“Amarsi male” di Antonio Debenedetti letto da Marco Onofrio

amarsi_male “Amarsi male” (2013, 145 pagg., Euro 16) viene riproposto da Marsilio a tre lustri dalla prima edizione, ma è un libro ancora attualissimo e, anzi, per certi versi emblematico dei giorni di crisi nera che stiamo attraversando. Segno evidente, questo, della capacità che ha lo scrittore autentico (e Antonio Debenedetti lo è) di anticipare il futuro, contattando le fibre nevralgiche del proprio tempo e registrandone – a mo’ di sismografo sensibilissimo – le misteriose palpitazioni. Lo scrittore diventa così un formidabile testimone storico, più efficace dello storiografo nel rivelare lo Zeitgeist, la temperie spirituale che caratterizza le oscurità altrimenti inafferrabili di un’epoca. La narrativa ha, tra le sue armi, questa potenzialità di svelamento del reale, soprattutto nella forma condensata del racconto breve, in cui Antonio Debenedetti eccelle da anni come maestro riconosciuto (almeno in ambito italiano). Il racconto breve è, tra le forme della narrativa, forse la più adatta – nella sua versatilità – a produrre lo spaccato fulminante di un’epoca storica, rivelandone uno o più aspetti, da interpretare come chiavi di accesso a quel mondo determinato. I riflessi di un mondo, infatti, devono essere abilmente catturati e concentrati in un frammento significativo: come nel prisma sfaccettato di una scheggia, dove splende, ancora intatta, la luce del cristallo originario.

Debenedetti è, nella fattispecie, un narratore di storie intensamente italiane, che nascono da un dialogo serrato, intessuto di rabdomantiche auscultazioni, con la realtà mutevole degli ambienti e dei tempi in cui, di volta in volta, finisce per rispecchiarsi l’anima eterna del nostro Paese, come distillandosi in inchiostro. Storie che trasudano realtà e che la infilzano con spietata, onesta consapevolezza – al di là di ogni precettistica, dunque senza vizi di prospettivismo –, analizzandone i portati e i risvolti e i detriti anche spiacevoli, attraverso la lente d’ingrandimento delle scienze umane. Oggetto della sua attenzione è, da anni, l’uomo contemporaneo e il paesaggio (storico, sociale, morale) in cui cerca faticosamente di orientarsi. “Amarsi male” è un libro sulla solitudine dell’individuo nella società “postmoderna”: la sua incomunicabilità, la sua disperazione, i suoi terrori dinanzi alle nuove, insorgenti malattie di massa (come l’AIDS, su cui si impernia il primo degli undici racconti). Dagli ambienti borghesi e metropolitani (Roma, prima di ogni altra città) che Debenedetti dipinge con il suo sguardo curioso e ribelle di testimone oggettivo – rigoroso ma non disumano, distaccato ma non anaffettivo –, emerge lo scenario niente affatto consolatorio di una vita che “non è vita”, trafitta da luci e semiluci inquietanti e, soprattutto, da strane ombre frastagliate, entro cui si sviluppano i percorsi scivolosi dei “mostri”, in abiti comuni, annidati dentro ognuno di noi. Debenedetti vuole dare voce, con puntigliosa, “scientifica” ostinazione, a tutte le sgradevolezze che si dibattono come serpenti entro le gabbie (oggi sempre meno dorate) del vivere civile, entro i margini della cosiddetta “normalità”.

