Adele Desideri Stelle a Merzò Moretti & Vitali, Bergamo, 2013
Scrive l’autrice ad incipit del volume: «Questo lavoro è la trascrizione in prosa poetica di una storia d’amore che mi è stata raccontata… dalla viva voce della protagonista». Forse un nuovo sguardo è già in sé una nuova idea, è il presupposto di una nuova idea. Forse le mutazioni del gusto sono da annoverare in tutto e per tutto come nuove idee. Anche dal modo con cui utilizziamo gli oggetti nella nostra vita quotidiana, possiamo gettare un fascio di luce che illumina il nostro modo di impiegare le parole; giacché le parole sono «cose» in senso fisico, chimico, spaziale. Gli oggetti, gli utensili si trovano nel mondo per servire l’uomo. Noi possiamo vivere in un appartamento ammobiliato o in uno ricco di suppellettili. Qual è la differenza? C’è una differenza? Dal modo con il quale Adele Desideri utilizza le parole possiamo risalire alla sua concezione del mondo e alla sua concezione dell’arte poetica. In quegli interminabili diminuendo che si assottigliano negli ingranaggi e nei gangli del linguaggio logico-narrativo c’è tutto un modo di intendere la storia della recente poesia (e non solo) entro il solco di quella infiorescenza della narratività che può essere, al contempo, la via più facile ma anche la via più difficile. Il dettato della Adele Desideri ha una narratività piana e ondulata, avvolge la storia raccontata con l’andamento cronologico del diario, in cima delle singole poesie ci sono i giorni del viaggio di un amore (dal 28 luglio al 31 ottobre); a scandire una serena malinconia lo snodarsi di una storia della quale nulla ci viene detto, la poiesis si occupa d’altro, dei riverberi e degli echi che la storia lascia nel cuore come i segnali sonori scavati in un disco di polivinile. Se tutte le scritture della civiltà del villaggio mediatico si avviano a sfociare nella multinarratività del Dopo il Moderno, quelle poetiche invece sembrano sostare alla fermata del tram… quel tram che si chiama desiderio ma che forse non passerà più per via della caduta tendenziale della forma lirica (del genere lirico) in corrispondenza con la caduta tendenziale del saggio di profitto al quale la lirica è debitrice del suo tramonto definitivo. Sono decifrabili le esperienze significative della nostra epoca?, si chiede la Adele Desideri; Sono traducibili in linguaggio poetico?. La risposta sembrerebbe essere no: il genere poetico si deve occupare del viaggio simbolico inscritto in qualche luogo profondo della memoria inconsapevole. E allora ecco che sorge la vera questione: quale linguaggio poetico eleggere a carta moschicida delle esperienze significative. Ciò che si presenta come una invariante stilistica il più delle volte si rivela essere una zona di neutralità linguistica, ma le parole, sembra dirci la Adele Desideri, non sono mai neutrali. Allora che cosa c’è di vero dentro il problema della mutazione stilistica? Deve un poeta perseguire la mutazione stilistica, oppure deve inseguire la invariante stilistica? C’è una opzione stilistica? Bisogna andare verso il basso o verso l’alto?A sinistra o a destra? La Adele Desideri opta diligentemente nella direzione della narratività con una metricità diffusa e liberata. Ma è proprio qui che si cela una difficoltà della «pianura» stilistica: che in questa «pianura» o «radura» tutte le opzioni stilistiche sembrano diventare bigie e grigie, le differenze stilistiche si assottigliano nell’indistinto stilistico e la parola poetica che voleva difendersi dalla narratività rischia invece di annegare in quella medesima narratività. Sollevo un interrogativo: è possibile, seguendo la via della medietà stilistica, proseguire verso una direzione che sorpassi in curva quella medesima medietà stilistica? È questa, credo, la scommessa di questo libro di Adele Desideri. Ed è questo lo scoglio più grande, credo, che sbarra la strada alla poesia italiana in generale. Dalla tenacia con la quale l’autrice porterà avanti il suo progetto, si potrà misurare un giorno quanta distanza il suo passo ha percorso.
