Il primo poeta latino che cantò la filosofia di Epicuro è Tito Lucrezio Caro. Della sua vita e della sua personalità artistica possediamo pochissime fonti. La biografia più antica è quella di San Girolamo: in essa l’autore cristiano ci informa che Lucrezio visse 44 anni, che impazzì a causa di un amatorium poculum (un filtro d’amore), che scrisse l’opera nei momenti di lucidità, che essa fu edita da Cicerone e infine che il poeta morì suicida. L’attendibilità della pazzia e del suicidio del poeta è messa in dubbio da alcuni critici, secondo cui la notizia sarebbe una leggenda sorta in ambiente cristiano nel IV sec. per screditare il poeta epicureo negatore della religione. Lo stesso Lattanzio, che pur dimostra di conoscere bene Lucrezio, quando confuta la dottrina materialistica e avversa alla religio non parla mai della pazzia del nostro e del suicidio. Degna di attenzione appare l’ipotesi del Wilkinson, il quale ritiene che la tradizione biografica attestata da S. Girolamo sia nata per un errore di lettura: la notizia della follia e del suicidio è attestata a proposito di Lucullo, il cui nome abbreviato Luc. è come quello di Lucrezio. Il proposito da cui l’opera del poeta romano muove è il dimostrare che solo la scienza epicurea può liberare l’uomo dall’angoscia, dalla paura e dall’ignoranza. Ed è dal timore degli déi e della morte che nascono tutte le ansie e le passioni che travagliano la vita degli uomini. Il De rerum natura rimanda fin dal titolo all’opera di Epicuro: è infatti traduzione di Perì physeos, titolo dello scritto del maestro in ben 37 libri. Comprende sei libri in esametri, divisi a gruppi di due: i primi due trattano dell’esistenza degli atomi, le particelle minime e indistruttibili che stanno alla base di ogni cosa. Il loro aggregarsi e separarsi dà origine o fine a tutto. Oltre agli atomi, nel cosmo è presente il vuoto: se quest’ultimo non esistesse gli atomi non potrebbero muoversi e l’universo sarebbe immobile. Gli atomi hanno un moto incessante. Il terzo e il quarto libro parlano dell’anima e delle sensazioni. L’anima è mortale, è formata anch’essa di atomi, sia pure più leggeri, e quindi soggetta al processo di aggregazione-dissoluzione. Questa dimostrazione conduce a un punto nodale della dottrina epicurea: la vanità del timore della morte. Le sensazioni sono causate dagli eidola “simulacri” degli atomi che colpiscono i sensi. Il quinto e sesto libro parlano della formazione del mondo, della storia dell’umanità e dei fenomeni naturali. Lucrezio polemizza con la concezione degli stoici secondo la quale l’universo è ordinato da una mente divina in modo perfetto e vantaggioso per gli uomini. Per Lucrezio sono molte le manchevolezze della natura verso l’uomo e che la condizione umana non solo è difficile e infelice, ma è persino peggiore di quella degli animali. Dopo aver trattato dell’origine del mondo, degli astri, della nascita della vita sulla terra, Lucrezio presenta una sintesi della civiltà umana. Ci parla dei fenomeni fisici, come il fulmine, le maree, i terremoti, i vulcani, per dimostrare che sono cause naturali e non da attribuire all’ira divina. Il libro si chiude con la descrizione della peste di Atene, all’interno della dimostrazione della natura fisica delle epidemie. Ci si chiede perché Lucrezio abbia scelto la forma poetica per esporre la filosofia epicurea dal momento che il maestro stesso condannava tale forma perché atta a diffondere false opinioni, creare emozioni che turbano la tranquillità a cui deve aspirare il sapiente. Bisogna dire che Epicuro non condannava in modo assoluto l’ars poetica, ammetteva la composizione di versi brevi in cui esporre piaceri capaci di rallegrare senza turbare l’animo. Inoltre esisteva una tradizione antica nella letteratura greca di poemi didascalici di contenuto filosofico. Pensiamo alla Teogonia di Esiodo, opera di contenuto mitico-religioso, Parmenide ed Empedocle che avevano esposto la loro dottrina in poesia. Lo stile del De rerum natura si rifà alla poesia epica arcaica, ma è così ricco da utilizzare anche immagini ed espressioni tratte dalla poesia alessandrina, soprattutto quella callimachea.
Elogio di Epicuro (De rerum natura, I, 62-79)
Humana ante oculos foede cum vita iaceret
in terris oppressa gravi sub religione
quae caput a caeli regionibus ostendebat
horribili super aspectu mortalibus instans,
primum Graius homo mortalis tollere contra
est oculos ausus primusque obsistere contra,
quem neque fama deum nec fulmina nec minitanti
murmure compressit caelum, sed eo magis acrem
irritat animi virtutem, effringere ut arta
naturae primus portarum claustra cupiret.
Ergo vivida vis animi pervicit, et extra
processit longe flammantia moenia mundi
atque omne immensum peragravit mente animoque,
unde refert nobis victor quid possit oriri,
quid nequeat, finita potestas denique cuique
quanam sit ratione atque alte terminus haerens.
Quare religio pedibus subiecta vicissim
obteritur, nos exaequat victoria caelo.
La vita dell’uomo, dinanzi agli occhi di tutti, vergognosamente stava
abbattuta in terra, schiacciata sotto Religione opprimente,
che il capo delle regioni del cielo mostrava,
con sguardo terrificante incombendo sopra i mortali:
e allora per primo un uomo di Grecia gli occhi mortali contro
di lei osò alzare, primo ergersi contro;
lui, né reputazione degli dèi, né fulmini, né, con minaccioso
borbottio, il Cielo, lo trattennero, ma ancora di piú l’aggressiva
forza dell’animo eccitarono, sí ch’egli bramasse svellere,
per primo, le sbarre chiuse delle porte di Natura.
Dunque la forza vigorosa dell’animo ebbe vittoria, e lontano
avanzò, al di là delle mura del mondo che gettano fiamme,
e l’Infinito tutto percorse con la ragione e con l’animo:
da lí a noi riferisce, vittorioso, ciò che possa aver nascita,
ciò che non possa, per quale legge infine abbia, ogni cosa,
campo d’azione determinato, e confini infissi nel profondo:
perché Religione, gettata sotto i piedi, a sua volta
è schiacciata, la vittoria noi rende uguali al cielo.
(traduzione di Guido Milanese)