James Joyce e il “disastroso” soggiorno romano, di Marco Onofrio

jamesjoyceJoyce odiò Roma. Gli bastarono sette mesi e sette giorni di soggiorno, dall’agosto 1906 al marzo 1907, per averne a noia l’atmosfera, la confusione, la dispersività. Va detto però che la parentesi romana – una sorta di esilio nell’esilio triestino – coincide con il periodo più buio e desolato della sua vita. Il concetto negativo che si fece dell’Urbe (gli dava da pensare a «un uomo che si mantenga col mostrare ai viaggiatori il cadavere di sua nonna») risente sicuramente di questa fase depressiva, a livello personale; nonché, a livello familiare, dell’insofferenza manifestata dalla compagna Nora Barnacle, che a Roma si sentì afflitta da una profonda solitudine. Lo sguardo di Joyce, dunque, era incupito, livido, condizionato negativamente da alcune circostanze che gli impedivano una “lettura” libera e impregiudicata dell’esperienza: non era, insomma, nelle condizioni spirituali e materiali per viverla con la necessaria serenità di giudizio.

Il trasferimento a Roma fu dettato anzitutto da ragioni professionali. La Banca Nast Kolb e Schumacher cercava un corrispondente ferrato nelle lingue. Joyce conosceva – oltre all’inglese – francese, tedesco e italiano. Rispose all’inserzione della Banca: venne assunto. Si trasferì a Roma con Nora e il figlio Giorgio piccolissimo. Trovò alloggio in una povera stanza di via Monte Brianzo, al civico 51. In Banca prese servizio l’1 agosto 1906. Il motivo che lo spinse all’avventura romana fu, in secondo luogo, di ordine religioso. A parere dell’eminente anglista Giorgio Melchiori, Joyce era probabilmente incuriosito dalla possibilità di verificare se il cattolicesimo a Roma fosse paralizzante quanto a Dublino, sua città natale, da cui era fuggito all’età di ventidue anni. Valeva, inoltre, l’ascendente culturale sprigionato dalla Città Eterna in quanto “luogo deputato”, a livello mondiale, di una classicità che, come noto, avrebbe sedotto non poco l’autore dei Dubliners. Joyce era convinto che il classicismo fosse una costante metastorica dell’espressione umana: un temperamento costituito da «sicurezza, soddisfazione e pazienza» che porta ad operare sulle cose del presente, riplasmandole, così che «l’intelligenza possa andare al di là e scoprirne un significato ancora inespresso».

Ma le ragioni ideali finiscono qui. Quale differenza ci fu, sul piano concreto! E quanta delusione! Joyce non riuscì ad ambientarsi. Frequentò, senza costrutto, le biblioteche romane. Aveva i suoi giri quotidiani (l’oste di via Frattina, il giornalaio dove comprava «L’Avanti!»), che però non gli evitavano di sentirsi solo, disadattato, esule. Ricominciò a bere. Joyce spendeva molto, aveva le tasche bucate, e questo – oltre ad intristire la sua miseria – lo costringeva a chiedere continuamente soldi al fratello minore Stanislaus, che era rimasto a Trieste, o a contrarre prestiti onerosi. L’alcolismo rendeva viepiù fallimentare la sua esperienza romana, durante la quale non scrisse una sola riga (tranne le lettere a Stanislaus) ma in compenso ideò, a livello progettuale, il primo embrione dell’Ulysses. Roma gli diede, peraltro, l’annuncio della seconda paternità: Nora era incinta di Lucia, che poi sarebbe nata a Trieste. L’alcol, i debiti, la solitudine, l’emarginazione, le lamentele di Nora: Joyce finì per mollare la presa. Giuseppe Cafiero – in un interessante volume (“James Joyce, Roma & altre storie”, Bologna, Pendragon, 2006) a metà tra saggio e romanzo, che segue, con dovizia di dettagli e documenti, le vicende di questo smarrimento progressivo – ricostruisce così la fase terminale del soggiorno romano del grande scrittore dublinese:

