“Tu ridi” fa parte delle cosidette Novelle coniugali, pubblicata nel 1912 sul Corriere della Sera. Nel 1924 entrò a far parte del volume Tutt’e tre delle Novelle per un anno. I protagonisti sono il signor Anselmo e sua moglie, famiglia di umili origini, scossi dalla morte dell’unico figlio. La moglie, gelosissima, rimprovera il marito per le lunghe risate notturne. Il protagonista non ricorda i sogni, è completamente ignaro di quello che fa durante l’attività onirica. Stanco dei rimproveri, decide di andare dal medico. Questi lo tranquillizza: sogna cose liete e ride. Ma alla fine della novella l’uomo ricorda un sogno che tanta ilarità gli aveva destato: un suo vecchio amico, impiegato, punto dal bastone del capoufficio. E’ tutta qui la felicità che godeva nei sogni?…
TU RIDI
Scosso dalla moglie, con una strappata rabbiosa al braccio, springò dal sonno anche quella notte, il povero signor Anselmo.
– Tu ridi!
Stordito, e col naso ancora ingombro di sonno, e un po’ fischiante per l’ansito del soprassalto, inghiottì; si grattò il petto irsuto; poi disse aggrondato:
– Anche… perdio… anche questa notte?
– Ogni notte! ogni notte! – muggì la moglie, livida di dispetto.
Il signor Anselmo si sollevò su un gomito, e seguitando con l’altra mano a grattarsi il petto, domandò con stizza:
– Ma proprio sicura ne sei? Farò qualche versaccio con le labbra, per smania di stomaco; e ti pare che rida.
– No, ridi, ridi, ridi, – riaffermò quella tre volte. – Vuoi sentir come? così.
E imitò la risata larga, gorgogliante, che il marito faceva nel sonno ogni notte. Stupito, mortificato e quasi incredulo, il signor Anselmo tornò a domandare:
– Così?
– Così! Così!
E la moglie, dopo lo sforzo di quella risata, riabbandonò, esausta, il capo sui guanciali e le braccia su le coperte, gemendo:
– Ah Dio, la mia testa…
Nella camera finiva di spegnersi, singhiozzando, un lumino da notte davanti a un’immagine della Madonna di Loreto, sul cassettone. A ogni singhiozzo del lumino, pareva sobbalzassero tutti i mobili.
Irritazione e mortificazione, ira e cruccio sobbalzavano allo stesso modo nell’animo stramazzato del signor Anselmo, per quelle sue incredibili risate d’ogni notte, nel sonno, le quali facevano sospettare alla moglie che egli, dormendo, guazzasse chi sa in quali beatitudini, mentr’ella, ecco, gli giaceva accanto, insonne, arrabbiata dal perpetuo mal di capo e con l’asma nervosa, la palpitazione di cuore, e insomma tutti i malanni possibili e immaginabili in una donna sentimentale presso alla cinquantina.
– Vuoi che accenda la candela?
– Accendi, sì, accendi! E dammi subito le gocce: venti, in un dito d’acqua.
Il signor Anselmo accese la candela e scese quanto più presto poté dal letto. Così in camicia e scalzo, passando davanti all’armadio per prendere dal cassettone la boccetta dell’acqua antisterica e il contagocce, si vide nello specchio, e istintivamente levò la mano a rassettarsi sul capo la lunga ciocca di capelli, con cui s’illudeva di nascondere in qualche modo la calvizie. La moglie dal letto se n’accorse.
– S’aggiusta i capelli! – sghignò. – Ha il coraggio d’aggiustarsi i capelli, anche di notte tempo, in camicia, mentr’io sto morendo!
Il signor Anselmo si voltò, come se una vipera lo avesse morso a tradimento; appuntò l’indice d’una mano contro la moglie e le gridò:
– Tu stai morendo?
– Vorrei, – si lamentò quella allora, – che il Signore ti facesse provare, non dico molto, un poco di quello che sto soffrendo in questo momento!
– Eh, cara mia, no, – brontolò il signor Anselmo. – Se davvero ti sentissi male, non baderesti a rinfacciarmi un gesto involontario. Ho alzato appena la mano, ho alzato… Mannaggia! Quante ne avrò fatte cadere?
E buttò per terra con uno scatto d’ira l’acqua del bicchiere, in cui, invece di venti, chi sa quante gocce di quella mistura antisterica erano cadute. E gli toccò andare in cucina, così scalzo e in camicia, a prendere altra acqua.
«Io rido…! Signori miei, io rido…» diceva tra sé, attraversando in punta di piedi, con la candela in mano, il lungo corridojo.
