
Le raccolte di Tadeusz Różewicz degli anni Cinquanta e Sessanta sono ancora segnate dal dramma della guerra, ma si liberano dell’aura tragica per affrontare più da vicino la dimensione dell’esistenza. Lo stesso Różewicz, in una riflessione sulla poesia, scrive: «La civiltà contemporanea è ridotta a un immondezzaio il cui vuoto morale è riempito con un’accozzaglia di informazioni, prodotti di consumo, stereotipi linguistici». La mancanza di un punto di riferimento, dell’etica e della bellezza del mondo, diventate sterco, vengono descritte con un linguaggio degenerato, caotico, con una struttura linguistica che racchiude la cacofonia del mondo, rendendone così la tragicità. Miłosz parla così del poeta della seconda generazione dell’Avanguardia: «Non conosco nella poesia europea del nostro secolo nulla di più penetrante: il suo respingere ritmo e metro, la metafora, indica una specie di orrore per la grande “arte” come se fosse qualche cosa di amorale, un voler essere completamente nudo di fronte alla sofferenza umana».
Un’altra delle colonne portanti della sua ricerca poetica riguarda il legame fa Różewicz e l’Avanguardia.
Nel 1947 Różewicz si trasferisce a Cracovia dove comincia gli studi di storia dell’arte all’Università Jagellonica ed entra in contatto con il gruppo della Neoavanguardia cracoviana, di cui fanno parte anche Tadeusz Kantor e Andrzej Wajda.
Różewicz si distingue da subito nella innovazione fondata su una sovversività, figlia dell’amore del poeta per la poesia e del suo odio per l’arte poetica intesa come l’insieme di convenzioni e norme codificate, così elaborando un nuovo tipo di verso del tutto originale. L’innovazione, che ricorda l’atteggiamento tipico delle avanguardie, sta nel rifiuto di conformarsi alle formule vigenti della versificazione. Różewicz riporta la lingua al livello zero, eliminando i confini tra poesia e non-poesia e dando vita a un’opera aperta, capace di ospitare al proprio interno ogni tipo di linguaggio.
Ma se il motto dell’Avanguardia è produrre poesia con il minimo delle parole e il massimo di contenuto, facendo un ampio uso di metafore, Różewicz ribalta anche questa strategia che risparmia le parole, eliminando, però, la metafora, il verso è libero, senza punteggiatura, si accostano elementi dissimili che offrono nuove possibilità interpretative. Lo stesso Różewicz su questo scrive: « … la metafora e l’immagine ritardano l’incontro fra il lettore e la materia essenziale del componimento poetico». E Różewicz descrive la metafora come “una zavorra di cui ci si deve liberare”.
Così come non si può parlare della poesia di Tadeusz Różewicz senza considerarne la poetica del silenzio grazie alla quale il poeta evita l’enunciazione verbale di concetti e categorie metafisiche e le fa risaltare «dicendo» il silenzio.
Różewicz è vicino al filosofo Wittgenstein nel dire che di fronte all’indicibilità delle questioni metafisiche si può rispondere solo con il silenzio. Il silenzio è anche l’azione che si sostituisce alla parola. Le parole dei poeti e le idee dei filosofi vengono degradate dal sistema mediatico e anche le diverse forme di espressione letteraria subiscono lo stesso abbassamento. A questo Różewicz preferisce il silenzio. E la frase semplice con una forma basata sul collage di testi colloquiali, pubblicitari, con inserimenti di citazioni letterarie e biografiche. Nel suo percorso letterario si distingue una prima fase catastrofista che si trasforma poi nella conciliazione con il mondo e l’accettazione delle condizioni del vivere.
Różewicz si tiene distante dai circoli letterari e si pone come osservatore esterno e distaccato della realtà politico-culturale. L’opera si presenta sempre più spoglia di immagini e subisce un processo di sintesi e di diminuzione delle parole. La metafora scompare per lasciare spazio a frasi sempre più elementari.
