Poco più di cento pagine di un racconto così personale, così intimo e così chiuso nel proprio ambito familiare e di lavoro da dare, all’inizio, l’idea di una confessione, se non fosse che all’improvviso, qua e là, si sente la forza d’una voce sapiente che avvisa il lettore di volgere verso e stesso le esperienze di cui sta leggendo. E così si entra nella complicità di un’educazione sentimentale e di una scelta di vita che spesso si nutre della fortuna ma che, come ci ricorda Paolo Ferratini citando Machiavelli, bisogna favorire “cogliendo le ‘occasioni’ che essa non manca di offrire”. Questo è un momento in cui molti scrittori, illustri giornalisti, uomini politici e artisti (Claudio Magris, Eugenio Scalfari, Sergio Zavoli, per fare qualche nome), forse perché stiamo vivendo una stagione nera della vita sociale culturale del paese, scrivono le loro memorie. Non alla maniera ottocentesca sfornando tomi in cui le tracce anche minime del proprio operare appaiono come esaltanti conquiste o scoperte, ma in modo parziale, scegliendo un percorso che illumina magari anche il resto della vita rimasto in disparte. E’ il caso de Le voci dei libri (già, perché i libri hanno una voce, un cuore e grandi occhi per osservare) di Ezio Raimondi, uno di quei rari studiosi ai quali la mia generazione ha guardato con stupore e ammirazione. Raimondi va dritto alla sostanza dei libri e prima ancora di raccontare degli incontri importanti, sottolinea che sentiva “per istinto che il rapporto con il libro annullava le differenze di classe: non c’erano più i poveri e i signori, ma uomini liberi che esploravano il possibile e, attraverso il fantastico e la sua raffigurazione, cercavano un senso più profondo del reale; nei libri c’erano gli esseri umani, con le loro verità, le loro parole profonde, le parole che toccano, che lasciano nel lago del cuore una risonanza che si prolunga nel tempo e mostra e mobilita quel tanto che c’è della nostra fantasia”. La citazione, di sapore dantesco, è un po’ lunga, ma leggendo questo volume è grande la tentazione di citarlo intero, perché si tratta di un distillato di saggezza che dal proprio io si tramuta in un noi grande e riconoscibile da tutti. Narrativamente parlando credo che Le voci dei libri possa stare accanto a La giovinezza di Francesco De Sanctis, ovviamente con i distinguo che epoche così diverse dettano. L’incipit è addirittura folgorante per la semplicità con cui ogni cosa è presentata, senza enfasi, senza aloni di nessun genere. Il figlio del ciabattino e della donna di servizio (stessa infanzia di Tommaso Campanella) scopre quelli che io chiamai in un’intervista “oggetti misteriosi”, cioè i libri, e comprende, anche grazie alla madre che nella cultura intravede un mondo nuovo, una diversa civiltà del vivere e un riscatto sociale, che “gli incontri” possono diventare una ricchezza innanzi tutto umana. Da qui le affermazioni di Raimondi sulla preziosità degli amici, fino a quella scena all’aeroporto degli studenti americani che ha qualcosa di esilarante e di magico e fino all’apoteosi di Giuseppe Guglielmi che incarna davvero l’idea del libro come “creatura vivente”. Comunque la biblioteca di Ezio Raimondi non è una sala ordinata e asettica, come vorrebbe la moglie (e tutte le mogli degli scrittori), è un luogo in cui voci casuali e voci desiderate e cercate si scambiano il fiato e suggeriscono passeggiate, liti, incontri e scontri. Ma il volume ha tanti altri risvolti che, anche se in breve, focalizzano un’epoca e ne danno un ritratto privo di indicazioni improprie. Da qui anche la felicità di tanti ritratti di amici e di colleghi dell’Università di Bologna, ma soprattutto i ritratti di quelle occasioni con autori che gli hanno cambiato la vita in tutti i sensi. Per esempio Heidegger, Martin Buber, Febvre, Curtius, Longhi, Bachtin. E’ proprio vero, dunque, Ezio Raimondi è un “libridinoso”, uno di quegli esseri umani che sostanziandosi giorno dopo giorno di carta è riuscito a carpire al cielo una nota autentica di azzurro e a rubare un acconto all’eternità. Ma questo libro non ha soltanto intenti, come ho accennato, di carattere privato e quindi pone una domanda fondamentale: “libri, doni e amicizie” sono “ancora plausibili in una vita che al piccolo negozio del passato sostituisce le cattedrali del consumo e la mitologia mercantile del consumatore che ripete un’esperienza ordinata da altri”? La domanda resta aperta e il dono di Raimondi si amplifica di dubbi e di tentazioni riproponendo quella rimeditazione “sulla scrittura, sul valore e sui limiti della parola” proprio così come la propose Hermann Broch in Morte di Virgilio.
Dante Maffìa
Non ho letto “Le voci dei libri”. Ma la sola citazione, sapientemente riportata, secondo cui l’autore sentiva “per istinto che il rapporto con il libro annullava le differenze di classe” ha acceso la mia curiosità. Così come mi intriga quel richiamo, sia pur fuggevole, a Tommaso Campanella. Leggerò sicuramente il libro. Un grazie di cuore a Dante Maffia per averlo così brillantemente segnalato.