Un vocino d’ombra venne fuori da un uscio aperto su quel corridojo.
– Nonnino…
Era la voce d’una delle cinque nipotine, la voce di Susanna, la maggiore e la più cara al signor Anselmo, che la chiamava Susì.
Aveva accolto in casa da due anni quelle cinque nipotine, insieme con la nuora, alla morte dell’unico figliuolo. La nuora, trista donnaccia, che a diciotto anni gli aveva accalappiato quel suo povero figliuolo, per fortuna se n’era scappata di casa da alcuni mesi con un certo signore, amico intimo del defunto marito; e così le cinque orfanelle (di cui la maggiore, Susì, aveva appena otto anni) erano rimaste sulle braccia del signor Anselmo, proprio sulle braccia di lui, poiché su quelle della nonna, afflitta da tutti quei malanni, è chiaro che non potevano restare. La nonna non aveva forza neanche di badare a se stessa.
Ma badava, sì, se il signor Anselmo involontariamente alzava una mano a raffilarsi sul cranio i venticinque capelli che gli erano rimasti. Perché, oltre tutti quei malanni, aveva il coraggio, la nonna, d’essere ancora ferocemente gelosa di lui, come se nella tenera età di cinquantasei anni, con la barba bianca, il cranio pelato, in mezzo a tutte le delizie che la sorte amica gli aveva prodigate; e quelle cinque nipotine sulle braccia, alle quali col magro stipendio non sapeva come provvedere; col cuore che gli sanguinava ancora per la morte di quel suo disgraziato figliuolo; egli potesse difatti attendere a fare all’amore con le belle donnine!
Non rideva forse per questo? Ma sì! Ma sì! Chi sa quante donne se lo sbaciucchiavano in sogno, ogni notte!
La furia con cui la moglie lo scrollava, la rabbia livida con cui gli gridava: «Tu ridi» non avevano certo altra ragione, che la gelosia.
La quale… niente, via, che cos’era? una piccola, ridicola scheggina di pietra infernale, data da quella sua sorte amica in mano alla moglie, perché si spassasse a inciprignirgli le piaghe, tutte quelle piaghe, di cui graziosamente aveva voluto cospargergli l’esistenza.
Il signor Anselmo posò a terra presso l’uscio la candela, per non svegliare col lume le altre nipotine, ed entrò nella cameretta, al richiamo di Susì.
Per maggior consolazione del nonno, che le voleva tanto bene, Susì cresceva male; una spalluccia più alta dell’altra e di traverso, e di giorno in giorno il collo le diventava sempre più come uno stelo troppo gracile per sorregger la testina troppo grossa. Ah, quella testina di Susì…
Il signor Anselmo si chinò sul letto, per farsi cingere il collo dal magro braccino della nipote ; le disse:
– Sai, Susì? Ho riso!
Susì lo guardò in faccia con penosa meraviglia.
– Anche stanotte?
– Sì, anche stanotte. Una risatoooòna… Basta, lasciami andare, cara, a prender l’acqua per la nonna… Dormi, dormi, e procura di ridere anche tu, sai? Buona notte. Baciò la nipotina sui capelli, le rincalzò ben bene le coperte, e andò in cucina a prender l’acqua.
Ajutato con tanto impegno dalla sorte, il signor Anselmo era riuscito (sempre per sua maggior consolazione) a sollevar lo spirito a considerazioni filosofiche, le quali, pur senza intaccargli affatto la fede nei sentimenti onesti profondamente radicati nel suo cuore, gli avevano tolto il conforto di sperare in quel Dio, che premia e compensa di là. E non potendo in Dio, non poteva per conseguenza neanche più credere, come gli sarebbe piaciuto, in qualche diavolaccio buffone che gli si fosse appiattato in corpo e si divertisse a ridere ogni notte, per far nascere i più tristi sospetti nell’animo della moglie gelosa.
Era sicuro, sicurissimo il signor Anselmo di non aver mai fatto alcun sogno, che potesse provocare quelle risate. Non sognava affatto! Non sognava mai! Cadeva ogni sera, all’ora solita, in un sonno di piombo nero, duro e profondissimo, da cui gli costava tanto stento e tanta pena destarsi! Le palpebre gli pesavano su gli occhi come due pietre di sepoltura.
E dunque, escluso il diavolo, esclusi i sogni, non restava altra spiegazione di quelle risate che qualche malattia di nuova specie; forse una convulsione viscerale, che si manifestava in quel sonoro sussulto di risa.
Il giorno appresso, volle consultare il giovane medico specialista di malattie nervose, che un giorno sì e un giorno no veniva a visitar la moglie.
