Il paradosso dei poeti: migliori dei narratori ma ormai invisibili, di Paolo Di Stefano

distefano1Da “Il Corriere della Sera” (11 luglio 2011 )

«Il mondo ignora la poesia, ma la poesia sopravvive» era il titolo di un articolo di Luigi Baldacci, apparso su «Epoca» nel 1972: sotto quel titolo c’era la recensione del primo numero dell’ «Almanacco dello Specchio», che presentava i lavori in corso dei poeti italiani e stranieri. «Il mondo ignora la poesia, ma la poesia sopravvive», si potrebbe ripetere oggi, dopo quarant’anni. E si potrebbe ripetere anche quel che Marco Forti e Giuseppe Pontiggia scrivevano in quell’occasione: «in un mondo che, quando non la rifiuta, la ignora e la isola, la poesia è costretta a verificare il senso della propria sopravvivenza e la scopre nella verità del proprio linguaggio». Già allora si lamentava l’emarginazione della poesia: tant’è che Baldacci teneva a precisare che «esiste un’altra dimensione, rispetto a quella in cui si muove o si trascina la letteratura corrente (dei grandi consumi e dei grandi premi), ma senza, per questo, voler proporre facili aristocrazie o prospettive d’intangibile purezza».

Dunque, da allora non è cambiato niente? Altroché, da allora è cambiato moltissimo. Tanto per cominciare, una casa editrice come Mondadori inaugurava un «Almanacco» poetico e tanto per continuare un settimanale ne dava conto in una lunga recensione firmata da un grande critico letterario. Se poi si volesse andare avanti nel confronto, basterà ricordare che in quegli anni il «Corriere» poteva vantare la presenza contemporanea di firme come quelle di Montale, Zanzotto, Luzi, Giudici, Pasolini. Da trasecolare: anche nel senso che sembrano passati diversi secoli e non solo perché molti di quei Grandi non ci sono più (Giovanni Giudici è morto in maggio). E vale la pena aggiungere che Mondadori, Einaudi, Garzanti, Feltrinelli, Guanda, Scheiwiller stampavano raccolte poetiche in collane ad hoc, a ritmi tutt’altro che laschi e con risultati non trascurabili.

Che cosa è cambiato? Primo: le case editrici non credono più nella poesia, guardano quasi esclusivamente alla narrativa di genere. Secondo: i giornali non vogliono saperne né della poesia né dei poeti. Non parliamo degli altri media. Terzo, ma potrebbe essere il primo o il secondo punto: i lettori che ci credono sono una cittadella sempre meno popolata. L’ultimo poeta che ha avuto un successo televisivo e un’udienza di massa è Alda Merini, forte (anzi debole) della sua biografia, della povertà e dell’alone di follia, al punto da avere come populistico risarcimento post mortem i colossali funerali di Stato in Duomo che altri poeti, sicuramente maggiori di lei, non hanno avuto. Il caso Merini potrebbe insegnare parecchio: la poesia, nel senso di parola poetica, conta molto meno di una biografia ritenuta interessante. È così anche per la narrativa, del resto: per avere attenzione bisogna puntare su elementi extraletterari.

Oggi, un libro di poesia quando va bene vende 1.500/2.000 copie. A 3.000 è il successo. Non sono cifre competitive su cui un editore abbia voglia di rischiare. Ma rispetto alla narrativa, dove il rischio è maggiore e l’investimento va spesso incontro a bruttissime sorprese, il piccolo mercato poetico ha un vantaggio quasi paradossale: la sicurezza. La cautela impone basse tirature che di solito vanno esaurite e ristampate, perché i pochi lettori sono comunque fedeli. Certo, non sono prodotti per cui vanno pazzi i «megastore»: e se negli anni 70 i rifornimenti venivano richiesti con regolarità dai piccoli librai, oggi quelli che soffrono maggiormente del declino delle librerie indipendenti sono i cosiddetti titoli di catalogo, di cui quella poetica è una sezione autorevole. È una vecchia storia a cui si potrà rimediare quando verranno vietati gli «anabolizzanti» del mercato, cioè mai.