220px-Joice_a_Dublino«Addio Roma, addio! Addio Roma indolente, negletta, incarognita, svogliata, papalina, pontificale, ecclesiastica, laica, infiocchettata, lercia, pantofolaia, stracciona, incravattata, moccolosa, incivile, umana, grossolana, affabile, ignorante, cortese, cardinalizia. Addio Roma, addio! Marzo 1907, e Mr. Joyce s’era ormai arreso, senza più opporre resistenza compassionevole o crudele, a negozi penosi, a pensieri angoscianti, a tempi sfregiati da amare sorprese. Mr. Joyce fuggiva una realtà non più tollerabile seppure mascherata da melensa e falsa umana consorteria. Mr. Joyce era deluso e dannatamente stufo. (…) Roma era luogo dal soggiorno affligente e sfigurato dalla coglioneria, ove, pur solo per campare e sopravvivere, era necessario trafficare in un funereo e desolato cimitero dalle colonne spezzate e mura corrose da memorie guerresche, fra templi e marmi dall’iscrizioni mortuarie e indecifrabili, fra reliquie, acquedotti, circhi massimi, archi di trionfo, statue di imperatori, bassorilievi e altorilievi, capitelli, rostri, e atri o portici racchiusi in un letamaio di vecchie e luride cose. Mr. Joyce aveva ormai i nervi a pezzi, sottomesso come era alle insidie, al malsano chiacchiericcio della gente, pur svilito nelle forze, irritato dalle contraddizioni, da una esistenza gravosa e incerta, da camere in affitto, da ristoranti fetidi, da osterie fumose, dall’isteria delle donne, da Nora Barnacle nuovamente incinta. Mr. Joyce era prostrato e avvilito».

Si arrivò, quindi, all’ultima sera romana: la sera del 5 marzo 1907. Qui l’infausta esperienza finisce addirittura con il “botto”… Joyce si era appena licenziato dalla Banca e aveva in tasca la liquidazione. Prima di rincasare, decise di ubriacarsi in un’osteria dove, in preda ai fumi dell’alcol, mostrò la liquidazione a due sconosciuti, che poi in strada lo derubarono. L’indomani, con Nora incinta e il piccolo Giorgio, ripartì di corsa per Trieste.

Joyce tuttavia non rinnegò la parentesi romana, per quanto breve e infausta. La Città Eterna si farà sentire “in contumacia”, anni dopo, nella stesura del dramma in tre atti Esuli: e non a caso! Richard e Bertha, i due protagonisti, hanno sperimentato a Roma l’«esilio più penoso» (de Petris): esattamente come era accaduto a Joyce e a Nora. Il dato biografico riemerge con angosciante e vincolante puntualità, filtrato e macerato dal subconscio, come una sorta di “ritorno del rimosso”, di elaborazione del trauma. Joyce ha ormai la distanza critica necessaria per scrivere di quei giorni bui, sia pure per interposta persona, attraverso il mascheramento del personaggio. In questo caso è Archie, il bambino figlio di Richard (ovvero corrispettivo di Giorgio), a chiedere al padre: «Anche qui ci sono ladri come a Roma?» E poi, più avanti, è Robert (corrispettivo di Roberto Prezioso, un giornalista triestino che faceva la corte a Nora, e di cui Joyce fu molto geloso) a dire a Richard: «Sai che ci sono state delle chiacchiere qui sulla tua vita all’estero, una vita sregolata. Qualcuno ti ha conosciuto o incontrato o ha sentito parlare di te a Roma». E poi, ancora, è Bertha a dire a Beatrice (cugina di Richard, di cui quest’ultimo, secondo Bertha, è innamorato): «Anche a Roma. Quando io e Archie uscivamo a passeggio, pensavo a lei, perché la conoscevo da quello che mi diceva Dick. Guardavo le donne che uscivano da chiesa o che passavano in carrozza, e pensavo che forse le assomigliavano». Ma è soprattutto alla fine del dramma che il lacerante ricordo romano trova la strada per manifestarsi, stavolta con esplicita chiarezza:

«BERTHA

(…) Ti ho aspettato. Cielo! Come ho sofferto quando eravamo a Roma! Ti ricordi il terrazzo di casa?

