Intervista di Enzo Biagi a Eugenio Montale, Nobel per la letteratura

eugenio-montale-ritratto1«È ancora possibile la poesia? In un mondo nel quale il benessere è assimilabile alla disperazione e l’arte, ormai diventata bene di consumo, ha perso la sua essenza primaria?». Questo chiede Eugenio Montale il 12 dicembre 1975 all’Accademia di Svezia, il giorno in cui riceve il premio Nobel per la Letteratura. Dalla sua stanza Montale vede il mondo. E una solitudine affollata di notizie e di pensieri. Sa tutto: libri che si vendono, quello che accade nei giornali, le manovre del potere. E di tutto parla con ironia e distacco. Sulla sua porta non c’è scritto nulla, nell’elenco del telefono: Montale Eugenio, giornalista. Siamo soli, nel salotto tranquillo. Di là, Gina sta stirando camicie. Gli chiedo come passa le giornate: «Prendo dei sonniferi e leggo. Qualche volta esco. Ogni tanto vado a Roma». No, non più libri gialli; gli servivano per imparare l’inglese, voleva sapere chi era l’assassino e le parole si fissavano nella memoria. Alterna sigarette leggere con piccoli confetti di liquirizia. Ogni tanto chiude gli occhi, come per raccogliersi, o forse la luce della lampada lo affatica. Una volta ha detto: «Sarei contento se istituissero l’undicesimo comandamento: non seccare il prossimo». Detesta le riunioni mondane, le signorine che scrivono versi e pretendono giudizi, i falsi intellettuali e gli esibizionisti: «Meglio, certo meglio gli analfabeti. Da loro c’è sempre da imparare. Possiedono alcuni concetti fondamentali, quelli che contano. Purtroppo, pare ne siano rimasti pochi». Era un bambino malato, che si fermò alla terza tecnica: gli hanno poi dato tre lauree ad honorem. «Qui, anche per diventare poliziotto», dice, «bisogna essere dottore. Soprattutto nel Meridione è un titolo molto apprezzato. Ho avuto occasione di scorrere un elenco di ammessi in diplomazia: Lo Cascio. Lo Curzio». Il suo primo editore fu Piero Gobetti; secondo certi matematici, in cinquant’anni, ha scritto soltanto duecento poesie. Ma hanno un posto nella letteratura mondiale. I riconoscimenti non lo esaltano; ha detto: «Non attribuisco nessun particolare privilegio all’artista nella società; nessun merito speciale». A Giulio Nascimbeni, suo appassionato biografo, ha confidato che i personaggi che ammira di più sono «Gesù Cristo, un po’ meno anche Satana, tutti quelli che sono finiti sul rogo per ragioni teologiche, quelli che sono stati uccisi per le loro idee». Chiuso, scontroso, timido, ecco tre opinioni che lo accompagnano. Invece è garbato e candido e ti circonda di premure e anche di complimenti ingenui: «Che bella sciarpa hai. Che colore giovanile: Gina, senta come è morbida». Montale non si intervista; è lui che, ogni tanto, interroga. Vuol sapere che cosa succede, o quello che pensi. Va poco in giro ma sa tutto: è curioso, non pettegolo, e segue anche i fatti della cronaca minuta. E un conversatore molto piacevole; credo che avrebbe potuto fare benissimo del teatro: le sue battute spesso nascondono nel paradosso la verità. Usa l’ironia anche con se stesso: da ragazzo sognava di diventare un cantante famoso ma, spiega, «forse non ero abbastanza stupido, per riuscire occorre un misto di genialità e di cretineria».

Chiedo: «Chi ha detto che sei”un opportunista scettico e rinunciatario”? Come si può spiegare un’affermazione così severa?».

«Non lo so, non so se è un mio nemico. Non credo di averne molti. Ad esempio, ho fatto qualcosa a favore del divorzio, che al Senato è passato con pochissimi voti, Il problema è stato impostato in maniera tanto ridicola e la gente pensa che divorziare sia obbligatorio. Obbligatorio era il matrimonio, ai tempi di Mussolini».

«Come ti vedi? Se dovessi tracciare un rapido ritratto di Montale, che cosa diresti?».