Un tempo, i poeti erano funzionari o consulenti editoriali di riferimento (Sereni, Bertolucci, Fortini, Porta, Sanguineti, Raboni…) e vantavano un prestigio dentro l’industria culturale, di cui non godono più. E non è questione di qualità: gli ottimi poeti oggi non mancano, ma hanno pochissimo seguito, a differenza dei tanti narratori mediocri. È quel che sottolinea il poeta e critico Fabio Pusterla, ticinese cinquantenne, tra le voci più importanti della sua generazione: «In Italia la vivacità creativa e il livello espressivo della poesia contemporanea mi paiono senz’altro migliori e più consolanti rispetto a quelli della prosa narrativa. Molto migliori, direi: sapendo che qualcuno adesso storcerà il naso. Allora: la poesia non conta nulla, eppure riesce a manifestarsi in autori e opere notevoli. La prosa è al centro di ogni attenzione, ma sono pochi o pochissimi i romanzi italiani capaci di rappresentare davvero qualcosa di importante per la nostra vita e per la nostra conoscenza del mondo. Vorrà pur dire qualcosa».

Vuol dire eccome. Il fatto è che la poesia punta essenzialmente sulla parola, su una parola non (necessariamente) comunicativa. La semplificazione dei linguaggi, l’abbassamento del livello stilistico hanno inciso sulle sorti di molta narrativa di ricerca: alla letteratura si chiede trasparenza, un’espressività ridotta al minimo, una riproduzione dell’oralità quotidiana, ma se ciò è tollerabile in ambito narrativo, chiederlo alla poesia significherebbe azzerarne la sua stessa essenza, che è la sfida della parola. «La scrittura poetica – ha scritto Cesare Viviani – è l’esperienza che, insieme a poche altre, può essere più minacciata da questa nuova forma mentis». Viviani alludeva a quella «comunicazione unificante» che permette a tutti noi di sentirci tecnici di tutto (e di niente): nulla di più lontano dalla irriducibilità del linguaggio della poesia. Va ricordato, d’altro canto, che per anni siamo stati schiacciati dall’autocompiacimento di un’oscurità impermeabile, più o meno giocosa, comunque fine a se stessa.

Già Montale si chiese, nel discorso che tenne di fronte all’Accademia di Stoccolma, se «potrà sopravvivere la poesia nell’universo delle comunicazioni di massa». La risposta era senza tentennamenti: «non c’è morte possibile per la poesia», ma Montale non negava che la civiltà dei consumi, la produzione di oggetti d’arte «da usarsi e da buttarsi via» comporta una democratizzazione delle arti che finisce fatalmente per distogliere il pubblico dai valori autentici e per relegare in periferia la poesia. Questione di mutamenti sociali che diventano mutamenti antropologici e conoscitivi. Le comunicazioni di massa – scriveva ancora Montale – tentano di «annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione», che sono i presupposti indispensabili alla lettura, e in particolare alla lettura della poesia. Eravamo nel 1975. Di lì a poco si sarebbero affacciati i primi reading, sentiti dai poeti come un rimedio inevitabile alla loro perdita di centralità. Viviani ricorda come «uno squalificante imbroglio-inganno» il primo festival di Castelporziano, quando alcuni poeti (tra cui lui) «andarono volentieri in pasto a una folla rissosa e sbandata»: il poeta non deve assecondare le richieste della società e tanto meno andare in cerca del pubblico o della pubblicità. Meglio rassegnarsi all’isolamento piuttosto che snaturarsi.

