Con la lirica dal titolo “L’alba assonnata”, Dante Maffìa ha vinto la terza edizione del Premio “Alda Merini”.
I complimenti della redazione.
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Dante, prima di tutto un ringraziamento per averci concesso l’opportunità di poterti intervistare. Potresti raccontarci come nasce in te l’amore, la forte passione verso la letteratura ed, in particolare , la poesia?
Un grazie a te, Pierpaolo, e a tutti gli amici che lavorano con te. L’amore, le passioni non si sa mai perché nascono, come nascono. Qualcuno attribuisce il merito (o il demerito) al nome che mio padre ha voluto darmi sostenendo che in definitiva nomina sunt consequentia rerum, altri al mio carattere, altri ancora alle occasioni della vita. Io non lo so bene. So soltanto che fin da bambino il libro per me fu immediatamente un oggetto misterioso dentro cui si nascondevano mondi sconosciuti e meravigliosi. Ce n’erano pochissimi in giro nelle case dei miei compaesani. Nella mia c’erano soltanto (mio padre aveva un negozio di alimentari e un bar) Le mie prigioni, di Silvio Pellico, I Promessi Sposi, di Alessandro Manzoni, Il trionfo della morte di Gabriele D’Annunzio e La divina commedia di Dante Alighieri con il commento di Scartazzini. Forse anche I doveri degli uomini di Giuseppe Mazzini e qualche scritto di Giacomo Matteotti che poi costò caro a mio padre. Non erano libri che un bambino potesse amare o capire, ma, poiché ancora non c’erano televisori in paese, io andavo “di casa in casa / ad ascoltare / i racconti dei vecchi / al focolare / come un mendico / che ha bisogno / d’un pezzo di pane”. Dopo il tramonto mi prendeva la smania e stavo ore ed ore a seguire gli intrecci fantasiosi di Zia Antonia che inventava storie di cavalieri, di negromanti, di guerre e d’amore, pur essendo analfabeta. Ma il primo avviso del mio essere poeta è arrivato (l’ho raccontato altre volte) da un tema svolto in assenza del mio maestro di quarta o di quinta elementare. La supplente corresse le composizioni e mi punì convinta che avessi rubacchiato dei versi da qualche parte perché era impossibile che un ragazzino potesse e sapesse descrivere la primavera con quell’incanto con cui era stata descritta e con quel dettato ricco di rime baciate, ovviamente. Fui punito severamente e non mi vergogno di dire che quando pubblicai il mio primo libro, Il leone non mangia l’erba, con la prefazione di un mostro sacro della letteratura come di Aldo Palazzeschi, andai a trovare la supplente, che nel frattempo era tornata al suo paese d’origine, a Vico Equense, per andarle a dire che allora non avevo copiato. La beffa (dovevo aspettarmelo) fu che lei non ricordava niente dell’episodio.
Ci conosciamo da anni e la stima che nutro nei tuoi confronti come letterato e come uomo è a te nota. Posso vantarmi, e lo faccio con enorme soddisfazione, di avere una cosa, una piccola cosa in comune con te, una sorta di passaggio del testimone… aver curato, dopo di te, l’Ufficio Stampa del Cafè Noteghen a Roma in Via del Babbuino, importantissimo polo di cultura a livello nazionale che, purtroppo, anni fa ha chiuso i battenti. Potresti raccontarci un aneddoto legato a quella location tanto significativa?
