
Lasciamo tracce effimere che possono finire sotto lo sguardo di chiunque, lasciamo parole appese alle antenne paraboliche; i codici culturali cambiano più velocemente di quanto pensassimo un decennio fa, le mode sono periture, i modelli comportamentali anche, idem i modelli narrativi e poetici, in modo analogo si comportano i modelli figurativi e i modelli sociali. L‘esistenza degli uomini non è affatto sicura, scriveva Adorno tanto tempo fa; la storia, da quando proviamo a fissarla in schermi e premere i tasti, assomiglia sempre più ad un gioco sulla superficie di un monitor, ad un flipper. Ma, chiediamoci, quali sono le regole di questo gioco?, e, soprattutto, dove stanno scritte?, chi le ha scritte?, infine, nel caso che qui ci interessa, quali sono le regole del gioco poetico? La poesia di Michele Arcangelo Firinu vuole comunicare esclusivamente entro il piccolo recinto del demanio privato. La poesia di Firinu che un tempo era impegnata a tracciare dei solchi, a indicare delle certezze si è dissolta, è diventata materia verbale friabile: Io sono un glomerulo di luce, un nonnulla che dà il nome alle cose. Oggi il sapere necessario per comunicare nella sfera pubblica e privata in modo conveniente, senza creare equivoci, senza creare sconcerto o imbarazzo, senza scatenare inimicizie astiose è diventato tacito, occulto, mutevole, appannaggio di una minoranza informatissima ma segreta. Immaginiamo che cosa succederebbe se questo sapere tacito e occulto provassimo a metterlo per iscritto, nero su bianco?, come in quei trattati rinascimentali rivolti all’educazione di principi e cortigiani, o anche un po’ come nei manuali di bon ton. E allora, in questo contesto storico qual è il ruolo del critico che deve parlare di un libro di poesia?, qual è il ruolo del poeta che scrive un libro di poesia? Il sentiero dei nidi di ragno è una linea goniometrica contorta, aggrovigliata e infinita, non c’è una fine di questo sentiero, non c’è un limite del mondo, il mondo stesso è il suo limite. Negli ultimi decenni di presentismo e di narcisismo si è diffusa in Italia una nuvola di Oblomov, di pigrizia, di depressione, di ipocrisie sociali, di coimplicazioni, si sono moltiplicati i supponenti ingenui, i supponenti cinici, i cinici, gli scettici ad oltranza, i calcolatori… ma la poesia?, la poesia afferma Michele Arcangelo Firinu ha “Il piede sulla luna”, non fa parte di questo mondo ma è il limite del mondo. Riassumere questo libro non è facile, e non è neanche compito del critico farne il sunto, si tratta di capire quello che ci aspettiamo dalla comunicazione, e dalla comunicazione poetica in particolare. In effetti, quando diciamo o scriviamo qualcosa produciamo degli effetti pur se minuscoli sul mondo, anche se spesso lo trascuriamo, ce lo ricorda però la linguistica. L’ultima sezione del libro di Firinu è titolata “Slanci nel vicolo buio e cieco”; la poesia che apre la sezione è titolata “L’isola che non c’è”, ovvero l’isola dell’Utopia di Itlodeus. Firinu scopre con stupore che ha abitato l’isola della storia, quella fatta di orrori e di menzogne ideologiche, e ne trae le conseguenze, il suo dettato è fluido, composto, malinconico: Ecco mi dico saranno duecento grani mille duemila ancora barbari gli anni della transizione e poi felicemente l’uomo si riverbera nel sole. Se così è, allora si tratta di concentrarci su quello che vogliamo ottenere dal pubblico della poesia: essere rispettati?, approvazione?, disapprovazione? indifferenza?, coimplicazione?, correità? Firinu risponde: Vorrei fare una gigantografia di gruppo di tutti i me che siamo tanti, altro che i due-tre nasi di Picasso, non so se basterebbe per schierarci in grande posa per la foto tutta la gradinata di Aracoeli. Mi vedo in lunghe file dei me di ogni età, di tutti i me press-agent, portavoce di tutti i me lasciati in casa in pantofola, i doppi, i me più intimi e privati che non amano il pubblico, e i me che se ne stanno rintanati in caverne per lo più sconosciuti anche a me, anche se li vedo talvolta mascherati nei sogni. Eccoci dunque una marea impettiti scoprire i denti cheese col sorrisetto ebete… Questo libro ci parla della «tribù» degli umani dal punto di vista di un singolo appartenente alla tribù. Un’altra sezione del libro si titola “In casa”, la poesia di apertura della sezione si titola auto ironicamente: “Mamma son tanto felice”. È tutto il piccolo mondo antico della «mamma» che viene messo a fuoco dalla lente di ingrandimento del figlio con un tocco lieve e quasi magico che finisce con un inno sommesso e prosaico: Sono felice mamma ora perché ho questo pacato ineluttabile bisogno di te.
Giorgio Linguaglossa