È anche vero però che se un tempo i poeti avevano una presenza scenica quasi naturale data da una investitura sociale (in Italia, il poeta di corte è una figura nata con la poesia stessa: figura che resiste ancora nella monarchia inglese), oggi la nuda parola rischia di soccombere per sempre di fronte alla comunicazione corrente, al mondo delle immagini e dello spettacolo. Ed è così che un cantautore può facilmente occupare, nell’immaginario collettivo, gli spazi del poeta: lasciando che la sua voce, come diceva Sanguineti, sopravviva sì, ma solo come rumore di fondo. Viviani parla di «confusione sociale». E anche un poeta «civile» (o leopardianamente «sentimentale» come preferisce definirsi), come Gianni D’Elia, cresciuto con il gruppo di «Officina», nel solco di Pasolini, Roversi e Fortini, ricorda come un equivoco clamoroso quello di Fernanda Pivano, che dichiarò Fabrizio De André il miglior poeta contemporaneo: «Provo molto rimpianto per quei grandi poeti che hanno avuto tanta generosità nei nostri confronti. Personalmente ho avuto la fortuna di incontrare personalità che volevano dialogare con i più giovani… La comunità poetica era attiva fino agli anni 80: si stabilivano belle trame di amicizie, potevi scrivere a Giudici, Caproni, Luzi, ed erano loro che proponevano i tuoi libri alle case editrici. Ancora oggi le nuove generazioni cercano un rapporto con le vecchie, ma noi non abbiamo nessun credito presso i grandi editori. Possiamo portare avanti piccole iniziative di periferia, che a volte hanno esiti insperati».

Un atto d’accusa che porta alle estreme conseguenze i presentimenti di Montale. Il mandato sociale del poeta sembra svaporato. Valerio Magrelli ricorda quando, nel 1980, a soli 23 anni, vide uscire il suo primo libro, Ora serrata retinae, da Feltrinelli. Un altro Magrelli esordiente, oggi, forse non troverebbe né un editore né i lettori di trent’anni fa. In un suo libretto, Che cos’è la poesia, ricordava l’osservazione di un ragazzo allergico ai libri: «La televisione non fa fatica, ti scorre sempre sotto gli occhi, invece con i libri gli occhi li devi muovere tu». In questa prospettiva, postilla Magrelli, «la poesia è un sollevamento pesi per l’occhio»: «Oggi c’è una enorme varietà e vivacità di tendenze poetiche, ma il vero problema, secondo me, è la potentissima forza d’urto del visuale: per le giovani generazioni sin dall’alfabetizzazione primaria gli interlocutori privilegiati sono la playstation, il computer, la televisione. La caduta del pubblico è dovuta soprattutto alla mancata abitudine alla lettura. Oggi, semmai, un giovane che legge si ferma per lo più a Moccia e ad altre forme anestetizzanti». Un lento e inesorabile declino dovuto, oltre che a un impoverimento dei codici linguistici, a una vera e propria mutazione cognitiva che rende la poesia un corpo estraneo ai meccanismi mentali prima ancora che sociali?

Non esageriamo. «Finora la poesia ha reagito come poteva, con le riviste telematiche e, trasformandosi in un’attività quasi performativa, con le letture pubbliche, radicatesi ovunque, in scuole, carceri, ospedali, teatri, con un riscontro a volte anche notevole. Come sosteneva Giudici, la poesia deve fare di necessità virtù, e le difficoltà del mercato le consentono una libertà totale che altre arti non hanno. La sua adattabilità, la sua versatilità, la capacità di guerriglia e di pervasione le permetteranno di resistere in un habitat che non è mai il suo». Il mondo la ignorerà, ma la poesia ci sarà.

 

Paolo Di Stefano ( Avola, 1956).

È cresciuto a Lugano, in Svizzera. Si è laureato in Filologia romanza con Cesare Segre a Pavia. Dopo una breve esperienza di ricerca universitaria, ha lavorato come giornalista al “Corriere del Ticino” e alla “Repubblica”, è stato responsabile delle pagine culturali del “Corriere della Sera”, di cui è ora inviato speciale. È stato editor presso la casa editrice Einaudi. Ha insegnato Cultura giornalistica alla facoltà di lettere dell’Università Statale di Milano. Ha scritto saggi filologici e critico-letterari, ha curato volumi miscellanei. È autore di racconti, reportage, inchieste, poesie e romanzi, alcuni dei quali tradotti in francese e tedesco. Nelle sue opere affronta temi come: la memoria e l’oblio, l’infanzia violata e la difficoltà di crescere, la famiglia e i rapporti generazionali, l’emigrazione, lo spaesamento, i rapporti Nord-Sud. È sposato e ha tre figli. Vive a Milano.