19 agosto, Merzò
Le stelle di Merzò
brillano di luce impura
– anche il ragno, nel vano
della finestrella, tesse la sua tela
di finzioni e verità.
Il basilico cresce rigoglioso,
ma sul tappeto liso di mia madre
quei passi estranei dell’anziana visitatrice
non potranno lasciare né orme, né tracce.
La mia voce nei notturni voli
dei tuoi sogni è appena un sibilo.
Ora che tutto qui è così ordinato e lindo,
ora che ogni oggetto risiede
nel suo preciso posto, questo calice
di vino separa le nostre mani.
Le stelle di Merzò – hai ragione tu –
sono incollate al cielo.
Ma il cielo – vedi, te lo mostro –
non ci riflette più.
Ancora ci respireremo,
ancora ti indicherò
la strada che attraversa i boschi
e conduce al colle della segreta cripta.
Ancora ci chiederemo: “se, quando, perché”.
Ma le stelle – a Merzò –
non le vedremo più.
La luna girerà le spalle,
e nella notte matrigna
ci perderemo.
All’alba, due piccoli cinghiali,
una volpe, il cerbiatto, il cucciolo
di lepre saranno nostri amici,
mentre le tue lacrime scorreranno
lungo fiumi diversi, lontani dai miei.
Guarda, se ne vanno, le stelle di Merzò.
Ora se ne vanno, risucchiate
in un gorgo di oblio.
Dopo, un vento furioso
travolgerà la cascina,
il tuo furgone,
il mio tavolo sbilenco.
A Merzò resteranno solo ombre,
desolate tracce di fugata quiete.
Non morire in battaglia,
non lasciarti ferire.
Quando tornerai dalla guerra
– che sia vinta, o persa –
passa da Merzò.
Sul gradino a fronte del poggiolo
mi troverai seduta,
con una stella stretta al petto.
La lancerò nel cielo, ti osserverò,
e penserò: “Sempre lo stesso,
nemmeno è invecchiato.
Lui è così, soldato ragazzo,
uomo di mille parole
– mio ostinato figlio,
mio torturato amore”.
24 agosto, Carro
Ondeggia, smuovi le acque.
Aggredisci, dilaga, percuoti gli Dei,
la terra – le femmine stolte.
Travolgi ogni certezza! Stai sulla destra,
taglia la curva – inclinati –
scomponi e disponi
le rotte sulle lenzuola.
Domani, tornerai al lavoro
nei polsi segnata col sangue.
C’è un uomo che corre lungo la strada,
pretende un fiasco di vino,
e in tasca conserva la mirra.
Sarà strage di ogni innocente
– il primo che passa, uno qualunque.
Poi sarà croce, e sacerdozio d’amore,
per le anime afflitte umiliato lucore.
2 settembre, Milano
Sono fidati gli amici tuoi,
come certi cani, come il tuo mondo,
che vive di strada e mal-affari.
Se c’è una via di fuga,
è sul ponte – che ha il nome
di una santa – lungo la statale.
Il nome della figlia è, invece,
l’ultima parola del sermone
di una madre distratta.
Io mi fermo vicino alle mura
della città di Ambrogio,
seguo i passi dell’ambulante,
del barbone, della donna
che vende le sue carni.
Il reo lo metto in gattabuia,
all’anziano despota consegno i sigilli.
Spazio cinema, Sudan caffè,
serata a costo zero, che non vale,
però, quanto le stelle di Merzò,
quando, all’imbrunire, girano su se stesse
e consegnano alla luna
l’universo di nuovo spezzato
della mia mente – questa follia,
questa corrosiva, insensata mania.
31 ottobre, Merzò
C’è troppo buio, aspettate!
Non può essere doppio il futuro!
La casa che esplodeva d’amore
ora muore – chiusi i battenti –
con una festa imbevuta d’angoscia
– undici slip nella lavatrice.
A voi, gemelli col desiderio invertito,
amanti nell’inerme nostalgia,
io destino l’ultima profezia:
la perduta fiducia – dopo Merzò –
segnerà la strada che porta alla follia.