Si è nel sabato 3 aprile 1300, intorno alle sette del mattino, quando Dante e Virgilio lasciano il ponte che sovrasta la quarta bolgia, quella degli indovini, che hanno figura stravolta. Il loro viso, infatti, è girato sulle spalle, sicché le loro lacrime scendono prendendo la via tra le due natiche, come in un piccolo predisposto canale. Vollero guardare in avanti, verso il futuro; nell’Inferno, sono costretti a guardare all’indietro. E’ scena grottesca e sprezzante, che vuol irridere a coloro che pensarono, con la loro vista umana, di entrare nei segreti della storia, così come prefigurata dalla Provvidenza. Ma il grottesco e lo sprezzante, proprio del canto degli indovini, non può stare alla pari di quanto si legge e si vede nei successivi canti XXI, XXII e parte del XXIII, dedicati ai barattieri, presenti nella quinta bolgia. Non è mancato chi, nel valutare la straordinario accanimento di Dante nei confronti di costoro, vi ha visto una esigenza o bisogno personale. Tutti hanno ricordato che il peccato di baratteria era la colpa che era stata attribuita a Dante. Per essa egli soffrì l’esilio e l’umiliazione di sentirsi dire che, se voleva il perdono ed evitare la condanna a morte, doveva presentarsi, reo confesso, nella sua città. Era naturale che, nel descrivere e presentare i barattieri, egli non indulgesse al minimo senso di comprensione e di pietà. Sarebbe stato come avallare la condanna che lo perseguitava.
I barattieri sarebbero oggi chiamati tangentisti, corruttori e corrotti, perché il loro comportamento fu informato alla regola del “do ut des”, ovvero “ti faccio un favore purché tu ne faccia uno a me, magari doppio”. Si arriva così, per danaro, a fare del no un sì. Il che implica uno stato di confusione, disordine e ribaltamento delle situazioni. Insomma si è nel torbido. La società, infatti, quando dilaga la baratteria, non può più dirsi società, perché non è più retta da regole, funzioni e servizi stabiliti e rispettati. E’ piuttosto un arsenale, in cui ognuno opera per proprio conto. E proprio all’arsenale di Venezia, porto di mare, fa riferimento Dante, già a partire dai primi versi del canto XXI. Il luogo è osservato nel periodo invernale, quando, nell’ozio, ognuno va per proprio conto. Manca, infatti, una direzione o un impegno di vita collettiva. La baratteria, del resto, è propri degli oziosi, cioè di quanti pensano di far guadagno senza lavorare. Nell’ozio, accade che ognuno si arrangia come può. C’è chi fa una cosa e chi ne fa un’altra, ma pur sempre pensando solo a sé stesso. Invece di navigare e pescare, nell’arsenale di Venezia c’è “chi fa suo legno novo e chi ristoppa / le coste a quel che più viaggi fece; // chi ribatte da proda e chi da poppa; / altri fa remi e altri volge sarte; / chi terzeruolo e artimon rintoppa” (Inferno, XXI, vv. 11-15). E tutto ciò avviene mentre bolle un vascone di pece, cui si attinge per le riparazioni. Simile appariva la quinta bolgia, ricolma di pece spessa e vischiosa, che si attacca alle pareti da ogni parte. E’ lago melmoso bollente, che si copre di bolle qua e là, si abbassa e si alza, senza lasciar vedere le anime di quanti, avendo pescato nel torbido in terra, si invischiarono in mille affari sporchi e compromettenti. Ora si affannano sotto la pece. Sono, quindi, in una condizione miserevole quant’altri mai. Cercarono di emergere disonestamente in vita; ora, nell’Inferno, inutilmente cercano di emergere dalla palude bollente. Spesso appaiono col dorso; a volte fanno capolino con la testa; ma non fanno in tempo ad affiorare, che già si sentono sulla pelle e sui capelli i roncigli e i forconi dei diavoli.
