Come è stato sempre ricordato, i tre canti sesti della Divina Commedia sono tutti dedicati al tema politico. Nell’Inferno è Ciacco a parlare della corruzione di Firenze. Ciacco è peccatore del peccato di gola, ritenuto, in un Medioevo afflitto dalla fame, uno dei vizi più pericolosi. Lo dice l’aggettivo “famelico”, ancor oggi in uso. La fame veniva posta all’origine del furto, delle guerre e degli assassinii. Nel Purgatorio c’è Sordello, il poeta nativo di Goito, provenzale in poesia, che, avendo ammirato il carattere generoso e cavalleresco di Ser Blacatz, signore provenzale, e avendone scritto un doloroso compianto in occasione della morte, lancia una feroce invettiva contro i principi italiani che si dilaniano fra di loro, all’interno delle città e tra città e città, facendo dell’Italia, da donna di provincia quale fu, un bordello. E ciò per colpa degli imperatori che dovrebbero rispettare e far rispettare l’ordine e la legge e, invece, se ne disinteressano. Il sesto canto del Paradiso, infine, attraverso la bocca di Giustiniano, imperatore di Bisanzio, mette a fuoco il valore dell’aquila romana, simbolo dell’Impero, che, dopo aver portato civiltà e ordine nel mondo, ora non assolveva più alla sua funzione, lasciando che tutto il mondo andasse in rovina.
Come appare chiaro, salendo dall’Inferno al Paradiso, l’orizzonte oggetto di osservazione politica si allarga sempre di più. Si parte da Firenze, si passa per l’Italia e si arriva all’Europa. Infatti con l’Europa coincide l’Impero. Sono come tre cerchi concentrici, non indipendenti l’uno dall’altro, poiché la rovina di Firenze va necessariamente inquadrata nella crisi dell’Italia, la quale, a sua volta, va inquadrata all’interno della crisi dell’Impero. Il cammino, ovviamente, si può fare anche al contrario. La crisi dell’Impero si riflette su quella italiana, così come quella italiana si riflette su Firenze. Ma il discorso non sarebbe completo, se non si aggiungesse che la crisi di Firenze si riflette drammaticamente sulle disavventure di Dante e, quindi, sul suo doloroso e mai accettato esilio. Il racconto, perciò, non può vedersi come un tracciato ideologico, e meramente storico-politico, ma va visto nel suoi riflessi esistenziali, che toccano i cittadini tutti nel loro concreto vivere, fino ad arrivare al singolo individuo. Di qui il forte affetto che segna i tre canti politici.
Il VI canto del Paradiso occupa il giorno di mercoledì 13 aprile 1300. Il luogo è Mercurio, cielo secondo. Si è tra gli spiriti ambiziosi, cioè fra coloro che grande cura ebbero nel coltivare la loro immagine e potere terreno. Nell’ottica medievale, chi troppo puntava il suo sguardo sui beni terreni, necessariamente poneva meno attenzione ai beni celesti. ”Questa picciola stella – dice Giustiniano, parlando di Mercurio – si correda / di buoni spirti che son stati attivi / perché onore e fama li succeda: // e quando li desiri poggian quivi, / sì disviando, pur convien che i raggi / del vero amore in sù poggin men vivi” (Paradiso, VI, 112-117). Probabilmente alcuni di loro, prima di salire nel cielo di Mercurio, hanno dovuto attendere e purificarsi nella valletta deli principi negligenti, sesto canto del Purgatorio, insieme a Sordello da Goito. Si capisce perché, secondo questa logica, gli spiriti ambiziosi del Paradiso sono nel cielo di Mercurio, “picciola stella”, che rimane parecchio lontano dall’Empireo e, quindi, da Dio. Non c’è, tuttavia, motivo di malcontento in quei beati, spiega ancora Giustiniano, perché ogni spirito sa di aver ottenuto esattamente quello che meritava. Si vuol dire che non c’è invidia verso chi sta meglio; e quando non c’è invidia, c’è sempre e solo amore e felicità, essendo ognuno contento di quello che ha.