Bisogna citare, infine,il tema dei temi della poesia di Różewicz : dall’immondezzaio al riciclaggio. Il tema della grande discarica di concetti gettati alla rinfusa si evolve nel principio poetico del riciclaggio, poiché per Różewicz ogni prodotto è ambiguo e trasformabile in qualcos’altro. Così il poeta inserisce i frammenti di poesie passate in componimenti nuovi, coerentemente alle moderne tendenze ecologiste, dando a quei versi un nuovo significato. Ricomporre il mondo disgregato come fosse un puzzle, accostando frammenti del linguaggio contemporaneo diversi fra loro. Dare un nuovo senso a ciò che esiste. Il frammento evoca l’assenza della totalità, la frammentazione del mondo, smaschera tutti i linguaggi unificati, mentre il poeta, in questo mondo disgregato, ha “il ruolo di colui che mette a nudo il processo di corrosione del linguaggio”. Scrivendo Sempre un frammento, Różewicz dichiara di abbandonare il bellissimo territorio della poesia, distaccandosi dai canoni estetici tradizionali. In tale contesto, il cordone ombelicale che legava la poesia di Różewicz alla metafisica è stato tagliato, come ad esempio nel testo esemplare, che Paolo Statuti sceglie, e magnificamente traduce, La mia poesia non spiega niente:
La mia poesia non spiega niente
non chiarisce niente
non rinnega niente
non domina la totalità
non realizza speranze
non crea nuove regole del gioco
non partecipa al divertimento
ha un posto definito
che deve occupare
se non è un linguaggio esoterico
se non parla in modo originale
se non stupisce
forse così dev’essere
obbedisce solo alle proprie necessità
alle proprie possibilità
e ai propri limiti
perde contro se stessa
non occupa il posto di un’altra
e non può essere sostituita
è aperta a tutti priva di mistero
ha molti incarichi
che non è mai in grado di svolgere
Gino Rago
Due poesie di Tadeusz Różewicz
Traduzioni di Paolo Statuti
Le forme
Queste forme un tempo così ben disposte
docili sempre pronte a ricevere
la morta materia poetica
spaventate dal fuoco e dall’odore del sangue
si sono spezzate e disperse
si gettano sul loro creatore
lo lacerano e trascinano
per lunghe strade
nelle quali un tempo sfilarono
tutte le orchestre le scuole le processioni
la carne che ancora respira
piena di sangue
è il nutrimento
delle forme perfette
convergono così ermeticamente sulla preda
che perfino il silenzio non filtra
all’esterno
(dicembre 1956)
Che bello
Che bello Posso cogliere
i mirtilli nel bosco
pensavo
non c’è il bosco né i mirtilli.
Che bello Posso sdraiarmi
all’ombra di un albero
pensavo gli alberi
non danno più ombra.
Che bello Sono con te
il cuore batte così forte
pensavo l’uomo
non ha il cuore.
da Tadeusz Różewicz, Vedo meglio quando chiudo gli occhi (Poesie scelte e tradotte da Paolo Statuti), Ed. Progetto Cultura, Roma, 2019, pp.139, 12 euro
*
Tadeusz Różewicz (1921-2014)
Nasce in Polonia, a Radomsko. Pubblica le sue prime poesie nel 1938, ma il suo vero debutto poetico avviene nel 1947 con il volume Niepokój (Inquietudine), a cui seguono: Czerwona rękawiczka (Il guanto rosso, 1948), Pięć poematów (Cinque poemi, 1950), Czas, który idzie (Tempo che viene, 1951), Wiersze i obrazy (Versi e immagini, 1952), Równina (La pianura, 1954), Srebrny Kłos (La spiga d’argento), Uśmiechy (Sorrisi, 1955), Poemat otwarty (Poema aperto, 1956), Formy (Forme, 1958), Rozmowa z księciem (Colloquio con il principe, 1960), Głos anonima (Voce di anonimo, 1961), Zielona róża (La verde rosa, 1961), Twarz (Volto, 1964), Twarz trzecia (Volto terzo, 1968), Regio (1969), Duszyczka (Animula, 1977), Opowiadanie traumatyczne (Racconto traumatico, 1979), Na powierzchni poematu i w środku (Alla superficie del poema e all’interno, 1983), Płaskorzeźba (Bassorilievo, 1991), Zawsze fragment (Sempre frammento, 1996), Matka odchodzi (La madre se ne va, 1999), Nożyk profesora (Il coltellino del professore, 2001), Szara strefa (Zona grigia, 2002). Oltre che di opere in prosa e di sceneggiature cinematografiche,è autore anche di numerosi testi teatrali, alcuni dei quali rappresentati e tradotti anche in Italia, come Kartoteka (1960, Cartoteca, in “Sipario”, 208-9, 1963), Spaghetti i miecz (Gli spaghetti e le spade in “Conoscersi”, 54-5, 1967), Odejscie głodomora (Il congedo del digiunatore, in “Sipario”, 474, 1988). Różewicz è tradotto in oltre venti lingue. Tra le edizioni italiane si ricorda Colloquio con il principe, cura di Carlo Verdiani, Lo Specchio, Mondadori, 1964. Più recente il volume Il guanto rosso e altre poesie, a cura di P. Marchesani, trad. di C. Verdiani, Scheiwiller, 2003.