Per loro Dante non usa espressioni che siano umane. Sin dalla prima scena, tutto è capovolto. Appena sul ponte, Dante e Virgilio notano un diavolo che sta arrivando con l’ultimo dannato che, raccolto nella terra di Lucca, è trattato come un peso inerte, simile alle carcasse che i macellai trasportano sulle spalle. Il dannato, infatti, è testa in giù, retto per le gambe, alle caviglie. Arriva, come si è detto, da Lucca, dove la baratteria, nel pensiero di Dante, pare che fosse particolarmente diffusa; quindi, come un sacco di immondizia, viene letteralmente “buttato” – parola usata da Dante – nel lago bollente. I diavoli, quindi, dopo averlo addentato, così accompagnano la sua caduta: “Coverto convien che qui balli, / sì che, se puoi, nascosamente accaffi” (Inferno, XXI, vv. 53-54).
Sciagurati e quasi simili agli ignavi, i barattieri vengono volentieri paragonati agli animali. Son detti ranocchi o sorci o delfini. Si dice di loro che hanno la tigna. Oppure sono “lessi dolenti”, cioè pezzi di carne, senza anima e senza sangue, messi a bollire. I diavoli che li spingono giù, sotto la pece, sono come i cuochi che “a’ lor vassalli / fanno attuffare in mezzo la caldaia / la carne con li uncin, perché non galli” (Inferno, XXI, vv. 55-57). Non diversamente volgari e miserevoli, peraltro, sono i diavoli, che, in questa circostanza, non hanno la caparbietà e la iattanza dimostrata dai loro colleghi. Sono – si direbbe – “poveri diavoli”, dispettosi e sadici, persino capricciosi, desiderosi di ridere, divertirsi, torturare e sbeffeggiare. Si può anche capire. I barattieri sono stati, in genere, personaggi “anziani” – altra parola usata da Dante – cioè appartenenti alla classe dirigente del tempo. Sono amministratori e magistrati con alti incarichi, che hanno approfittato della loro condizione per fare pressioni, ricattare, intimorire. E’ giusto che qui siano degradati a personaggi squallidi.
Molti lettori e commentatori non sono stati capaci di andare oltre la considerazione che Dante, quasi a mo’ di divertimento, si sia lasciato andare allo stile comico, portato alle forme sue estreme, come si trattasse di una ostentazione di perizia stilistica. E’ un errore. La commedia non fu scritta, in nessun verso, e in nessun canto, per il piacere del divertimento puro o per mettere in luce particolari abilità tecniche. Per raggiungere tale fine, Dante non si sarebbe mai ridotto a farsi “macro”, cioè a smagrire nella scrittura. L’intento è sempre pedagogico. Perciò, quando la “comicità” raggiunge la forma più grottesca e bizzarra che si possa immaginare, anche in quel caso l’intento è pedagogico. Bisogna solo trovarlo e saperlo trovare. Se per i simoniaci Dante usò la tromba e diede bando, per i barattieri non c’ è solennità. Sono personaggi meschini, che presunsero di esercitare una particolare autorità, approfittando del loro potere, opprimendo, minacciando e ricattando. Ora, nell’Inferno, scoperte le loro magagne, son fatti oggetto di pernacchie e scorregge. Si spiegano così i suoni volgari che accompagnano la partenza dei diavoli, quando essi sono chiamati a scortare persino Dante e Virgilio, sapendo, però, di condurli, con l’inganno, verso un passaggio che non esiste: “Avea – dice Dante – ciascun la lingua stretta / coi denti, verso lor duca, per cenno; / ed elli avea del cul fatto trombetta” (Inferno, XXI, vv. 137- 139).