«Non ho mai saputo quale faccia dovessi avere davanti al mondo. Gli eventi mi hanno modificato. Sono diventato giornalista dopo i cinquanta, quando si va quasi in pensione. Mario Borsa mi invitò a collaborare, poi entrai in redazione. Ho tradotto anche il primo volume delle memorie di Churchill. Emanuel non voleva articoli di critica letteraria; i viaggi li ho fatti a mie spese. Non ho mai deciso nulla, cosa fare, dove andare. Nel 1929 diventai direttore — bibliotecario — del Gabinetto Vieusseux, a Firenze. Paolo Emilio Pavolini mi presentò al podestà, il conte Della Gherardesca. Nel 1939 si impose il Circolo di cultura fascista e mi licenziarono; ebbi diciottomila lire di buon’uscita. Una mia definizione? Sono poco adatto alla vita, sempre sulla difensiva, ho sempre cercato di non sporcarmi le mani. Mi giudicheranno gli altri».

«Quali sono, per te, i peccati più gravi e quelli che meritano più indulgenza?».

«Domanda un po’ strana: l’invidia è terribile cosa, e anche l’avarizia. Meritano comprensione quelli che, per tenersi a galla, si arrangiano, si adattano, usano anche armi sleali».

«Che cosa ti hanno portato gli anni, e che cosa ti è mancato?».

«Nulla di sostanziale, anche perché non avevo un programma. Se la vita è un labirinto, sono passato in mezzo a innumerevoli interstizi senza riportare gravi danni, non so se per abilità, forse per caso».

«Qual è il tipo di uomo che ami di più?».

«I buoni, per il loro modo di pensare e di vivere, ma non so poi dove siano, naturalmente».

«Qual è il tuo ricordo più drammatico? Forse la fucilazione di quel soldato che aveva rubato un orologio, e gridava al plotone di esecuzione:”Non uccidetemi. Sono figlio di un professore di geografia”?».

«Vidi un cervello saltare in aria. Non era uno del mio reparto. Avevo un attendente che non sapeva né leggere né scrivere, e mi portava in spalla per scendere dalle rupi. Il mio torace era così sottile che avrei potuto chiedere l’esonero, ma non ho mai fatto niente per imboscarmi. Quella guerra ha suscitato in me una grande ammirazione per l’Austria-Ungheria; ho trovato una civiltà migliore della nostra. Anche adesso, in certe regioni, sembra di non essere in Italia. Capisco però che quell’impero non poteva durare in eterno. Morti ne ho poi visti tanti, anche a Firenze, anche sulla strada, perché i tedeschi tiravano da Fiesole. Sono un po’ sorpreso dalla grande velocità del tempo, non so se a te succede, passa tanto in fretta, mentre quando ero giovane no».

«E’ stato Serra che ha detto: “Sono così lunghi i giorni dei vent’anni”. Ma questo ti rattrista?».

«Un po’, certo, io non mi accorgo di andare verso i settantasette, ma gli altri sì e me lo fanno capire, con accenni:”Voi anziani”. Il cuore pare che non invecchi, ma invecchia tutto il resto. Pensi che avremo presto un governo comunista?».

«No».

«Non lo credo neanch’io. Forse non lo vogliono neppure loro. Pensi che la lira vada a zero?».

«Proprio a zero, no. Giù, certo».

«Allora aumenteranno gli stipendi».

«A un intervistatore hai detto: “Un matrimonio ben riuscito, sintesi di ogni amore, è quello che lentamente si depura nella carne e si salda nell’amicizia”. Adesso la tua poesia è quasi tutta ispirata dalla memoria di tua moglie. Perché oggi è diventato tanto difficile vivere in due?».

«Per i giovani? La ragione ultima non la so. Dicono che sono caduti i tabù, onore, fedeltà, pudore, ma non so trovare una spiegazione. Il sesso è più importante del sentimento, il libero pensiero è più importante della fede. Oggi un uomo onesto è anche leggermente ridicolo. Dire di uno che è una brava persona è un’offesa spaventosa. L’uomo non ha resistito all’allargarsi degli orizzonti. Io ho paragonato l’umanità di oggi a un serpente che ha perduto la pelle, ma non ne ha rimessa una nuova». «Hai detto una volta: “Gli intellettuali italiani intervengono sempre al momento sbagliato”».

