uomo italiano, sostanzialmente mammone e maschilista, portato ad apprezzare la devozione, l’obbedienza, l’arrendevolezza di una donna che lo faccia sentire “padrone” ‘.
    Fa piacere a chi scrive, settentrionale di nascita e di mentalità, scoprire che un uomo del Sud non ama più la donna sottomessa come una schiava al marito-padrone, ma rivolge le sue attenzioni e i sui irrefrenabili desideri ad altre caratteristiche femminili che descrive sapientemente, quasi fosse uno scultore che crea un capolavoro.
    Marco Onofrio ha giustamente riportato per intero il passo davvero pregevole in cui lo scrittore narra la sua iniziazione al sesso quando era dodicenne e non tace la sua schietta dichiarazione di essere un vero Don Giovanni che, come quello della letteratura e della musica, ha il suo (aggiornato?) “catalogo” delle donne, nel suo caso, però, “avute o sognate”.
    Un libro da leggere, dunque, anche per merito di Marco Onofrio che ne ha offerta una lettura acuta, fedele e senza dubbio capace di suscitare il desiderio di addentrarsi in tutte le succose pagine scritte dall’adultero per vocazione Dante Maffia.

    Giorgina Busca Gernetti

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