Sembrano diavoli minori, che fanno dispetti. Sono genericamente definiti Malebranche, cioè diavoli che provano gusto ad abbrancare, con le mani, con le zanne, con i forconi, con i roncigli. Hanno ali larghe. Così li vedeva la fantasia popolare. Proprio perché tormentare è per loro un divertimento, sono pronti a farlo anche con Virgilio e con Dante, che è costretto a nascondersi, pur non essendo della bolgia. Digrignano i denti; sono lontre, falconi, sparvieri; hanno artigli, zanne di porco e hanno nomi, che sono la definizione del loro carattere rozzo e volgare. Si chiamano Alichino, Barbariccia, Cagnazzo, Calcabrina, Ciriatto, Draghignazzo, Farfarello, Graffiacane, Libicocco, Malacoda, Rubicante, Scarmiglione. Quando Dante e Virgilio hanno incontrato Caronte e Minosse, costoro non si sono permessi di attentare alla vita di Virgilio e Dante, abbandonandosi a bassi istinti. Si sono rivolti a Virgilio con solennità, chiedendogli di rimandare indietro il compagno, che è vivo e non ha diritto a passare per l’Inferno. Quando si rivolgono direttamente a Dante, gli preannunciano che altra, e migliore, sarà la sua strada. Sarà quella della salvezza. Insomma, invitano al rispetto delle regole. E Virgilio risponde con altrettanta solennità: “Vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare”.
Non così si può fare con i capricciosi demoni Malebranche, che non hanno alcuna finezza e sottigliezza intellettuale. A loro si fa un ragionamento pratico e, si direbbe, spicciolo. Intanto, agendo solo per malvagità gratuita, volentieri, come si è lasciato intendere, arronciglierebbero lo stesso Virgilio, prima ancora di sapere chi è. Per convincere Malacoda, emissario dei diavoli, a cedergli il passaggio, Virgilio lo invita a riflettere sui fatti. “Credi tu, Malacoda – gli dice, – qui vedermi / esser venuto …. / sicuro già da tutti vostri schermi // sanza voler divino e fato destro?/ Lascian’andar, ché nel cielo è voluto / ch’i’ mostri altrui questo cammin silvestro” (Inferno, XXI, vv. 79- 84).
La critica e i lettori, mancando momenti di intima riflessione e raccoglimento, non sono stati molto generosi con questi canti, troppo fermandosi sull’aspetto esteriore degli stessi. Poco hanno detto del loro valore poetico. Hanno accompagnato la lettura con molte annotazioni, che vorrebbero dimostrare come Dante abbia inventato poco e si sia lasciato suggestionare da forme ridanciane, non escluso il desiderio della vendetta personale. C’è stato chi, con dovizia, ha pensato di trovare nei diavoli i suoi avversari che, per l’appunto, come si è detto, lo avevano condannato per baratteria. La riprova sarebbe nel fatto che li chiama “neri”, a ricordo dei “Guelfi Neri”. C’è stato chi, nel nomignolo di questo e quel diavolo, ha voluto trovare persino qualcuno dei giudici o nemici personali, che più gli si erano mossi contro. Nelle scene dei diavoli e nelle pene dei dannati c’è stato chi ha ricordato che la pena dei barattieri, in alcune città medievali, era quella di essere trascinati per le vie cittadine, legati alla coda di un asino e così avviati a morte. Qualcun altro ricorda che i barattieri a volte erano giustiziati, facendoli morire o nell’acqua o nell’olio bollente. Alcuni subivano la pena di essere dilacerati. Si voleva dire, in questo modo, che, come avevano accumulato ricchezza, raccogliendo qua e là mazzette di soldi, così, per punizione, dovevano restituire pezzi del loro corpo. C’è stato chi, non sappiamo quanto opportunamente e appropriatamente, ha parlato di “farsa dei diavoli” o, addirittura, di “rapsodia dei diavoli”. Insomma, tutto si ridurrebbe ad uno scherzo o gioco, come farebbe credere la parola “ludo”, usata da Dante al verso 118 del canto XXII. C‘è stato, infine, chi ha tirato in ballo il carnevale fiorentino. Nel complesso, cioè, sarebbe un canto ben studiato, ben costruito, ma senza sangue e senza punte di eccellenza. Come è vero che, alla fine, tutta l’attenzione è stata concentrata su un Barbariccia che col “cul fece trombetta”.