Oltre la dottrina, questo giovane medico specialista si faceva pagare dai clienti i capelli biondi, che per il troppo studio gli erano caduti precocemente e la vista che, per la stessa ragione, gli si era anche precocemente indebolita.
E aveva, oltre la sua scienza speciale delle malattie nervose, un’altra specialità, che offriva gratis però ai signori clienti: gli occhi, dietro gli occhiali, di colore diverso: uno giallo e uno verde. Chiudeva il giallo, ammiccava col verde, e spiegava tutto. Ah spiegava tutto lui, con una chiarezza maravigliosa, per dare ai signori clienti, anche nel caso che dovessero morire, intera soddisfazione.
– Dica dottore, può stare che uno rida nel sonno, senza sognare? Forte, sa? Certe risatooòne…
Il giovane medico prese a esporre al signor Anselmo le teorie più recenti e accontate sul sonno e sui sogni; per circa mezz’ora parlò, infarcendo il discorso di tutta quella terminologia greca che fa così rispettabile la professione del medico, e alla fine concluse che – no – non poteva stare. Senza sognare, non si poteva ridere a quel modo nel sonno.
– Ma io le giuro, signor dottore, che proprio non sogno, non sogno, non ho mai sognato! – esclamò stizzito il signor Anselmo, notando il riso sardonico con cui la moglie aveva accolto la conclusione del giovane medico.
– Eh no, creda! Così le pare, – soggiunse questi, tornando a chiudere l’occhio giallo e ad ammiccare col verde. – Così le pare… Ma lei sogna. È positivo. Soltanto, non serba il ricordo de’ sogni, perché ha il sonno profondo. Normalmente, gliel’ho spiegato, noi ci ricordiamo soltanto dei sogni che facciamo, quando i veli, dirò così, del sonno si siano alquanto diradati.
– Dunque rido dei sogni che faccio?
– Senza dubbio. Sogna cose liete e ride.
– Che birbonata! – scappò detto allora al signor Anselmo. – Dico esser lieto, almeno in sogno, signor dottore, e non poterlo sapere! Perché io le giuro che non ne so nulla! Mia moglie mi scrolla, mi grida: «Tu ridi!» e io resto balordo a guardarla in bocca, perché non so proprio né d’aver riso, né di che ho riso.
Ma ecco qua, ecco qua: c’era, alla fine! Sì, sì. Doveva esser così. Provvidenzialmente la natura, di nascosto, nel sonno lo ajutava. Appena egli chiudeva gli occhi allo spettacolo delle sue miserie, la natura, ecco, gli spogliava lo spirito di tutte le gramaglie, e via se lo conduceva, leggero leggero, come una piuma, pei freschi viali dei sogni più giocondi. Gli negava, è vero, crudelmente, il ricordo di chi sa quali delizie esilaranti; ma certo, a ogni modo, lo compensava, gli ristorava inconsapevolmente l’animo, perché il giorno dopo fosse in grado di sopportare gli affanni e le avversità della sorte.
E ora, ritornato dall’ufficio, il signor Anselmo si toglieva su le ginocchia Susì, che sapeva imitar così bene la risatona ch’egli faceva ogni notte, per averla sentita ripetere tante volte dalla nonna; le accarezzava l’appassito visetto di vecchina, e le domandava:
– Susì, come rido? Su, cara, fammela sentire, la mia bella risata.
E Susì, buttando indietro la testa e scoprendo il gracile colluccio di rachitica, prorompeva nell’allegra risatona, larga, piena, cordiale.
Il signor Anselmo, beato, la ascoltava, la assaporava, pur con le lacrime in pelle per la vista di quel colluccio della bimba; e, tentennando il capo e guardando fuori della finestra, sospirava:
– Chi sa come sono felice, Susì! Chi sa come sono felice, in sogno, quando rido così. Purtroppo, però, anche questa illusione doveva perdere il signor Anselmo.
Gli avvenne una volta, per combinazione, di ricordarsi d’uno dei sogni, che lo facevano tanto ridere ogni notte.
Ecco: vedeva un’ampia scalinata, per la quale saliva con molto stento, appoggiato al bastone, un certo Torella, suo vecchio compagno d’ufficio, dalle gambe a roncolo. Dietro al Torella, saliva svelto il suo capo–ufficio, cavalier Ridotti, il quale si divertiva crudelmente a dar col bastone sul bastone di Torella che, per via di quelle sue gambe a roncolo, aveva bisogno, salendo, d’appoggiarsi solidamente al bastone. Alla fine, quel pover’uomo di Torella, non potendone più, si chinava, s’afferrava con ambo le mani a un gradino della scalinata e si metteva a sparar calci, come un mulo, contro il cavalier Ridotti. Questi sghignazzava e, scansando abilmente quei calci, cercava di cacciare la punta del suo crudele bastone nel deretano esposto del povero Torella, là, proprio nel mezzo, e alla fine ci riusciva.