Ringrazio, con gratitudine infinita, Luciano Nota, sia per la ospitalità che ha voluto riservare al mio breve saggio sul mondo poetico di Tadeusz Różewicz, sia per la raffinatezza con cui ha saputo allestire il mio lavoro.
Tornando a Różewicz, per meglio conoscere la sua poiesis non si può fare a meno, secondo me, della lettura di almeno uno dei suoi saggi brevi sulla poesia. un saggio
Dai “Saggi brevi sulla poesia” di Tadeusz Różewicz, propongo Il suono e l’immagine nella poesia contemporanea, un saggio breve, ma dal quale emerge in tutta la sua forza la incandescenza della sua intelligenza poetica.
Gino Rago
Il suono e l’immagine nella poesia contemporanea
di Tadeusz Różewicz
(a cura di Gino Rago)
Siamo tutti d’accordo nel dire che “il divorzio tra la poesia lirica e la musica” sia un fatto accertato. Spero, tuttavia, che non pensiate che tagliando un’ala alla poesia io voglia costringerla a innalzarsi con il solo aiuto dell’altra ala, che è l’immagine. Vorrei condividere alcune esperienze che sono accadute mentre scrivevo delle poesie. Si tratta di considerazioni molto personali. Non cercherò quindi di condurre un’analisi della poesia contemporanea, bensì di trasmettere tutti i dubbi che mi ha offerto la mia pratica poetica. La musica – il suono e l’immagine – la metafora, non sembrano più delle ali che trasmettono la poesia dal suo autore al destinatario, ma una zavorra di cui ci si deve liberare affinché la poesia si innalzi e che sia pronta non per un ulteriore volo, ma per un’ulteriore vita.
Mi rendo conto che questa strada potrebbe portare la poesia al suicidio, o al silenzio, eppure credo che sia necessario correre questo rischio. Io stesso nella maggior parte delle poesie utilizzo l’immagine. La mia poesia si fonda dunque sull’elemento essenziale che è la metafora, l’immagine. La faccenda resta comunque complessa e vedo in tutta l’opera una lotta con l’immagine. È una continua aspirazione alla rinuncia della metafora-immagine. Seguendo le orme di Aristotele, i poeti e i critici affermano che la cosa più importante in poesia sia l’uso efficace delle metafore ed esso determina l’individualità e la genialità del poeta. Immaginiamo di aver eliminato l’immagine-metafora, cosa ci resta? La paura di avere tra le mani solo una manciata di parole – la prosa, l’opposto della poesia. Vorrei far notare che l’immagine resta lo scopo principale nella produzione dei poeti contemporanei. I poeti elaborano l’immagine ad uso del destinatario, attraverso l’immagine danno vita a una piccola rivelazione del mondo e dell’immaginazione. Sono come dei residui di rituali magici e di incantesimi. Sono gli sforzi della gente che crede nell’esistenza della poesia in abstracto. Torno ai miei saggi.
Non riporterò esempi, poiché potrebbero offuscare tutto il ragionamento. Nel mio lavoro le immagini sono spesso apparse come nascondigli per la materia poetica, così la vera materia si è impegnata a uscire da questi nascondigli. Ecco 25 un quesito, chiediamoci nuovamente se sia possibile che la poesia rinunci all’immagine e viva lo stesso nella sua ricchezza, illesa, e che esista come espressione. Parlando di questo ho in mente alcuni processi che si verificano nella mia poetica. Sono sempre tentato di farmi un torto, come poeta, distaccandomi da tutto ciò che dà al componimento la bellezza, la luce, il bello. Apparentemente sembra che la poesia si sia rivolta contro sé stessa. Non so se sia possibile una rinuncia all’immagine da parte della poesia, e sono lontano dall’imporre a chiunque questo genere di pensieri, eppure ritento in continuazione e attacco l’immagine da tutti i fronti, sperando di toglierla come elemento decorativo e superfluo. A mio parere la lirica moderna sarebbe il risultato dello scontro tra i fenomeni e i sentimenti, tra i sentimenti e le cose.
L’immagine in tal caso sarebbe d’aiuto, ma non necessaria. L’immagine che viene ampliata eccessivamente dal poeta si nutre di un’immaginazione artificiale, inventata, distrugge il germe e il seme della poesia lirica. Infine danneggia sé stessa, togliendo l’immaginazione al dramma che si verifica all’interno della poesia . La poesia non si fa tramite il rimando di immagini, esse ne rappresentano lo strato più superficiale. Più la veste esteriore di una poesia è complessa, ornamentale e sorprendente, peggio è per il momento lirico che spesso non riesce a farsi strada fra i decori artificiosi aggiunti dai poeti. In una certa fase risulta che tutta la nostra esperienza poetica e la capacità di costruire immagini non abbiano senso, benché esse esigano da noi una grande cultura, tanta laboriosità, originalità e altre caratteristiche tanto apprezzate dai critici.