Che Dante abbia studiato attentamente la sceneggiatura, è una verità. Giustamente è stato anche notato come a personaggi tanto squallidi siano stati dedicati due canti e mezzo. E tutto risponde ad una precisa architettura e “astuzia”. Lo stesso inizio del canto XXI (“Così di ponte in ponte…”) indica quasi la voglia di prendere respiro, ricapitolando, prima di accingersi a qualcosa di molto particolare e inaudito. C’è quindi, improvvisa e inaspettata, la descritta scena del diavolo che porta sulle spalle un peccatore, che poi “butta” nella pece. Segue l’accanimento degli altri diavoli sul malcapitato. E’ scena che fa capire a Virgilio che la quinta bolgia è luogo in cui bisogna stare attenti, perché non c’è logica. Accade, quindi, che Dante, mandato da Dio per l’Inferno, debba nascondersi come un qualunque furfantello, sul cui “groppone” qualcuno vorrebbe far sentire il forcone. Malacoda tiene a bada gli stizziti compagni, invitandoli, invece, ad accompagnare i due passeggeri, verso un ponte, che, invece, non esiste. Il drappello parte tra una scorreggia e sconci rumori con la bocca. Ma non per questo i dieci diavoli di scorta tralasciano di spiare la superficie del lago di pece, nel tentativo di afferrare e tirar su qualche dannato. Casca nelle loro grinfie Ciampòlo di Navarra, che non ha fatto in tempo a tuffarsi nella pece. Preso, viene interrogato da Virgilio circa suoi eventuali compagni italiani. Prima che il dannato risponda, con forconi ed uncini c‘è chi gli strappa un braccio, chi un pezzo di gamba. A Ciampòlo, astuto e malizioso in vita, non resta se non la risorsa della malizia. Promettendo di far venire altri compagni da torturare, chiede di essere lasciato momentaneamente libero. Mentre i diavoli si allontanano, con un salto egli si ributta nella pece. Un diavolo si accapiglia col compagno che ha dato credito al Navarrese. Azzuffandosi, i due, abbrancati, cadono sconciamente nella pece, inzaccherandosi le ali. Non si sarebbero mai più levati in volo, se Barbariccia non avesse invitato i compagni a tirarli su. Il tutto ha distratto i diavoli da Dante e Virgilio, che ne approfittano per sottrarsi, anch’essi di soppiatto ed astutamente, alla attenzione dei diavoli. Insomma, “ne la chiesa / coi santi, e in taverna co’ ghiottoni” (Inferno, XXII, vv. 14-15). Solo così i due passeggeri possono passare nella bolgia successiva, tra gli ipocriti.
Resta da vedere, alla luce di quanto detto, la ragione vera per cui Dante ha dedicato tanta attenzione ai barattieri e che cosa abbia voluto dire ai suoi lettori. I barattieri sono stati assimilati, da alcuni commentatori, ai simoniaci, che vendettero cose sacre. Essi hanno dimostrato, in vita, particolare accortezza nel mascherare le loro malefatte, cercando di non incappare nei roncigli della legge. E’ la caratteristica dei tangentisti, che, avvalendosi del ruolo che svolgono, spesso di vigilanti e guardiani della morale pubblica, riescono a mimetizzarsi e nascondersi. Dante ha voluto portarli alla ribalta attraverso una rappresentazione scenica, che, degna di un teatro popolare, goffo, li espone al ludibrio più mortificante. Ha voluto, in altre parole, punire il loro modo subdolo e vile di operare, nelle cui grinfie possono cadere anche gli innocenti e persone inconsapevoli. In fondo, ci stava cascando persino Virgilio, tanto che, almeno per questa volta, più saggio si dimostra Dante. Forse questi voleva far sapere quanto disprezzasse la baratteria e se ne mantenesse lontano, ben sapendo dove essa si annida. Ciò a dispetto dei suoi avversari, che, invece, la baratteria vollero appioppargli.