RICHARD

Sì.

BERTHA

Sedevo lì di solito, aspettando, con il povero piccolo che giocava, aspettando che si addormentasse. Si vedevano i tetti della città e il fiume, il «Tevere». Come si chiama in inglese?

RICHARD

«Tiber».

BERTHA

(passandosi la mano di lui sulla guancia) Era bellissimo, Dick, solo che ero così triste. Ero sola, Dick, dimenticata da te e dagli altri. Sentivo che la mia vita era finita.

RICHARD

Non era ancora cominciata.

BERTHA

E guardavo il cielo, tanto bello, senza una nuvola e la città che dicevi che era tanto antica: e allora pensavo all’Irlanda e a noi due».

I tetti, il fiume, il cielo. Si ammette insomma la bellezza di Roma, allora evidentemente non apprezzata per il malanimo di un’avversa condizione psicologica. Il palazzo di via Monte Brianzo si affacciava sul Tevere: i Joyce abitavano al quarto piano, e la visione del fiume non era ancora occlusa dai muraglioni, eretti in seguito per difendere la città dalle alluvioni. In alcuni “Frammenti di dialogo” utilizzati e modificati dallo scrittore nella stesura definitiva del dramma, Bertha parla anche delle «lunghe sere» di Roma, del sole che tramontava, e della sua incapacità di fronteggiare, anzitutto dal punto di vista emotivo, una bellezza così vasta, così alta, così sublime.

«BERTHA

(…) Tutto era così grande e bello. Ma mi faceva piangere.

RICHARD

Perché, cara?

BERTHA

Perché ero così ignorante. Non sapevo niente di tutte quelle cose. Eppure mi commuovevano».

Ecco la percezione epidermica di una Roma che sgomenta, che riduce gli uomini alla propria ombra, che li costringe al confronto con l’eternità. E quella strana e inesprimibile commozione nostalgica, forse, piuttosto che malinconica. Negli “Appunti”, preliminari alla stesura dell’opera, Joyce cita Roma anche per la tomba di Shelley. E si avventura in una “definizione” della città che, ora possiamo capirlo bene, ha uno stretto valore autobiografico: «Roma è lo strano mondo e la strana vita a cui l’ha condotta Richard». La vicenda di Joyce a Roma è utile per comprendere che – nella vita di ogni uomo, e soprattutto di un artista – i passaggi a vuoto, le delusioni e le fasi d’ombra rappresentano, malgrado il riscontro negativo, straordinarie occasioni di crescita nella trasformazione: sono episodi che non vanno esorcizzati, ma messi a frutto in modo operativo, proprio come riuscì a fare l’autore di Esuli. Senza contare poi che i cambiamenti più importanti e decisivi, spesso, sono in corso quando nulla sembra stia accadendo. Così, scrive Melchiori, «fu proprio a Roma, in quei sette mesi apparentemente improduttivi, che maturò una nuova coscienza politica in Joyce, o meglio, un nuovo modo di guardare alla politica come dibattito ideologico, anziché come mera rivendicazione nazionalista – quell’atteggiamento patetico e inconcludente nei confronti della situazione irlandese che egli aveva tanto efficacemente ritratto nel racconto “Il giorno dell’edera” in Gente di Dublino. L’interesse per la politica italiana, e specialmente per il Congresso del Partito Socialista che egli seguì durante il soggiorno romano, risvegliò in lui l’esigenza di riconsiderare obiettivamente la situazione dell’Irlanda in un contesto storico ed europeo».

Marco Onofrio

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