Ritengo dunque che il ruolo della metafora “come guida più eccellente e rapida” tra autore e destinatario sia molto problematico. In pratica il poeta, con l’aiuto dell’immagine, è come se illustrasse il verso, egli illustra la poesia. Intanto ciò che accade nel mondo dei sentimenti non vuole più mostrarsi attraverso le metafore più belle e riuscite, ma vuole apparire da sé. Vuole mostrarsi all’improvviso e nella sua univocità, vuole darsi al lettore. La metafora e l’immagine non accelerano, bensì ritardano l’incontro tra il lettore e la materia vera e propria dell’opera poetica.
A mio parere quell’opera dovrebbe correre dal suo autore al destinatario liberamente, non dovrebbe trattenersi alle belle e affascinanti (dal punto di vista estetico) fermate stilistiche. Questa è la differenza fondamentale tra i miei saggi, la mia pratica poetica e tra ciò che i poeti dell’Avanguardia hanno fatto nella poesia polacca.
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Per una più nitida e puntuale contestualizzazione di gusto estetico e stile della sua poiesis, è indispensabile ricordare che l’Italia ha avuto un ruolo importante nella vita e nell’opera letteraria di Tadeusz Różewicz. Basti pensare ai suoi viaggi, alle sue poesie dedicate a luoghi e persone, ai versi sconvolgenti in morte di Pasolini o del papa Luciani, alle poesie ispirate a Dante, nonché ad alcune importanti occasioni di carriera, come il volume mondadoriano del 1964 o il primo premio Librex Montale International ricevuto dal poeta a Genova, nel 2005.
Tuttavia, il “tema italiano” in Różewicz va considerato sempre con una valenza “doppia”:
da una parte, con le sue bellezze naturali e artistiche, l’Italia sembrerebbe di per sé rappresentare un contraltare della bruttezza e inumanità del mondo contemporaneo
(né poteva essere altrimenti per un laureato in storia dell’arte che per tutta la vita ha idealmente dialogato con gli artisti e le loro opere, con le città d’arte e i loro musei);
dall’altra, proprio per lo stesso motivo, risulta un potentissimo memento mori:
“siamo a Venezia insieme / non ci posso credere / baciami / Lei è polacco / brindiamo / sono solo al mondo” (Et in Arcadia ego).
Fra le sue opere “italiane” due in particolare: il poema Et in Arcadia ego e il citato Una morte tra vecchie decorazioni, entrambi frutto di un soggiorno di tre mesi nella penisola nel 1960, colpiscono per la loro originalità rispetto alla tradizionale visione dell’Italia come locus amoenus.
Silvano De Fanti scrive: “il mito dell’Italia è il punto di partenza per la critica różewicziana della cultura europea contemporanea” (introduzione a Le parole sgomente, p. 24).
Un’Arcadia, un paradiso terrestre, ma dove si annidano morte e sfacelo.
Per chi oggi cammina, per certe strade di Roma, non può fare a meno di colpire
l’ attualità di quanto scriveva quella volta il poeta:
“Ho cercato tracce di segni epifanici, e invece ho trovato tracce di un grande letamaio, il mescolamento selvaggio tra cultura e turismo” (citazione da: S. De Fanti, introduzione a Le parole sgomente).
Le suggestioni di Dante Alighieri sulla poesia różewicziana si colgono e si avvertono in tutta la loro portata in questi versi:
“Lasciate ogni speranza / Voi ch’entrate // Coraggio! Oltre questa porta non c’è l’inferno // L’inferno è stato smontato / dai teologi / e dagli psicologi del profondo // è stato trasformato in allegoria / per motivi umanitari / e pedagogici / Coraggio! / Oltre questa porta comincia / di nuovo lo stesso […] Coraggio! / Oltre questa porta non c’è storia / né bene né poesia // E cosa ci sarà / Sconosciuto signore? / Ci saranno pietre / Una pietra / Su una pietra / Su una pietra una pietra / E su quella pietra / Ancora una / pietra”.
Versi che, oltre che l’incipit del III canto dell’Inferno, paradossalmente ricordano da vicino forse anche il Calvino delle Città invisibili: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme”.
Ma questo è un altro discorso….