Se questo è l’intento di Dante, la poesia va cercata in altro genere, che è quello, per l’appunto, della teatralità. E trattasi di una teatralità “buffa”, che può richiamare alla mente il teatro giullaresco di Dario Fo, che nasconde il tragico nel comico, approdando al grottesco. Di simile teatro non si può apprezzare il momento gnomico e riflessivo, quanto, invece, la efficacia rappresentativa, con particolare riferimento alla rapidità di successione delle scene, non escluso il capovolgimento di fronte. Basti rifarsi alla scena che vede i due diavoli diventare, da persecutori dei dannati nella pece, essi stessi dannati della pece. Si può pensare anche ai rapidi capovolgimenti che sono propri del teatro di Plauto. E dai rapidi capovolgimenti bisogna trarre l’insegnamento. Il quale così si potrebbe riassumere: con i santi in chiesa, con i birbanti in taverna. Ovvero siate vigili e intelligenti, se non volete impaniarvi nella pece della corruzione pubblica che, spesso facendosi sistema di vita, può apparire normalità.
Giovanni Caserta
Così di ponte in ponte, altro parlando
che la mia comedìa cantar non cura,
venimmo; e tenavamo ‘l colmo, quando 3
restammo per veder l’altra fessura
di Malebolge e li altri pianti vani;
e vidila mirabilmente oscura. 6
Quale ne l’arzanà de’ Viniziani
bolle l’inverno la tenace pece
a rimpalmare i legni lor non sani, 9
ché navicar non ponno – in quella vece
chi fa suo legno novo e chi ristoppa
le coste a quel che più vïaggi fece; 12
chi ribatte da proda e chi da poppa;
altri fa remi e altri volge sarte;
chi terzeruolo e artimon rintoppa -: 15
tal, non per foco ma per divin’arte,
bollia là giuso una pegola spessa,
che ‘nviscava la ripa d’ogne parte. 18
I’ vedea lei, ma non vedëa in essa
mai che le bolle che ‘l bollor levava,
e gonfiar tutta, e riseder compressa. 21
Mentr’io là giù fisamente mirava,
lo duca mio, dicendo “Guarda, guarda!”,
mi trasse a sé del loco dov’io stava. 24
Allor mi volsi come l’uom cui tarda
di veder quel che li convien fuggire
e cui paura sùbita sgagliarda, 27
che, per veder, non indugia ‘l partire:
e vidi dietro a noi un diavol nero
correndo su per lo scoglio venire. 30
Ahi quant’elli era ne l’aspetto fero!
e quanto mi parea ne l’atto acerbo,
con l’ali aperte e sovra i piè leggero! 33
L’omero suo, ch’era aguto e superbo,
carcava un peccator con ambo l’anche,
e quei tenea de’ piè ghermito ‘l nerbo. 36
Del nostro ponte disse: “O Malebranche,
ecco un de li anzïan di Santa Zita!
Mettetel sotto, ch’i’ torno per anche 39
a quella terra, che n’è ben fornita:
ogn’uom v’è barattier, fuor che Bonturo;
del no, per li denar, vi si fa ita”. 42
Là giù ‘l buttò, e per lo scoglio duro
si volse; e mai non fu mastino sciolto
con tanta fretta a seguitar lo furo. 45
Quel s’attuffò, e tornò sù convolto;
ma i demon che del ponte avean coperchio,
gridar: “Qui non ha loco il Santo Volto! 48
qui si nuota altrimenti che nel Serchio!
