C’è stata, in questi giorni, per i tipi di Hacca, Matelica (MC), la ristampa del romanzo-inchiesta La masseria di Giuseppe Bufalari, fiorentino, dall’Ente Riforma inviato a Calvello, negli anni 1953-54, quale assistente sociale con funzione, anche, di maestro elementare. Suo compito era quello di preparare l’ambiente alla accettazione della riforma agraria. Il romanzo registra, di fatto, lo scontro che si ebbe tra il vecchio mondo, duro a morire, e il nuovo mondo, in difficoltà nell’affermarsi. Tutto si svolge intorno alla masseria, simbolo e centro di vita del latifondo meridionale. Essa ricordava, in tutto, la curtis medievale, di cui poteva ben considerarsi una derivazione, se non una sopravvivenza.
Il latifondo significava che la terra era nelle mani di pochissimi proprietari, che l’avevano avuta per eredità secolare, ma anche, in casi più recenti, per furto, per violenza e per usurpazione. L’impatto del giovane maestro settentrionale è drammatico e sconvolgente. A differenza di Carlo Levi che, ad Aliano, entra in contatto col contadino umile e buono, espressione della bontà ingenita nell’uomo, ma pur sempre umiliato e offeso, la masseria dei grandi proprietari terrieri è la rappresentazione di un mondo selvaggio, senza scrupoli, in cui la presenza del fucile è regola, sia per difendersi da eventuali assalitori, sia per attaccare rivali. E’ un mondo di odi ancestrali. A fatica i carabinieri, temutissimi, si interpongono, nel tentativo di far rispettare la legge. Perciò, se Carlo Levi simpatizza col mondo contadino, giungendo a parlare di civiltà contadina, in cui sopravvivono virtù che sono dono della natura umana, ma anche valori che furono del mondo greco, Giuseppe Bufalari resta tragicamente sconvolto, trovandosi nella impossibilità di svolgere, come vorrebbe, il suo ruolo di educatore. A mala pena, infatti, riesce a tenere qualche lezione di alfabetizzazione; per il resto, sul piano della educazione sociale, civile e morale, può ben poco. Suo malgrado, anzi, partecipa ad atti delittuosi, organizzati subdolamente da un padrone a danno di altro padrone, suo rivale. E’ il caso dell’avvelenamento degli animali altrui. E’ anche costretto ad assistere o comunque a scoprire omicidi, perpetrati con i sistemi più selvaggi della mafia più feroce.
Far capire il valore, il significato e la portata della riforma agraria in quel mondo è difficile. La riforma agraria prevede la creazione di un lago artificiale per l’irrigazione; prevede la sommersione, perciò, di qualche masseria; prevede la divisione del latifondo a favore della piccola proprietà. Bufalari si domanda se è giusto entrare in quel mondo con passo pesante, o con la forza dei cingolati, dei trattori, delle ruspe, trovando la ferrea opposizione della masseria e dei suoi abitanti. “I contadini – scrive Bufalari ai dirigenti dell’Ente Riforma, residenti a Roma, e quindi lontani e assolutamente ignoranti di quel mondo chiuso tra monti e fiumare – sono incapaci di reagire positivamente all’opera della riforma. La preparazione non è stata sufficiente. I giovani lavorano al cantiere, ma questo non deve ingannare. Nessuno dei contadini può intendere la riforma agraria, perché non esistono i presupposti di essa. Il metodo di intervento diretto su di loro è il più grave errore”.
Bufalari, in certo qual modo, ragiona un po’ come Carlo Levi. Bisogna, secondo lui, che il mondo della masseria sia preparato al nuovo. Ciò significa che, contro i propri interessi, essa, “autonomamente”, dovrebbe procedere alla divisione del latifondo e alla consegna della “sua” proprietà ad altri. Non lo farà mai. Almeno dal tempo dei Normanni, i grossi proprietari terrieri si erano ben guardati dall’accettare una simile idea o ipotesi o regola morale. Essi cedevano solo a due forze superiori, che coincidono con il destino. Si tratta di forze occulte, mosse dalla cosiddetta melogna, una pelle secca di animale che, a appesa in cucina, rappresenta tutte le forze del male da scatenare sugli altri. E’ la maledizione. L’altra forza irruente, contro cui non c’è difesa, è la tarana, cioè la forza devastatrice dell’acqua. Solo a queste due forze, irresistibili, essi si sottomettono; ma non possono sottomettersi all’uomo che, sia pure per il bene della collettività e, in fondo, della stessa agricoltura meridionale, arriva a portare il nuovo e il giusto.
Il giovane assistente dichiarerà il proprio fallimento, lasciando ad altri il compito di proseguire l’opera missionaria, se ne sarà capace. Intanto molti delitti sono già avvenuti; ed è solo attraverso queste morti che, purtroppo, avanzano i trattori e le ruspe, e qualche giovane comincia a gustare il possesso di un po’ di denaro liquido.
Bufalari pubblicò il suo romanzo-inchiesta presso la casa editrice Lerici, nel 1960. Erano gli anni di un sopravvivente e tardivo neorealismo meridionale. Ciò spiega il fatto che al romanzo fosse assegnato il premio Salento. E spiega perché fu presto dimenticato, riproposto solo molti anni dopo, in forma ridotta, come libro per le scuole. Risultava superato da romanzi di ben altro tenore, ma anche più sottili e insinuanti. Si vuol dire di Cassola e di Bassani. Del resto, come gusto e modo di narrare, il libro di Bufalari andava verso l’appunto, il pletorico, la registrazione di dialoghi e incontri, che non sempre erano funzionali al racconto. C’è la convinzione che fare letteratura significa girare col registratore. La rappresentazione è certamente realistica e, sul piano documentale, molto interessante. Essa dà l’altra faccia del mondo contadino meridionale. Non è quello degli umiliati e offesi di Carlo Levi, poveri ma belli, ma quella degli agrari o “padroni”, abituati ad esercitare la violenza fisica e sociale, anche sessuale. Contro di loro si poteva arrivare solo con i cingoli e i carabinieri. Altra via non c’era. La riforma agraria, del resto, non la volevano nemmeno molti al governo. Solo le agitazioni dal basso e la morte di Giuseppe Novello, a Montescaglioso, e non solo quella, avvenuta nel dicembre 1949, indussero a promulgare la legge di riforma agraria nel 1950, peraltro solo “stralcio” di riforma agraria. La masseria, come simbolo del latifondo, fu sconfitta e distrutta solo a metà. Forse è questa la ragione della successiva crisi dell’agricoltura meridionale, dell’abbandono dei campi (insufficienti e i peggiori) e della forzata emigrazione, di cui si pagano ancora oggi le conseguenze. Fu lo sfilacciamento del tessuto sociale meridionale, con evidente desertificazione delle zone interne e rigonfiamento abnorme delle città, assistite e improduttive. Molte masserie furono abbandonate al logorio del tempo; altre, soprattutto in Puglia, hanno trovato una seconda vita come strutture agrituristiche. Sono diventate luoghi di divertimento e riposo, da luoghi di sofferenza, abusi e fatica quali furono. Vi ballano e cantano quelli che non emigrarono.
Giovanni Caserta