La Sicilia, crocevia di confluenza delle culture araba, latina e greca, fu terreno favorevole alla nascita di una nuova letteratura in volgare, grazie a Federico II, che protesse artisti, scienziati e poeti, sviluppando nel contempo un tipo di cultura latina giuridica, cancelleresca, storica. In Giacomo da Lentini ( Lentini, 1210 circa – 1260 circa) va riconosciuto l’inventore della nuova tradizione poetica; così come pure furono poeti altri notai, uomini di corte, giuristi e persino alcuni esponenti della famiglia imperiale, come lo stesso imperatore e suo figlio Enzo; altre personalità provenivano però da fuori del regno, confermando così il tono non municipale della scuola stessa. Sede di questa attività poetica fu la corte di Federico, dove, intorno al 1233-34, Giacomo da Lentini adattò moduli stilistici e poetici della lingua provenzale al siciliano. Testimone della preminenza di Giacomo è il codice Vaticano latino 3793, che si apre con una sua canzone, Madonna dir vo voglio, traduzione poetica di A vos Midonz (comunemente assegnata a Folchetto di Marsiglia). Centro della nuova poetica è l’amore cortese, feudale, frutto di devozione e sofferenza di fronte all’irraggiungibile figura della donna, spesso stilizzata con sintagmi fissi; e l’amore mostra la sua natura attraverso segni visibili e manifestazioni fisiche. Nella metrica si adattano tre forme; sede designata alle manifestazioni d’amore è la canzone, destinata alla lettura; adatta al ragionamento amoroso è una nuova forma metrica, il sonetto, la cui invenzione si attribuisce a Giacomo da Lentini; nel discordo, di origine provenzale, la libertà delle strofe e delle rime lascia il campo aperto ad ogni tematica amorosa. La lingua era il siciliano, ripulito dai vernacolarismi (che furono usati, per motivi stilistici, da Cielo d’Alcamo nel Contrasto, ma furono duramente riprovati da Dante) e nobilitato con latinismi e provenzalismi.
Oi deo d’amore, a te faccio preghera
ca mi ’ntendiate s’io chero razone:
cad io son tutto fatto a tua manera,
aggio cavelli e barba a tua fazzone,
ad ogni parte aio, viso e cera,
e seggio in quattro serpi ogni stagione;
per l’ali gran giornata m’è leggera,
son ben[e] nato a tua isperagione.
E son montato per le quattro scale,
e som’asiso, ma tu m’ài feruto
de lo dardo de l’auro, ond’ò gran male,
che per mezzo lo core m’ài partuto:
di quello de lo piombo fa’ altretale
a quella per cui questo m’è avenuto.
*
Or come pote sì gran donna entrare
per gli ochi mei che sì piccioli sone?
e nel mio core come pote stare,
che ’nentr’esso la porto là onque i’ vone?
Lo loco là onde entra già non pare,
ond’io gran meraviglia me ne dòne;
ma voglio lei a lumera asomigliare,
e gli ochi mei al vetro ove si pone.
Lo foco inchiuso, poi passa difore
lo suo lostrore, sanza far rotura:
Così per gli ochi mi pass’a lo core,
no la persona, ma la sua figura.
Rinovellare mi voglio d’amore,
poi porto insegna di tal crïatura.
*
Angelica figura – e comprobata,
dobiata – di ricura – e di grandezze,
di senno e d’adornezze – sete ornata,
e nata – d’afinata – gentilezze.
Non mi parete femina incarnata,
ma fatta – per gli frori di belezze
in cui tutta vertudie è divisata,
e data – voi tut[t]è avenantezze.
In voi è pregio, senno e conoscenza,
e sofrenza, – ch’è somma de li bene,
como la spene – che fiorisc’e ingrana:
come lo nome, av[e]te la potenza
di dar sentenza – chi contra voi viene,
sì com’avene – a la cità romana.