La chiusura del Noteghen è un grande dispiacere. Gli spazi culturali sono sempre più ristretti e cancellarne uno storico –quali che siano le cause- è stato un vero e proprio delitto. Da quel luogo sono transitate intere generazioni di pittori, di attori, di registi, di poeti, di musicisti con uno scambio di idee e di progetti che spesso hanno fatto fiorire iniziative molto proficue. Gli ultimi incontri li organizzai con Spagnoletti, Bellezza, Vivaldi, Gregory Corso, Bassani, Bonaviri, Amelia Rosselli, Camilleri, Maraini, per fare soltanto qualche nome, e di aneddoti ne accadevano ogni sera e andavano dalle spudoratezze di alcune attricette in cerca di applausi e di consensi fino alle esaltazioni di molti poetastri che declamavano le loro sciocchezze con un’enfasi alla Carmelo Bene. Ecco, sì, forse la scena più eclatante ci fu quando, non ricordo per quale ragione, accusai Carmelo Bene di comportarsi a quel modo sul palcoscenico perché non sapeva recitare. Ci fu il putiferio. Poi finì in alcune bottiglie di Primitivo di Manduria.
Donatella Bisutti qualche anno fa scrisse un libro dal titolo “La poesia salva la vita”. Ricordo come entrai in contrasto con l’autrice in quanto sostenevo che, almeno per me, la poesia non possedesse questa sorta di missione salvatrice. Come, inoltre, la poesia non dovesse, per sua natura, salvare la vita di alcuno. Dante, qual è la tua idea in proposito?
Sono amico di Donatella Bisutti, scrittrice con doti eccezionali, e credo che quando pubblicò quel libro volesse semplicemente fare una provocazione. Pierpaolo, alcuni, come te, la presero alla lettera; altri ci passarono accanto; altri ancora sorrisero; altri le risposero con arroganza. Altri ancora la esaltarono. Si è ripetuto nei secoli che la poesia salva la vita, in realtà la poesia non salva niente. Ed è proprio in quel niente che diventando principio estetico e quindi etico, come dice Platone, che si condensa il divenire della civiltà. Ma si tratta di un argomento che ha sfaccettature infinite e che non avrà mai nulla di definitivo. Se la poesia serve a qualcosa è difficile dirlo e dimostrarlo. Mazzini sosteneva, ma prima di lui Leonardo da Vinci, che l’uomo senza poesia (intesa in tutti i sensi) sarebbe un imbuto, appena un imbuto.
Il momento ispirato e la tecnica di scrittura rappresentano da sempre un binomio in discussione: alcuni li collocano dalla stessa parte, altri su stratificazioni diverse. Per te, Dante, cosa rappresentano e dove vanno collocati?
Sono sempre stato convinto (leggendo le biografie dei poeti, dei musicisti e dei pittori) che gli artisti veri nascono con il dono della parola, delle note o del colore. Poi però c’è bisogno di affinare il dono, approfondirlo, dilatarlo, arricchirlo, renderlo unico. Forse per comprenderci appieno basta un esempio calcistico. Se non si fossero allenati ogni giorno, nonostante il loro dono, giocatori come Di Stefano, Pelè o Maradona, non avrebbero dato grandi risultati. Soltanto con la tecnica, quantunque raffinata, non si scrive la Commedia, non si dipinge La cappella Sistina, non si compone la Nona.
L’emozione che si prova nell’ essere insignito della Medaglia d’Oro per meriti culturali ricevuta dal Presidente della Repubblica Carlo Azelio Ciampi…
A costo di sembrare presuntuoso dico che se si lavora bene, con passione, con intelligenza e con assoluta dedizione si entra in quella professionalità che prima o poi viene da qualcuno riconosciuta. Può capitare anche di restare in penombra, fa parte dei giochi della vita. Perciò quando mi è arrivata la notizia del riconoscimento del Presidente Ciampi l’ho accolta come un appuntamento aspettato. Uno dei tanti. Io vivo la letteratura come una religione assoluta, una fede.
Dove si sta dirigendo la cultura e cosa possiamo sperare per il futuro?
Siamo in un momento in cui pare che i valori di sempre stiano perdendo il loro smalto e la loro necessità sostituiti da alternative (diventeranno i nuovi valori?) epocali. Ho a volte l’impressione che la sostanza del mondo e quindi dell’essere, stia mutando pelle radicalmente. Difficile dire se sarà tutto bene o tutto male o che cosa sarà. Io sono uno di quel maledetti cultori del passato che sanno vedere il futuro con il cuore antico, come diceva Carlo Levi. Comunque è sempre bene che la civiltà sia costantemente in cammino, non importa verso dove va. E’ il cammino in sé che è bene supremo.
