Ci lasciamo alle spalle via Circo, siamo in tre e camminiamo nelle tre del pomeriggio. Febbraio è un mese senza sospetto, l’aria vibra già di luce e inventa un poco il calore sotto la scorza degli alberi, prima che tutto nei giorni a venire succeda.
Percorriamo via Cappuccio, arriviamo in via Bernardino Luini. Geltrude si pietrifica guardando il palazzo dall’altro lato della strada stretta, sente che la sta chiamando, le racconta un ricordo. Un balcone sporge al primo piano del palazzo che fa angolo e che tradisce una nobiltà antica, nascosta e un poco usurata, c’è un’incisione latina in basso sulla soglia che non riusciamo a leggere per il fondo scuro. Il prospetto è sormontato da una nicchia in bronzo, raffigura un vescovo o forse un santo. Al di là di un cancello in ferro, è ben visibile il giardino.
La ragione è nel nome, Geltrude ricorda bene. Si racconta che lì abbia visto i suoi lunghi anni di prigionia la sua omonima manzoniana, salvo barattare una “l” per “r”. La sventurata rispose, mi suona in testa.
È impossibile fermarla, entriamo con lei nella portineria e il custode ci conferma la storia. “Qui intorno era tutto chiese e conventi, qui è anche la via Santa Valeria. Si dice che la cella della monaca fosse dove ora un tizio ci ha una cantina, rob de matt, io sarei già lì a vendere i biglietti”, dice. Ha un piccolo tatuaggio su ciascuna falange della mano, nella vita di prima era tassista, però cita il Luini della via e dice che non possiamo perdere la chiesa affrescata proprio da lui, tutta una meraviglia, più avanti.
E dunque andiamo. San Maurizio al Monastero Maggiore ci accoglie come una grande Bibbia disegnata su ogni parete, in tinte ora più chiare ora più scure. La chiamano senza umiltà la Sistina di Milano. E davvero c’è la mano di Luini e bottega, è evidente il cinquecento lombardo nelle ombre e nei toni cupi, siamo del resto a breve cammino da Conciliazione e dalla più toccante ultima cena mai dipinta perché piena di genio e di vero.
Con le sue ampie palpebre truccate e un’aria da mamma, la volontaria del Touring ci chiede se siamo di Milano. “Più o meno”, rispondiamo. Non avrà capito molto dalla risposta, ma noi per “più” intendevamo: più sforzi, più soddisfazioni, più fatica, più amici, più visioni. Per “meno” invece le ore in paese, anche quelle di noia, meno però anche le contrazioni del ventricolo che muove più forte. Poi ci racconta che quello era un complesso benedettino, la parte all’ingresso era destinata ai fedeli e quella retrostante alle religiose, segregate dal mondo esterno solo intuito da una grata sulla parete nel mezzo. Siamo affatati, io sono qui da quindici anni e a vedere l’edificio austero da fuori non sospettavo questo incanto all’interno.
La parte dell’edificio al di là del muro divisorio è anche più bella: il Coro delle Monache, in un canto una volta blu stellata con un Padre barbuto e canuto benedicente, sul fondo una timida ultima cena, ancora affreschi ovunque, sotto la volta a costoni.
Usciamo dalla parte del chiostro. Poco dopo, dall’interno di un caffè in corso Magenta, vediamo passare un nugolo di frati, con sai marroni e bianchi (non è poi così lontana via Cappuccio), sono usciti dal tempo e verso il tempo continuano il cammino.
Ci salutiamo, io proseguo dalle parti mie. Il sole fende l’estremità superiore di un palazzo coperto di chi sa quale rampicante rinsecchito, che guarda di fronte un cipresso solo, tra via Sebeto e via Rovani.
L’insegna di via XX Settembre, come quella di via Monti, non è infissa a grande altezza e combatte con le foglie intorno che cercano di coprire via via le lettere e il marmo, di divorarne la memoria.
Il passo mi porta alle dimore meravigliose di via Tamburini e via Mario Pagano, giurista napoletano dice la storia, ma era nato a Brienza e perciò è lucano pure lui. Tutto torna al principio dunque, il cerchio si chiude.
Io questa Milano per esempio la amo.