I personaggi di Amarsi male catalizzano le energie di ogni racconto (che apre e racchiude un mondo a sé) in un fitto substrato di sospensioni, reticenze, negazioni. C’è un senso greve di chiusura: la vita come esilio di cui non si vede la fine, dove «c’è sempre qualcosa di inappagato», qualcosa «di freddo, di triste, di sostanzialmente irrisolto». Possono essere anziani «a braccetto della solitudine»; intellettuali egoisti e narcisi, malati di troppa intelligenza; inetti inconcludenti che vedono quel che non c’è e non vedono viceversa quel che andrebbe visto; donne con sintomi psicopatologici che inciampano da ferme, impegnate in una «difficile battaglia personale con le leggi dell’equilibrio e con il rollio del mondo»: tutti i personaggi di “Amarsi male” hanno dentro sé una stonatura, una disfunzione, una molla inceppata che ne blocca il meccanismo, la libertà, la fluidità vitale. E i sentimenti fra cui rimbalzano, con impacci pesanti e imbarazzi muti, sono scie di improvvise e brevi accensioni – come crepitii di fiammiferi – che brillano sottotraccia, illuminando in filigrana la crosta delle superfici: azioni che finiscono ancor prima di incominciare, entusiasmi fatui che cedono a feroci indifferenze, pensieri sommersi che non trovano voce, sogni ingenui, vaghe idealità. Ci si può d’improvviso accorgere, ad esempio, che la giovinezza è finita, che si incomincia a morire in un momento.

Debenedetti è abilissimo a registrare tutti i palpiti del “sottosuolo”: echi del silenzio, parole misteriose che arrivano per via telepatica, urli che restano sepolti nel cervello, fibre di odori e colori: anche l’anima dei più piccoli suoni, come chiavi che schiudono universi. Scrive per atomizzazione dei sentimenti, polverizzando con estrema precisione (in guisa di pittore pointilliste) la materia intima di cui si compongono. Ecco, ad esempio, come sfoglia le stratificazioni esistenziali di uno sguardo:

«Nell’espressione della donna (…) c’è qualcosa di sazio e di svogliato ma anche di umano, di generoso, di cordiale. Qualcosa che fa venire voglia di confidenze, di lunghe cene estive nelle vecchie trattorie con tavoli all’aperto, di quieti pomeriggi autunnali nel buio d’un cinematografo, di brevi viaggi turistico-culturali in sonnolente cittadine di provincia…»
Debenedetti
Riesce così a farci sentire la temperatura psicologica di uomini e donne con l’«anima in ghiaccio», tormentati da «ricordi senza gioia», bloccati e incerti tra solitudine, infelicità, malinconia, accidia, apatia, tristezza, angoscia, morbosità, sofferenza, astio, livore, perfidia, invidia, ipocondria, nevrastenia… e poi ancora, oltre ogni brivido di luce, il grigiore della prosa quotidiana e la dissolvenza fallimentare in cui ogni cosa precipita, inesorabilmente. E il colore del vuoto che emerge dalle profondità: l’“inesprimibile nulla” che racchiude la nostra esistenza e circonda di silenzio le parole con cui tentiamo di definirla. Il racconto breve raggiunge il suo scopo proprio quando, in pochissime frasi, riesce a catturare il pulviscolo di certe “suggestioni”. Non a caso Debenedetti comincia la sua carriera di scrittore con la poesia (Rifiuto d’obbedienza, Parenti, 1958): quando poi scrive in prosa (se si escludono le prime prove narrative) preferisce la pagina asciutta, l’essenzialità, la coerenza musicale delle frasi. Ecco perché procede, infaticabilmente, per riscritture continue, per spostamenti, per cancellazioni. L’arte dello scrittore consiste, pertanto, nella magia di dire tutto nel minor numero di parole, lasciando dei vuoti che il lettore, poi, avrà il compito di riempire.

“Amarsi male” rappresenta il risultato mirabile di questa tendenza, anche per la precisione chirurgica del linguaggio (da cui non si saprebbe togliere neppure una virgola, tanto è stato limato) e per il perfetto equilibro tra il racconto e lo stile che lo concretizza. È infatti uno dei libri migliori dell’intera opera narrativa di Debenedetti, forse quello più adatto a farci apprezzare lo scrittore come egli stesso ama definirsi: una “corda di violino”, che ha bisogno di restare tesa, finanche allo spasimo, per liberare la musica di cui è capace. E così, dalla corda di “Amarsi male” esce una musica quanto mai struggente e crudele, che lascerà – anche a distanza di quindici anni, ne siamo certi – un graffio indelebile nel cuore dei lettori.
(Marco Onofrio)

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  1. Avatar di Giorgina Busca Gernetti

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