A significare il carattere volitivo e vitale degli spiriti ambiziosi, sono i pesci. Infatti gli spiriti ambiziosi, come pesci in peschiera quando loro si getta l’esca, si affollano intorno a Dante e Beatrice, appena arrivati, ansiosi di farsi conoscere e dar loro tutte le informazioni che Dante (non Beatrice) desidera, esercitando, in tal modo, la virtù della carità. A parlare è Giustiniano, che in terra fu Cesare e ora, riconosce, è semplicemente sé stesso, cioè Giustiniano. Come imperatore, quale fu in terra, sente il bisogno di indottrinare Dante, perché ne rapporti sulla terra e serva di monito a quanti siedono e siederanno sul trono imperiale, istituzione divina. Questo, infatti, fu da Dio voluto per guidare la parte mortale dell’uomo, cioè la parte corruttibile, rappresentata dal corpo. Al papa, invece, fu affidata la cura e la guida della parte spirituale, cioè dell’anima, perché questa sia portata nella Gerusalemme celeste. All’imperatore, invece, tocca il compito di creare in terra la Gerusalemme terrestre, primo gradino, del resto, per salire in cielo. E la Gerusalemme terrestre – si legge nel De Monarchia – equivale ad un mondo in cui, “areola … mortalium, libere cum pace vivatur”, cioè, “aiuola della vita mortale, si viva in libertà e in pace”. E poiché tutto questo è nel piano divino ab origine, se ne deduce, come si è accennato, che l’Impero è creazione voluta da Dio. Fu Dio, infatti, a volere l’impero romano, affidando all’aquila romana il compito di portare pace e ordine tra i popoli della terra.
In verità, già Virgilio, nel Medioevo ritenuto un profeta, aveva assegnato questa missione all’impero romano, quando, nel sesto canto dell’Eneide, ai vv. 851-853, così aveva proclamato, rivolgendosi al cittadino romano: “Tu regere imperio populos, Romane, memento / (haec tibi erunt artes) pacique imponere morem / parcere subiectis et debellare superbos” (“tu, Romano, ricordati di reggere con l’impero i popoli, imponendo loro le regole della pace, concedendo il perdono a chi si sottomette, debellando i superbi. Questo sarà il tuo compito”). Di qui l’intesa fra Dante e Virgilio, ancorché in Dante, più che in Virgilio, l’Impero non sia uno Stato che annienta e sostituisce gli altri Stati, bensì una semplice autorità sovranazionale, più morale e giuridica che politica, cui spetta il compito di vigilare perché in tutti gli Stati europei, o province, con proprie leggi e propria identità, ci siano, per l’appunto, ordine e libertà. Per questa missione, l’imperatore è inviato di Dio, così come lo è il papa. E’ questa la ragione per cui, secondo Dante, la vita dell’uomo può dirsi retta da due soli, l’uno indipendente dall’altro, ma tutti e due emanazione di Dio.
Nel canto VI del Purgatorio, Dante, per bocca di Sordello, aveva lanciato tremende invettive all’indirizzo degli imperatori “tedeschi”, che, venendo meno alla loro missione, lasciavano che in Italia regnasse il disordine più assoluto. Sembrava, anzi, che pure Dio avesse rivolto gli occhi altrove. In Paradiso, Giustiniano, per far passare il suo messaggio, più che dare insegnamenti e moniti, ritiene di dovere adottare una via diversa, che si potrebbe definire indiretta e più persuasiva. Percorre, infatti, tutta la storia di Roma, mostrando di quanta gloria, per volontà di Dio, si è coperta l’aquila romana.
E comincia dall’arrivo di Enea e dalla guerra da lui combattuta contro l’esercito di Turno. Non manca di ricordare che sotto l’Impero romano, regnante Augusto, nacque Cristo, la cui morte, sotto Tiberio, servì a liberare l’uomo dal peccato originale. Vuole anche dire che, nascendo e morendo al tempo di Roma, Cristo, cosa già detta nel De Monarchia, si riconosceva cittadino romano. Ma non basta. Sotto Tito, l’aquila romana corse a distruggere Gerusalemme, punendo gli ebrei per aver essi ucciso Cristo. Perciò, come autorità sovranazionale, che deve unire e ordinare, l’aquila imperiale non può essere assunta a simbolo di un partito, come è nel caso del ghibellino, che, per essere partito, divide e porta odio fratricida. “Faccian li ghibellin, – dice Dante – faccian lor arte / sott’altro segno, ché mal segue quello / sempre chi la giustizia e lui diparte” (Paradiso, VI, 103-105). Quanto ai guelfi che, illusi, fanno guerra all’aquila pensando di annientarla, sappiano che l’aquila strappò il vello anche a più forti leoni. Il che, tuttavia, non deve far pensare che la forza dell’Impero si manifesti solo come forza militare. Così non è. Certo l’imperatore ha anche bisogno di un esercito; ma dell’esercito non avrebbe bisogno, se ponesse mano alle leggi di cui dispone e le facesse rispettare, applicandole per primo. In fondo, quella di Dante, è una dottrina pacifista, che fa pensare all’Impero come ad una autorità paragonabile all’attuale Europa unita e ai suoi organismi istituzionali.
