Marco Onofrio, “La dominante” (Sovera Ed., Roma – 2003), letto da Dante Maffia

la dominanteGli scrittori veri, quelli che dedicano a tempo pieno la loro vita ai libri, non fanno troppa distinzione tra poesia, narrativa, saggistica, teatro se non dopo avere affrontato un tema, dopo avere risolto situazioni strutturali, linguistiche o espressive. La sferzata di luce arriva e spinge a mettere mano a un’opera e l’opera, da sé, si configura. Ciò non significa affatto che si tratta di improvvisazione, perché i fermenti covano lenti e infine esplodono, nel caso specifico, con una compattezza davvero encomiabile.
Premessa necessaria per comprendere il processo che sta alle spalle de La dominante, tre atti e un prologo con due scene che mettono in fibrillazione sia il lettore e sia lo spettatore soprattutto per la carica di verità che si fa imperiosamente messaggio diretto, vita che pulsa.
Appena quattro personaggi, Milla; Bruno, marito di Milla; Madre, madre di Bruno; Psichiatra; ma così densi e intensi, così pregni di problematiche che sembrano un esercito in marcia, che riempiono la scena quasi ingombrandola per la massiccia presenza della loro psiche che si espande come una marea montante fino a dare una sensazione di soffocamento.
Marco Onofrio ha un senso così acceso e così “pratico” del teatro da dare l’impressione che da sempre abbia calcato i palcoscenici con determinazione. Ha ragione Aldo Onorati nella sua illuminante Prefazione, “Inutile che si stia a decifrare la trama”, conta ciò che i personaggi dicono, ciò che si rovesciano addosso con parole infuocate che sembrano spade taglienti, con gesti e ossessioni che scardinano qualsiasi acquisizione umana e sociale radicata.
Alle spalle ci sono solide letture sia dei classici antichi e sia del teatro cinquecentesco e novecentesco, soprattutto Pirandello, Jonesco, Beckett, Dario Fo, ma Onofrio travalica disinvoltamente i modelli e riesce, per forza d’ispirazione, a scrivere un’opera (d’accordo con Onorati, comica e drammatica insieme) nella quale transitano le problematiche più cocenti e scottanti del nostro tempo: il matrimonio, il rapporto madre- figli, la psichiatria, il tradimento, l’amore nelle sue espressioni più frastagliate, la sessualità, la follia… E’ come se il poeta, non dico a caso il poeta, avesse voluto sintetizzare eventi e rivoluzioni di un tempo guasto che arranca nella melma senza riuscire a risolvere mai nulla per mancanza di fede nella vita.
I personaggi sono delineati con una meravigliosa e cruda verità, tanto da diventare palpito di idee sulla scena, da porsi come emblema di una condizione che, proprio perché assurda e giocata su sequenze esageratamente barocche e scollacciate, rendono a meraviglia il segreto dei rapporti quasi incestuosi tra madre e figlio, tra realtà e irrealtà, tra convivenza e abitudine. Anche quando il dialogo cede il passo a un lungo monologo, si sente la fibrillazione ritmica del dettato che non perde forza e non s’adagia, anzi illumina il resto della storia e ne rende le complicazioni e gli svelamenti con sincronia innestata a pennello.
Che dire del linguaggio? Teatrale con pienezza, reso con accensioni che trascinano, che fanno addirittura sobbalzare in certi momenti per la pastosità linguistica.
Insomma, Onofrio è un autore che riapre le porte dei teatri e convince sia per la struttura dell’opera, sia per le indagini psicologiche adeguate e fermamente colte nella loro profondità e nella loro ampiezza e sia per il clima che riesce a creare strappando risate mentre accadono tragedie, facendo meditare mentre si svolgono liti e ragionamenti violenti, trascinandoci all’interno di un dramma che prende sfumature di vario genere al momento in cui le tinte si squamano in grida di dolore.
Un’opera davvero esemplare, viva, appassionante; un’analisi scomoda sociale e psicologica che Milla a un certo punto stigmatizza in una battuta: “E ho visto tutte le vite che sono e che potevo essere, e non c’era niente di giusto e di sbagliato… E ho capito di essere ogni cosa”.

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