A tal vista, il signor Anselmo, svegliandosi, col riso rassegato d’improvviso su le labbra, sentì cascarsi l’anima e il fiato. Oh Dio, per questo dunque rideva? per siffatte scempiaggini?
Contrasse la bocca, in una smorfia di profondo disgusto, e rimase a guardare innanzi a sé.
Per questo rideva! Questa era tutta la felicità, che aveva creduto di godere nei sogni! Oh Dio… Oh Dio…
Se non che, lo spirito filosofico, che già da parecchi anni gli discorreva dentro, anche questa volta gli venne in soccorso, e gli dimostrò che, via, era ben naturale che ridesse di stupidaggini. Di che voleva ridere? Nelle sue condizioni, bisognava pure che diventasse stupido, per ridere.
Come avrebbe potuto ridere altrimenti?
Luigi Pirandello
Rileggere Pirandello, oltre ad essere un piacere enorme, te lo fa conoscere sempre meglio e te ne fa apprezzare l’arguzia ironica ed amara che mette nelle cose umane e del mondo.
La sua visione della vita è per molti considerata pessimistica. Ma come non si può non dare ragione alle conclusioni a cui arriva il sig. Anselmo?
EPICEDIO
Tu ridi, e il vento fugge tra i muri.
Questa parola crebbe lungo tempo,
per tanto lungo tempo ingigantì
per non essere udita? Per essere
poi rapinata dal vento d’aprile?
Non ridere così di questo, che tu
m’abbia fatto una burla e nient’altro.
Non ridere così. Iddio non ride,
si fa triste nei volti delle cose
e nella luce smorta del tramonto.
E le corolle – se guardi – le corolle
sembrano volti d’angeli in mestizia,
al suono del tuo riso. Non gridare
così alta la tua noncuranza,
alle creature attonite, per me
che mi denudo l’anima e cerco
nell’anima tua. Non soltanto
una piccola burla. A questo amore,
muto così che abbrividendo anela
ai tuoi tesori, ho forse in olocausto
arsa la vita, e questo sacrificio
la parola nutrì per lungo tempo,
questa che ora il vento si rapina,
a fiore del tuo riso.
DOMENICO ALVINO
Salve, Domenico perchè non inserire la tua bella poesia in un post tutto ad essa dedicato, piuttosto che relegarla tra i commenti alla novella di Pirandello che altro tema tra l’altro affronta?
Vedi, caro Corrado, recentemente sono apparse in PRESENZA DI ÈRATO certe mie poesie sul tema del fuoco. Non gliene è fregato niente a nessuno. E perché adesso metto qui questa mia poesia, risalente a più di mezzo secolo fa? Non lo so neppure io che cosa mi ha preso. Forse la voglia di unire il mio fiato a quello di Pirandello in un comune grido, e così dare insieme uno scossone al ridere offensivo e sprezzante del mondo verso chi invece avrebbe bisogno di conforto. Anche se sono persuaso che a nessuno, di nuovo, importi qualche mazza. Finora solo a te. Del che ti sono grato.
Dimenticavo di dire che la stessa cosa si è ripetuta per due miei saggi apparsi sempre qui in PRESENZA DI ÈRATO: uno sul problema del linguaggio in poesia, l’altro sull’ispirazione. Credi che ci sia stata qualche mazza? Neanche l’ombra, caro Corrado!
Capisco, Domenico! La tua è una giusta rimostranza e credo che hai colto nel segno. Mi spiego. Io sono un semplice appassionato di letteratura, iscritto alla newsletter di questo blog o sito, anche se non sono un grande lettore di poesie. Poi, per motivi di tempo o per concentrare le mie letture secondo i miei gusti, leggo prima l’oggetto della newsletter e se vedo uno dei miei autori preferiti (come in questo caso Pirandello), ne leggo il contenuto in maniera completa. Quando non conosco l’autore, raramente leggo il contenuto della newsletter e non visito, quindi, il sito che immagino sia ricco di tante opere lodevoli.
Allora, ecco che il tuo modo di fare in questa occasione forse è stato un modo per aprire una breccia. Trovare nei commenti una tua opera (che sebbene a prima veloce lettura potrebbe sembrare “fuori tema” con la novella) mi ha spinto curioso a leggere la tua bella poesia.