La gloria di Giustiniano, infatti, per sua ammissione, non è nelle vittorie militari riportate sui Goti e ottenute per volontà di Dio. Anzi è da credere che Iddio facilitò e rese rapide le vittorie del generale Belisario, perché, sottomessi rapidamente i nemici, egli avesse più tempo per l’aggiustamento dell’ordinamento giuridico, opera più largamente meritoria. E’ vero, infatti, che il resto della vita di Giustiniano, dopo le vittorie militari, fu tutto dedicato alla compilazione del Corpus iuris, ottenuto togliendo dalle leggi romane il “ troppo” e il “vano”.
Purtroppo, al tempo di Dante, quel Corpus iuris giaceva senza significato e senza forza. Che cosa succedesse, di conseguenza, lo diceva il caso dell’Italia e lo diceva il caso di Firenze. Ma cosa ben più drammatica, nella sua evidenza, lo diceva il destino di Dante, rappresentato da un personaggio a lui affine, che operò bene e ottenne male. Il riferimento è a Romeo da Villanova, personaggio storico vissuto tra il 1170 e il 1250. Operò in Provenza al servizio di Raimondo Beringhieri, detto anche Berengario IV, molto meritando. Infatti, a leggere quanto scrive Dante, “quattro figlie ebbe, e ciascuna reina, / Ramondo Beringhieri, e ciò li fece / Romeo, persona umile e peregrina” (Paradiso, VI, 133-135). Per tutta risposta, invece, contro tanto merito, uomini “biechi”, proprio come era capitato a Pier delle Vigne e capitò allo stesso Dante, spinsero il signore “a dimandar ragione a questo giusto, / che li assegnò sette e cinque per diece”, ovvero che gli aveva dato dodici in cambio di dieci. E come Dante, anche Romeo se ne partì, “povero e vetusto”. Ma, “se ‘l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe / mendicando la vita a frusto a frusto, / assai lo loda, e più lo loderebbe” (Paradiso, VI, 136-145).
Era, purtroppo, pane che, dato dagli altri come a mendicante, sapeva di sale, così come dure a percorrersi erano le scale dei palazzi che bisogna salire con mano stesa, chiedendo asilo. Ma Romeo, come Dante, non si umiliò; sempre, invece, conservò la necessaria dignità. Di qui l’ammirazione e il messaggio del poeta, cui bastarono pochi versi per tracciare un dramma e raggiungere alta poesia, a chiusura di un canto che, tanto complesso, rischiava di passare per un canto tutto dotto e tutto erudito, da saltare a piè pari.
La verità è che il tema dell’esilio è piaga sanguinante per Dante, il quale, a leggere il Convivio, dopo essere andato, “per le parti quasi tutte a le quali” si estendeva la lingua italiana, “peregrino quasi mendicando”, mai disperò di tornare in patria, per “riposare l’animo stancato e terminare lo tempo” che gli era dato di vivere ancora. Né mai si umiliò, o tacque verità scomode. Il canto, perciò, nel suo complesso, ben si presta ad accogliere il giudizio che un grande critico, oggi dimenticato, Luigi Russo, espresse a proposito del De Monarchia, opera dotta e politica quanto il VI canto del Paradiso: “La maggiore originalità e il particolare interesse dell’opera – scrisse – sono in ciò che essa, non maturata soltanto attraverso la speculazione astratta, ma germinata anche e specialmente dalla meditazione della realtà storica e dalla sua propria esperienza, esprime non il pensiero soltanto, ma quasi tutta la spiritualità di Dante, nei suoi ideali, nel suo spirito etico, nell’orgoglioso senso di romanità, nell’anelito sempre più vivo alla giustizia, alla pace e alla libertà, nella urgenza sempre più profonda dell’apostolo che vuole riordinare la patria e il mondo”. La politica, per Dante, in definitiva, era soprattutto sentimento, e ne coinvolgeva tutto il tratto esistenziale. Non per nulla di lui e da lui, sulle orme di Aristotele, si disse che l’uomo era civis, e viceversa.
Giovanni Caserta