L’Ellade e i ricordi stesi ad asciugare: “Fidia” e “Asclepiade”

Mar_campechano

LA NOTTE ERA UN LUNGHISSIMO MARE

Accadeva dopo cena
appena dopo le ventuno
al rintocco dell’ultimo sprazzo.
Ci si chiamava per nomi stentorei
Fidia, Asclepiade.
Il tatto arroventato sui fianchi
le labbra perfette all’umido corallo.
Seguivamo vestiboli
che aprivano a bifore più aggraziate.
Soffocati in un nembo i sospiri
sceglievamo Kavafis da leggere al buio.
La notte era un lunghissimo mare.

L.N.

boschetto

SOLO E VESTITO DI PIUME

Mille e mille rivoli di viole
strappate
a dirmi se ci sono
se torno
se la notte ristora.

Ma non si desta alcun bambino
nell’angoscia del digiuno.

La serpe dorme tumefatta.

Solo e vestito di piume
smisurato nel delirio della notte
mi agito e mi aggrappo
all’estraneo fervore di molti
di tutti.

Nell’assiduo tumulto
l’incedere incerto
di sguardi muti
di impercettibili attese.

E rientrare inghiottito
da una pioggia salata.

Fidia”

cielo_208665

IN DUE

“Caro, questo è il pane,
e questa è la luce
alla quale non crediamo”.

“Caro, questo è ciò che non vogliamo:
la vita, il sogno,
le blandizie del creato”.

“Asclepiade”

7 commenti
  1. Ci sono affermazioni, in questo dialogo a distanza ravvicinata, telo e tela “stesa ad asciugare”, che palesano il contrasto tra l’abbandono fiducioso («La notte era un lunghissimo mare») e la diga determinata a frenare ogni illusione nel “noi” («questa è la luce / alla quale non crediamo»). Ci sono immagini, in questa esposizione alla luce, che volutamente la modulano, la attenuano, si oppongono ad essa, testimonianza e constatazione: «la serpe dorme tumefatta», «solo e vestito di piume». ‘Inni alla notte’ di solitudine e “smisurata” conoscenza, ché anche questo è il delirio.

  2. L’ottocentesca battaglia tra il bene e il male è finita. Anche a rileggerla non se ne può più. Peccato che poi si resti lì, allo scuro ( se è vero che il buio è assenza di luce), assetati di vita pulsante (in due). Infine sono le tribolazioni di sempre. Tuttavia la poesia prende un sapore diverso: di qualcosa di cui ci vorremmo scordare. Ma poi a che valgono i giuramenti se l’amore è sempre eterno? Ci può essere amore senza libertà… e via dicendo?

  3. Una splendida trilogia che, nonostante il richiamo nel titolo e i nomi – “Ellade”, “Fidia” e “Asclepiade” – con la poesia greca classica, penso ai grandi lirici, monodici e corali, da Alceo e Saffo fino a Bacchilide e Pindaro – ha ben poco a che fare. Allora infatti quei poeti “credevano” alla luce dolce e violenta del Mediterraneo, “credevano” ai sogni, “credevano” al pane o alle focacce e al vino che degustavano. La loro poesia era la loro vita reale. Qui invece “i ricordi stesi ad asciugare” sono fili rarefatti della memoria e tutte e tre le liriche, in stringente unità semantica, ci parlano solo di cose intangibili e invisibili. Per questo la trilogia può anch’essa definirsi “greca”. Filosoficamente e metafisicamente greca. E ancora per questo – proprio per questo! – i versi sono così vivi e palpitanti!

  4. mi soffermo sul primo testo che mi sembra di una compiutezza esemplare. la notte coniugata col mare corrisponde ad una misura di tempo infinita nella quale tutto può accadere. e accade. ma è “l’oscuro” il regno magico, la realtà occulta che regala le emozioni più intense. e richiamare Kavafis è la chiave per permetterci di entrare nel luogo del sogno proibito. Un bel testo poetico, di immediata lettura e di profonda meditazione. complimenti a Luciano

  5. Tra gli elementi che emergono nella lettura giustapposta di questi testi molto intensi colpisce in modo particolare la differente localizzazione dell’io lirico, e la correlativa eco che risuona dentro il lettore.
    La prima voce è una sciarpa di seta, sembra provenire da un interno, caldo, suadente, ricco di promesse mantenute nella circolarità rassicurante di una consuetudine fortemente desiderata: il bello e il buono di piccoli smisurati gesti resi materia di costruzione preziosa nel dono di sé che non teme quel “leggere al buio” che l’amore suppone e pretende. E in questo lunghissimo mare, il desiderio di naufragio è potente, ma lucido e dolce.
    La seconda voce, al contrario, è una lama di ghiaccio nella notte, una corsa impietosa come sotto l’imperativo di uno sperone fitto in un fianco, un tumulto di volti (“di tutti, di molti”) che moltiplicano le immagini di sé avanti e indietro nel tempo non restituendo altro che “sguardi muti”: nessun “estraneo fervore” sarà mai in grado di dire al poeta chi è. E il ritorno – alla farsa diurna? – non può che lasciare un retrogusto d lacrime sconfitte.
    Se osiamo una sorta di chiasma, una arbitraria manipolazione sui tre testi, potremmo considerare l’ultimo, opportunamente scisso e collocato, come la rispettiva chiusa dei due precedenti, a compendio ma anche a disvelamento della misura del diametro che si apre tra essi: da una parte il voler insinuare che sarebbe maledettamente semplice la vita se solo potessimo credere a nostri occhi; dall’altra il non voler cedere a questa onirica lusinga. Ma sono davvero due, le voci? O è questa una dualità che ci appartiene?
    Grazie per questo regalo, Luciano!

  6. Io lascerei da parte i travestimenti dell’Ellade. Fidia? Asclepiade? Sul Web semplici nickname, pseudonimi o nomi di battaglia che dicono e non dicono e magari sviano.
    A me colpisce la violenza sensuale di questi due versi:

    Il tatto arroventato sui fianchi
    le labbra perfette all’umido corallo

    E più oltre la disperazione di questi altri due:

    Ma non si desta alcun bambino
    nell’angoscia del digiuno

    Il dialogo, se qui ci fosse, è troppo ellittico (e sarebbe ben poco greco!). C’è lo scheletro del dramma di una/due solitudine/i (perché questo s’intravvede). Non ricamiamoci “letteratura” sopra. Pensiamo al dramma.

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