Riguardo alla quantità e qualità dei lettori di questo sito, ma di libri in generale, poi credimi non riesco a farmene una idea. In questo giorni sento parlare del successo del Salone del libro di Torino. Ma io dalle mie parti tutta questa gente che “legge” in giro non ne vedo molta.
Allora io resto nel cantuccio delle mie letture e ringrazio che il caso mi faccia ogni tanto conoscere lo sforzo creativo e di contenuto di autori come te che meriterebbero un minimo di vero pubblico per comunicare quanto hanno da dire. L’era di internet è, a mio pensare, forse la più terribile epoca per la cultura. La sottocultura (non mi dilungo ad elencarne le diverse espressioni) ha preso le sembianze di “cultura” e la fa da padrone.
Ray Bradbury usava dire che il 90% della letteratura fosse spazzatura. Ma nell’infinito multimediale di internet la buona letteratura a quali minimi livelli percentuali è arrivata?
Un saluto
Corrado
A parte la buona e la non buona letteratura, quel che è successo, a mio parere, è la fissazione di un concetto errato dell’arte, come il concetto errato di poesia, incarcerata in una sua assoluta indefinibilità, che guai a contraddirla. Se essa è indefinibile, nessuno sa che cos’è e dunque ci si può metter dentro di tutto, e sostenere che quanto ne risulta è poesia, e guai a chi osa anche timidamente avanzare qualche dubbio. In questo bailamme, occorrendo qualche punto cardinale che aiutasse un orientamento anche solo approssimativo, ci si è arresi a quello dell’imperium nominum, col risultato che solo chi ha una rinomanza, suscitatagli magari da un mammasantissima della letteratura in una mattina di buon umore, ha diritto di essere apprezzato, e guai a dire che non è sublime capolavoro tutto quel che fa. Un’altra conseguenza divertentissima è che la poesia la si riconosce solo in quello che spiattella come tale il rinomato, con il che la poesia finisce con l’essere definita, pur continuando ad esser predicata indefinibile. Ma siccome i rinomati son tanti, e tutti diversi tra loro, altrettante risultano essere le definizioni di poesia, tutte diverse tra loro. Ed ecco il bailamme. Come se ne uscirebbe? Solo buttando nel secchiello dell’indifferenziata l’imperium nominum e guardando alle cose in sé, vale a dire a ciò che fanno gli artisti (i poeti) e da lì traendo un identikit dell’opera d’arte (di poesia), da servire a chi la cerca o la fa o ne fruisce, perché se non la riconosce come può trovarla o produrla o usufruirne? Certo è possibile anche una fruizione inconsapevole, come la digestione del cibo ingurgitato in una bestia sonnacchiosa e spanzecchiata ai piedi del padrone. Ma noi uomini forniti d’intelletto e fantasia, possiamo abbandonarci a questo?
Ma caro Alvino, abbandonati anche al più semplice criterio critico: “bella questa poesia”; , “Non mi piace”, etc. Ma cerchi di rimuovere il “piacere” poetico in un sito (sono 700 al giorno che leggono il nostro) lottando e scrivendo di “fruizione inconsapevole”. Io (Luciano Nota) son contento che 700 persone al giorno ci leggano, leggano le tue poesie, leggano altro che scrivono gli autori, leggano infine i miei articoli. Ci devono leggere. Evviva il silenzio. Infatti, oggi soprattutto, la poesia è silenzio. Vedremo chi esala. Un caro saluto. Lasciamo ai critici (non critici) la penna nera.
Io sarei contento se mi si dicesse almeno che il mio intervento è coerente e realistico. Così anche una stroncatura (“la penna nera”): se è coerente e oggettiva è critica serissima, che giova alla crescita culturale. Solo se è gratuita e incoerente la si dovrebbe definire “non critica”, in quanto danneggia quella crescita e condanna al nanismo la respublica litterarum. Che il mio giudizio, nel caso in oggetto, sia veritiero, mi pare che lo dimostrino più fatti: uno è che a scuola si continua a scartabellare la solita belluria letteraria tradizionale, mentre s’ignorano opere validissime abbandonate al buio; l’altro è che ciò che mi accadde una volta – ed era l’ennesima di accadimenti simili – che in uno dei convegni che si tenevano di una Associazione Classica qua e là per l’Italia, un tale, pifferetto insulso che era lì a dare e a ritogliere la parola governando gli interventi, volendo rifiutare una mia proposta, non trovò altro per farlo che dirmi: “Ma lei chi è?!”. Ciò che valeva per lui, come per tanti, era l’imperium nominum. Ho ragionato male?