4 commenti
  1. Avatar di Paolo Ottaviani

    Io credo che della costitutiva marginalità e potenza della poesia occorrerebbe farsene una ragione. Gran parte della migliore poesia italiana e non solo, fin dalle origini, è stata scritta nelle prigioni o in esilio. Quando fu nelle corti fu, al pari della musica, per divertire o servire. E in quel servire sapeva comunicare ben altre cose. Per questo ha ragione Cesare Viviani: la “comunicazione unificante” ha ben poco a che fare con la “comunicazione” poetica. E “non c’è morte possibile per la poesia” anche perché essa non richiede ad alcuno né consensi né plausi. E sarebbe cosa giusta ricordare, in ogni situazione, che la poesia costa fatica, una terribile fatica, e non solo, come dice giustamente Magrelli, per gli occhi del corpo! Chi conosce quell’assillo sa anche che esso genera un’ineffabile ricompensa. Anche per questo la poesia ha sempre saputo “fare di necessità virtù”.

  2. Avatar di il Golem femmina

    Immaginavo di trovare più commenti ai tanti spunti critici dell’articolo, forse arriveranno con il tempo. La letteratura è anestetizzante perché il libro è ora più che mai un oggetto merce, un codice a barre cartaceo da dover smerciare con margini di guadagno immediati ed alti, ancor meglio se si possa averne tre in uno, come le trilogie dell’inutile patinato dimostrano bene nelle nostre luccicanti librerie cittadine. E’ la cultura tutta ad essere costretta a ripolarizzare la propria presenza?

  3. Avatar di almerighi

    Se non fai numeri, malgrado tu ne abbia, non esisti e se non esisti a meno che non ti faccia avanti tu, continuerai a non esistere. La poesia in quanto tale non può fare numeri, perché non è parola di massa, a meno che i mezzi di comunicazione non ti diano una mano, coem nel caso della Merini e in quello ancor più insensato di Oreglio. A questo punto l’alternativa, è ovvio, è darle canali alternativi: d’altra parte la poesia non è merce.

  4. Avatar di Lucio Mayoor Tosi

    Il libro è lo stadio: io scrivo tu leggi, e vediamo chi la spunta. Se ai poeti non interessa la sfida perché “il mondo la ignorerà, ma la poesia ci sarà”, e perché è “meglio rassegnarsi all’isolamento piuttosto che snaturarsi”, non sorprenda che ci si ritrovi soli a giocar nel proprio cortiletto coi pochi amici di sempre.
    Fateci caso: in poesia le domande vengono poste in modo affermativo, i versi che finiscono col punto di domanda sono rarissimi; nei libri non c’è mai un recapito dove mandare i propri commenti, riflessioni, improperi o complimenti ( non è poi così difficile gestire la corrispondenza relativa a qualche centinaio di copie vendute, no?). Scendere scendere, e smetterla con la falsa modestia, col sentirsi i più umili degli umili: non è credibile. E’ come se l’autore, pubblicando un libro, proponesse una partita mettendo però in chiaro che non ha intenzione di giocare, che lui la sua parte l’ha già fatta. Chi resta in campo? Interattività zero! tutto è demandato alla silenziosa interiorità degli assenti. Così è il libro, è ancora quel che è sempre stato: un monolite. Poi vabbè, se ne discute pubblicamente sui blog, si organizzano incontri con l’autore… ma la poesia è un fatto privato, tra te e me, in pubblico non si fa l’amore (purtroppo). Lasciamo il pubblico ai media. La notorietà è sempre sconveniente per la poesia (Merini insegna), manca di verità e qualora ce ne fosse s’annacquerebbe. Servono altre modalità.

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