Dante, più che una domanda, un’interpretazione. Il “sogno” nella poesia e nella vita…
Senza sogno si resta legati al grigiore di una quotidianità che non porta da nessuna parte. La vita stessa è sogno, diceva Calderon. Nella poesia se non c’è il lievito del sogno le parole restano al livello della comunicazione e porgono soltanto la dimensione della notizia. Personalmente credo che un uomo non possa vivere sempre al di qua della siepe. Si suiciderebbe. Peccato però che molti delegano gli altri a sognare per loro.
La crisi economica che stiamo vivendo ci spinge, sempre più, verso l’orlo di un baratro. Tornare indietro è doveroso ma operazione difficile e complessa che sta prevedendo e prevederà forti sacrifici. La sensazione chiara, però, è che a pagare siano sempre gli stessi. Come vivi questo momento storico, direi buio, sotto certi aspetti?
Lo vivo male, Pierpaolo. Non riesco a isolarmi, a restare in disparte. Nessun poeta lo è stato mai, anche se si è parlato e sparlato di torre eburnea, di solitudine. Il poeta, ricalco Nelo Risi, è il supremo realista, anche se non entra direttamente nella mischia, nell’agone. Il suo scrivere darà frutti a lungo andare. Noi saremmo gli stessi di ora senza l’apporto dato dai poeti? O saremmo ancora barbari? Certo, resta da stabilire se i barbari avrebbero più rispetto della vita di quanto non ne abbiano gli uomini “civili”.
Le nuove generazioni. Eredità pesante lasciamo a questi ragazzi che si trovano giornalmente ad affrontare problemi che sembrano insuperabili, uno su tutti la disoccupazione. Che rapporto hai con i giovani d’oggi? Non credi che stiano pagando colpe non loro?
Sempre si pagano colpe non commesse. E’ la storia nella sua impudicizia e nella sua iattanza. Io sono cautamente ottimista e credo che le eredità non siano né pesanti né leggere. Si tratta semmai di vedere se lasceremo una eredità, perché stiamo cancellando la memoria e questo sì può essere una tragedia irreparabile. Perché una cosa è ignorare e un’altra non sapere, non conoscere. Comunque quando gli uomini sulla terra saranno cinquanta miliardi (non è lontano il momento) un errore!!!, così io lo chiamo, riassesterà le sfere di ogni cosa e si ritornerà a navigare. Corsi e ricorsi. O, come la pensano altri, crescita esponenziale. Ma fin dove?
Ultimissima: ci piacerebbe conoscere i tuoi programmi futuri. Cosa bolle in pentola?…
Fin da ragazzino ho sempre dormito poco (massimo tre ore a notte) e quindi ho vissuto quasi il doppio di altri avendo la possibilità di leggere troppo! E di scrivere troppo. Sono quindi in continua tensione, nel lavoro senza sosta. Bollono in pentola tanti altri racconti (scrivere racconti mi dà un piacere immenso), saggi, e un Poema di circa trentamila versi in cui ho affrontato tematiche di ogni genere con la sperimentazione di ogni tipo di metro. Il perno del Poema è la dissolvenza. Tutto e tutti siamo avviati alla dissolvenza, dietro la quale qualcuno ci legge Dio e il paradiso, altri il vuoto e l’assenza. Io ci leggo la continuità del fare che incessantemente si disfa, in altri termini, il divenire.
Una splendida intervista con una chiusa perfetta: “il divenire”. Complimenti vivissimi.
ne condivido appieno un passaggio, quello che tocca il dinamismo nel cammino della civiltà, certo importa anche dove si vada, ma più importante è muoversi, non fermarsi, altrimenti si muore