Però, se tu non vuo’ di nostri graffi,
non far sopra la pegola soverchio”. 51
Poi l’addentar con più di cento raffi,
disser: “Coverto convien che qui balli,
sì che, se puoi, nascosamente accaffi”. 54
Non altrimenti i cuoci a’ lor vassalli
fanno attuffare in mezzo la caldaia
la carne con li uncin, perché non galli. 57
Lo buon maestro “Acciò che non si paia
che tu ci sia”, mi disse, “giù t’acquatta
dopo uno scheggio, ch’alcun schermo t’aia; 60
e per nulla offension che mi sia fatta,
non temer tu, ch’i’ ho le cose conte,
perch’altra volta fui a tal baratta”. 63
Poscia passò di là dal co del ponte;
e com’el giunse in su la ripa sesta,
mestier li fu d’aver sicura fronte. 66
Con quel furore e con quella tempesta
ch’escono i cani a dosso al poverello
che di sùbito chiede ove s’arresta, 69
usciron quei di sotto al ponticello,
e volser contra lui tutt’i runcigli;
ma el gridò: “Nessun di voi sia fello! 72
Innanzi che l’uncin vostro mi pigli,
traggasi avante l’un di voi che m’oda,
e poi d’arruncigliarmi si consigli”. 75
Tutti gridaron: “Vada Malacoda!”;
per ch’un si mosse – e li altri stetter fermi –
e venne a lui dicendo: “Che li approda?”. 78
“Credi tu, Malacoda, qui vedermi
esser venuto”, disse ‘l mio maestro,
“sicuro già da tutti vostri schermi, 81
sanza voler divino e fato destro?
Lascian’andar, ché nel cielo è voluto
ch’i’ mostri altrui questo cammin silvestro”. 84
Allor li fu l’orgoglio sì caduto,
ch’e’ si lasciò cascar l’uncino a’ piedi,
e disse a li altri: “Omai non sia feruto”. 87
E ‘l duca mio a me: “O tu che siedi
tra li scheggion del ponte quatto quatto,
sicuramente omai a me ti riedi”. 90
Per ch’io mi mossi e a lui venni ratto;
e i diavoli si fecer tutti avanti,
sì ch’io temetti ch’ei tenesser patto; 93
così vid’ïo già temer li fanti
ch’uscivan patteggiati di Caprona,
veggendo sé tra nemici cotanti. 96
I’ m’accostai con tutta la persona
lungo ‘l mio duca, e non torceva li occhi
da la sembianza lor ch’era non buona. 99
Ei chinavan li raffi e “Vuo’ che ‘l tocchi”,
diceva l’un con l’altro, “in sul groppone?”.
E rispondien: “Sì, fa che gliel’accocchi”. 102
Ma quel demonio che tenea sermone
col duca mio, si volse tutto presto
e disse: “Posa, posa, Scarmiglione!”. 105
Poi disse a noi: “Più oltre andar per questo
iscoglio non si può, però che giace
tutto spezzato al fondo l’arco sesto. 108
E se l’andare avante pur vi piace,
andatevene su per questa grotta;
presso è un altro scoglio che via face. 111
Ier, più oltre cinqu’ ore che quest’otta,
mille dugento con sessanta sei
anni compié che qui la via fu rotta. 114
Io mando verso là di questi miei
a riguardar s’alcun se ne sciorina;
gite con lor, che non saranno rei”. 117
“Tra’ ti avante, Alichino, e Calcabrina”,
cominciò elli a dire, “e tu, Cagnazzo;
e Barbariccia guidi la decina. 120
Libicocco vegn’oltre e Draghignazzo,
Cirïatto sannuto e Graffiacane
e Farfarello e Rubicante pazzo. 123
Cercate ‘ntorno le boglienti pane;
costor sian salvi infino a l’altro scheggio
che tutto intero va sovra le tane”. 126
“Omè, maestro, che è quel ch’i’ veggio?”,
diss’io, “deh, sanza scorta andianci soli,
se tu sa’ ir; ch’i’ per me non la cheggio. 129
Se tu se’ sì accorto come suoli,
non vedi tu ch’e’ digrignan li denti
e con le ciglia ne minaccian duoli?”. 132
Ed elli a me: “Non vo’ che tu paventi;
lasciali digrignar pur a lor senno,
ch’e’ fanno ciò per li lessi dolenti”. 135
Per l’argine sinistro volta dienno;
ma prima avea ciascun la lingua stretta
coi denti, verso lor duca, per cenno; 138
ed elli avea del cul fatto trombetta.
“ed elli avea del cul fatto trombetta”
Ecco perché il linguaggio è comico e non tragico, perciò “Comedìa” e non “Tragedìa”.
GBG
Molto interessanti questi approfondimenti