«Già. E poi chi sono? I giornalisti sì e no. Non hanno peso nella politica e neppure nella vita. Si lasciano vivere. Dimmi: ma che cosa succederà dei giovani di oggi? Sono diversi da quello che eravamo noi, che eravate voi?». «Hanno fatto delle esperienze».

«Ma perché è stata scoperta la gioventù? Mio padre non mi ha mai detto:”Sei giovane, hai diritto di godertela, sei libero, sii beato”. Questa è la vera invenzione del nostro secolo, in senso morale, si capisce».

«Sono una forza. Contano, votano, acquistano».

«Ricordo che sotto Giolitti c’era il collegio uninominale. Mio padre votava a Levanto, duecento persone, niente donne, niente analfabeti, niente poveri, bisognava pagare le tasse. Dell’attuale elettorato, nove decimi sarebbero tagliati fiori. Ma perché i giovani vogliono la laurea, il diploma? Non capisco perché. Dovrebbero ammirare quelli che non sanno niente».

«Che cosa resterà della poesia contemporanea?».

«Chi lo sa? Ogni generazione cercherà di distruggere i poeti di quella precedente. Cercherà. Per ora la civiltà delle immagini ha declassato le altre attività creative».

«Che cosa t’infastidisce di più?».

«L’ignoranza, non quella semplice; quella di chi crede di sapere, la boria, la saccenteria, tutto quello che rende antipatico un individuo e che, d’altra parte, ne favorisce anche l’affermazione».

«Qual è stato il momento più lieto della tua storia?».

«I due o tre anni che seguirono la prima guerra. Mi sentivo abbastanza giovane, ma non lo ero. Non ho mai praticato nessuno sport; una felicità fisica non l’ho mai conosciuta».

«Che cos’è per te il fascismo?».

«Non so perché si sia chiamato così, forse un riferimento alla romanità. E nato sul ritardo dei treni, sulla lentezza del governo. Tutti dicevano:”Non si può andare avanti così”, salta fiori quella specie di scalmanato e promette ordine, disciplina. Anche gli stranieri ammiravano il Duce e io stavo bene attento, quando venivano in biblioteca, a far chiacchiere. Che cos’è il fascismo? E la sopraffazione al posto della convinzione. Se resta in piedi l’Europa, si salverà anche l’Italia, ma non per impulso proprio: sarà tirata fiori».

«Come ricordi gli scrittori, i poeti che hai conosciuto? Svevo, Joyce, Eliot, o chi ancora?».

«Eliot l’ho visto nel suo ufficio d’impiegato di banca, a Londra, e poi due volte a Roma, era molto avaro della sua personalità, non si spendeva tanto, dopo un quarto d’ora la segretaria faceva un cenno, e il colloquio finiva. Era molto conservatore. Pound invece era tanto gentile, e un eccellente giocatore di tennis. Batté anche Giansiro Ferrata, ma lo diciamo? Forse gli dispiace. Svevo aveva una mentalità da industriale, apprezzò poco i miei articoli, tra me e lui c’era odore di trementina. Anche mio padre commerciava in resine, acquaragia, prodotti chimici. Lui, come romanziere, in famiglia non era molto apprezzato. Con Joyce ci siamo scritti, diceva di avermi mandato una fotografia con dedica alla «Fiera Letteraria», dopo la mia recensione ai Dubliners, ma non l’ho mai ricevuta».

biagi_enzo_giornalista_009_jpg_qivaScendo in via Bigli. È buio. Ogni tanto il silenzio rotto da qualche automobile, da qualche passo. Di Montale, mi viene in mente un verso: «Volarono anni corti come giorni». Ma alla fine, di questo poeta solitario, che conosce tutte le piante dei boschi, i pitosfori, gli eucalipti, le agavi, i sambuchi, e riconosce il canto di tutti gli uccelli,le ghiandaie,le upupe,i merli d’acqua, e quello che c’è nel cuore dell’uomo, la disperazione e la speranza, qualcosa, certo, rimarrà. Quando lo conosci, qualcosa in te nasce, e qualcosa muore.

Intervista tratta da L’ITALIA DEL  ‘900 di Enzo Biagi in collaborazione con Loris Mazzetti, RIZZOLI – 2007, pag. 206 – 209

 

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