Luigi Materi, di Giovanni Caserta

imagesDall’onorevole Francesco Paolo e da Teresa Giliberti nacque a Napoli, il 19 aprile 1877, lo scrittore Luigi Materi, morto nella stessa città, a quarantaquattro anni, il 19 gennaio 1922. Studiò e si laureò in giurisprudenza, ma non esercitò mai alcuna attività lavorativa, preferendo vivere di rendita. Il suo modo d ‘essere e di sentire la vita è tutto in un curioso libro – L’arte della bellezza ai nostri tempi – dedicato, quasi ad imitazione del Medicamen faciei di Ovidio, alla cosmesi femminile e in parte maschile, in cui, a supremo valore, è assunta la bellezza, che sola dà senso all’esistere. “La bellezza – si legge – è un capitale da conservare quanto più a lungo possibile, contro l’usura inesorabile del tempo”. Fu dunque un esteta ed un dandy, in una città in cui, per altro verso e in stridente contrasto, si ammucchiavano scene di miseria e squallore e confluivano affamate orde di emigranti. Come ogni esteta, anche Luigi Materi fu uomo di molte letture, spazianti da Verlaine a D’Annunzio, da Baudelaire a Kierkegaard, da De Musset a Daudet, da Tolstoi a Balzac. Buon conoscitore della lingua francese, oscillava tra realismo e naturalismo, tra psicologismo e decadentismo. Ma, come ogni esteta, sentì anche la provvisorietà e caducità della bellezza. In contrapposizione al languore della città e all’ipocrisia del bel mondo, perciò, sempre avvertì, come rifugio e antidoto, e come luogo d’oblio, la campagna istintiva e rude, autentica e selvaggia. Di questo contrasto, a volte schematico, in lui come in altri, non escluso il maestro D’Annunzio, erano testimonianza già le prime opere del Materi, a partire da Il matrimonio di Marcello, scritto quando l’autore aveva appena ventisette anni. Vi si legge di Marcello, giovane precocemente “invecchiato”, che, stanco e avvilito dalla città e da amori estenuanti, si rifugia in una lontana campagna di famiglia, ove pensa di guarire. Analoga tematica è in Caleidoscopio sanguigno, in cui tutto sembra richiamare Verga, Capuana e, ancor di più, Federico De Roberto, oltre che, naturalmente, Le novelle della Pescara di D’Annunzio. Vi scorrono scene di violenza e sangue, quasi sempre connesse al sesso. Anche in Adolescenti, romanzo del 1909, la campagna è scelta dal protagonista per guarire dalle pene d’amore. Ma tutto è inutile, perché lo sbocco è il suicidio. In Il Giornale d’una Signorina, invece, pubblicato in unico volume con Adolescenti nel 1911, la soluzione è nel matrimonio, sia pure senza amore, ma onestamente accettato, in omaggio alla opportuna convenienza di una “tranquilla” esistenza. Il meglio di Luigi Materi, tuttavia, è in L’ultima canzone-Il romanzo della Grancìa, romanzo uscito postumo. La campagna che vive nel cuore del Materi si riconosce finalmente nella Grancìa di San Demetrio, feudo della famiglia Materi, ove il giovane trascorse gran parte delle sue estati di fanciullo e adolescente. Terminato nella notte del 25 novembre 1919, quando l’autore aveva quarantadue anni, il romanzo racconta la storia di un amore, cominciato due anni prima a Napoli, tra una diciassettenne, friulana, profuga di guerra, e un grande amatore, Paolo Alderisi, quarantaquattrenne, nobile, robusto ed elegante nella persona, ma già consapevole dell’irrimediabile declino verso la senescenza. Per salvare il suo amore, che sa essere l’ultimo, l’inguaribile don Giovanni decide di relegarsi, mentre intorno infuria la guerra, nella foresta della Grancìa, in una pace apparente, che presto appare fittizia e falsa, inerzia e tedio. Non vi si rassegna la giovane amante, che un giorno decide di tornare alla vita; all’uomo, invece, non resta che osservarne la partenza dalla finestra del suo “castello”. Il libro non può non far pensare al Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, almeno nella contrapposizione fra città e campagna; ma ciò che in Levi era sociologia o politica, in Materi, chiuso entro la sfera di una filosofia esistenziale, tutto si risolve in chiave psicologica, con Freud più che con Jung, caro a Levi. Si vuol dire che Materi è lontano da ogni tensione politica e valutazione sociologica. La grande guerra, per esempio, non lo esalta, sicché egli non si arruola e non va a combattere come il suo D’Annunzio. La grande guerra, più realisticamente, rimane sempre e solo una “immane tragedia”, emblema della vita nel suo fatale concludersi come disfacimento. Si colgono, perciò, motivazioni e riferimenti letterari, che vanno ben oltre Napoli. Essi arrivano alla Roma di D’Annunzio (del Piacere in particolare), alla Trieste di Svevo e, ancor più in là, alla Parigi di Proust e alla Londra di Oscar Wilde. L’ultima canzone, peraltro, per essere il più sofferto e il più autentico tra i romanzi del Materi, è anche il meglio che, poeticamente, egli abbia prodotto, degno di una adeguata rivalutazione, che porti a collocarlo fra i prodotti più interessanti del primo Novecento italiano.

Giovanni Caserta

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