(a cura di gino rago)
Różewicz va considerato come l’autore di un’ opera acutamente rappresentativa e sintomatica della condizione del nostro tempo, attenta e intrecciata a eventi e figure della cultura letteraria, filosofica e iconografica non solo di Polonia, ma anche europea, e mondiale, compresa quella italiana”.
Così come non si può fare a meno, per meglio contestualizzare il poeta polacco nei suoi rapporti stretti con la letteratura e l’arte italiane, ricordare una poesia breve per Alberto Burri.
Rozewicz apprezzava l’opera pittorica di Burri, apprezzava l’informale materico di Alberto Burri il quale secondo Tadeusz Różewicz creava con il materiale bruto «immondezzai organizzati»:
affamato nel campo di lavoro
componeva con i rifiuti
il mondo nuovo
tra le morti e i rifiuti
creò la bellezza
diede prova di una nuova interezza.
Anche per il poeta polacco i rifiuti e i letamai sono diventati illustrazione e simbolo della crisi della cultura nella seconda metà del XX secolo:
vicino al mio cuore
l’immondezzaio metropolitano
il poeta degli immondezzai è vicino alla verità
più del poeta delle nuvole
gli immondezzai pieni di vita
di sorprese.
Różewicz si rende conto che l’arte si trova in un momento di passaggio, lo fa con la consueta sfumatura ironica:
Un’epoca si sta concludendo
inizia
un’epoca nuova e a volte gli artisti si sentono
in dovere
di creare un’opera degna
dei nostri grandi straordinari
tempi
invece pian piano vediamo
che un’epoca si è conclusa
un’altra è iniziata
alcuni se ne sono accorti
altri no .
Altri ancora «sono appesi immobili ormai quasi belli», già classicizzati seppur giovani (Afro, Spazzapan, Music, Consagra, Corpora) Uno dei segnali più inquietanti del trapasso da un’epoca all’altra? Nel 1957 il poeta aveva visto a Parigi «l’albero realistico» di Mondrian che
“si faceva astratto
moriva e partoriva
una proposta nuova.”
Ora, solo cinque anni dopo, in America la scimpanzè Betsy dipinge quadri tachistes e ne ha venduto uno per 350.000 franchi… «Das Spiel mit den Möglichkeiten»: l’espressione artistica di oggi – inizio anni 60 – tende a essere un gioco delle possibilità, un gioco – sembra questo il giudizio di Różewicz – con cui e nel quale l’artista cerca ancora di stabilire delle regole. L’unica vera consapevolezza pare essere un diverso atteggiamento etico: non più “partecipante”, ma “testimone”. E la parte conclusiva del poema, intitolato “Diritti e doveri” è anch’essa ricca di topoi intertestuali iconografici, sembra esserne l’esemplificazione poetica attraverso la parafrasi dei primi versi del poema di W.H. Auden “Musée des Beaux Arts”, che a sua volta descrive il dipinto di Brueghel “La caduta di Icaro”.
Un tempo, nel vedere Icaro in caduta, il poeta avrebbe gridato a tutti gli astanti di guardare, di assistere al dramma del figlio del sogno in atto di precipitare:
“ma adesso adesso non so
so che l’aratore deve arare la terra
il pastore custodire le greggi
l’avventura di Icaro non è la loro avventura
deve andare a finire così
E non c’è nulla
di sconvolgente nel fatto
che la bella nave continui a navigare
verso il porto stabilito”
È il tema della fine della poesia che ritorna in modo ossessivo nella poesia di Rozewicz. In Et in Arcadio Ego (1950) scrive:
il musicante ha chiuso il violino
nella custodia
si è seduto al tavolino
i camerieri ripiegano le tovaglie
le vele
La festa è finita.
I camerieri se ne vanno, ripiegano le tovaglie…
Siamo alla fine di un’epoca
il musicista scompare così com’è scomparso il poeta …
È questa profonda consapevolezza che fa la grandezza della poesia di Tadeusz Różewicz
Pochi poeti hanno avuto così netta la percezione della fine di un’epoca, e, con essa, della fine di tutte le forme d’arte, compresa quella considerata la più alta, la poesia, come Różewicz .
(Gino Rago)
Grazie. Penso alla poesia di Tadeusz Rózewicz e sento la voce dalla realtà la più dura vissuta appieno col l’orrore del sangue e dell’ingiustizia. Trovo in questo poeta l’assenza di astrazione da dove si crea la fantasia dell’opera. Soprattutto per la poesia Non c’è incanto. Non c’è musica. Solo il presente. Sylvie Velarde
Silvia Marina Velarde