La difesa della dignità personale nella sua interezza ha ispirato la predicazione di Cristo e il Prologo del vangelo di Giovanni si impegna -oltre le dimensioni trascendenti dello Spirito- a coinvolgere i lettori ellenici, intrisi di pragmatico raziocinio. Altresì, l’incremento delle risorse interiori di un cittadino nel qui e nell’ora del suo esistere assoda le finalità dell’educazione greca, la paideia. Molto presto però, entrambe queste vie di comune interesse per l’individuo si autodenunciano inconciliabili fra i loro uditori e adepti. Sinesio di Cirene (370-413 a.C.) ne è fin troppo consapevole da soffrirne e in una lettera al fratello scrive che, ottenuta la veste episcopale, non potrà fingere di abbracciare imposizioni che lo rendono ancora incerto. La sua brillantezza intellettuale impregnata di neoplatonismo ascetico e incline all’estasi è tersa di ragionamenti consequenziali: un dogma non può ottenebrare né svellere la seduzione di una grecità radiosa che ad Alessandria ha accolto Ipazia, l’interprete più esperta della filosofia ellenica. All’indomani dei conflitti fra sudditi di Roma e “barbari”, Sinesio diffida sempre degli aspetti deteriori della nascente cultura cristiana che, nei suoi eccessi di rigido fanatismo, manifesta la propria difficoltà a imporsi sulla civiltà pagana. Eletto vescovo di Tolemaide e prima ancora di battezzarsi nel 410 non smette di aderire ai valori della tradizione ellenica. Difensore davanti all’imperatore Arcadio delle genti africane oppresse dagli oneri fiscali e dalle orde berbere non si arrende e, in una sintesi sincretica, rielabora i fenomeni positivi tramite disarmonie storico-biografiche. Interprete di un’età di passaggio, con l’Elogio della calvizie Sinesio smentisce l’esercizio di una dialettica finalizzata a esibire l’acutezza tecnica del retore e sposta invece l’urgenza reazionaria verso una privazione dermica mal tollerata. Già suggerito da Mario Luzi nel Libro di Ipazia, il tratto di questa figura episcopale volge la sua povertà in guadagno. La tristezza e lo sconcerto sorti per la perdita dei capelli (paragonata alle disfatte belliche nel capitolo di apertura) edificano in un’ansia costruttiva e crescente la riconciliazione tra sé stesso e la propria calvizie fino alla stravaganza: Dione di Prusa con il suo Elogio della chioma è riuscito a svergognare i pelati? Ebbene, Sinesio sminuirà i capelluti e l’opinione generale sui danni perpetrati dal diradamento. Ai suoi desideri fa perdere la propensione di ingaggiare una lotta impari con l’irreversibilità degli eventi. Preferisce accordare all’impossibile corsa contro tempo il suo consenso, a patto che l’irrimediabile assediato da un’enfasi tagliente riveli i suoi aspetti più segreti e giocosi. Quasi in un aforisma, scrive proverbiale:
“…Se è vero come è vero, che l’uomo è fra tutte le creature la più divina, fra gli uomini che hanno avuto la fortuna di perdere i capelli, l’individuo completamente calvo è in assoluto l’essere più divino sulla terra.”
Scavalcate debolezze e forzature facili da cogliere, l’atteggiamento anticonvenzionale che permea tutto l’encomio diserta il traguardo di sfida bonaria. Si è in grado di sottrarsi all’attuale follia collettiva del dogmatismo estetico che impone rigidi canoni di bellezza o allo smacco più grave dei postumi fisici e psicologici dell’alopecia chemioterapica? Sinesio invita a emanciparsi, cioè essere capaci di un pensiero originale e confortante che, presi a testate preconcetti o etichette, possa anche lenire il disagio di non essere accettati dal branco. Nel valicare i limiti di encomio paradossale l’Elogio della calvizie sconfina nel genere del discorso consolatorio senza però candidarsi in una categoria letteraria specifica perché intende alterarne prospettive e scopi già in partenza. Sinesio si consola come fa Cicerone alla morte della figlia Tullia o, in tono più implicito, Seneca per il suo esilio. La verve persuasiva che supera e schiaccia le acrobazie della dialettica reca quindi al testo un afflato di lamento funebre. Con i piedi del cuore sulle parole, Sinesio fa dei calvi una genia divina. Le “teste levigate e lisce come uova preistoriche” di Marquez in Cent’anni di solitudine sono così assimilate a pianeti o astri e alla rotondità geometrica dei corpi celesti; prive di istintività alloggiano il Logos vegliato dai saggi che, quaggiù, testimoniano il Verbo giovanneo dentro l’agape unigenito delle loro zucche. L’apoteosi della calvizie apprezza chi si procura questo privilegio elitario e innato con forbici e rasoi sebbene ancora non abbia compiuto l’autentico cammino di perfezione per ricongiungersi alla parte superna della persona. Per Sinesio, tali discepoli aspirano entusiasti al simposio celeste così da voler sottintendere le diatribe frequenti nel tête-à-tête fra Cristianesimo e mondo pagano. Investire sul deficit capillifero non cede agli intrugli stregoneschi né alla cosmesi del mito dell’eterna giovinezza nella sfera ovidiana, dove acido ialuronico e botulino assieme alla tossicità delle punture al silicone diverrebbero una tricologia anacronistica. Si è consci poi che il sacro gong di un bonzo del Tibet mai invierà colombe a pacificare l’industria farmaceutica e le lozioni all’eucalipto della naturopatia, priva dei parrucchini sfrattati dai trapianti milionari di Berlusconi che, con mostruosità omeopatica, li accoda alle dentiere promesse in campagna elettorale quasi fossero ramoscelli d’olivo. A Sinesio va allora abbuonato l’eccesso di ottimismo, considerate le titubanze del suo ministero presbiteriale: come avrebbe concepito un vescovo dei primi secoli le valenze della calvizie ottenuta ad hoc? Un cranio rapato alla Klaus Kinski in Nosferatu assume oggi connotati diversi dai propositi dotti di Sinesio ma resta utile a rifondare la singolarità e l’habitus di un autore. Pregi e difetti non costituiscono mai categorie ovvie o rigide e ciò vale pure per consuetudini e usanze. Costumi che si ripetono o restano invariati nelle epoche vengono valutati in modo eterogeneo a seconda dei contesti che li ospitano. Ciascun ambito cela un Giano bifronte: se, senza pudore, “ogni scarafaggio è bello a mamma sua”, la chitarra di Pino Daniele dovrebbe suonarle di santa ragione alle acconciature di Jean Louis David e al fallimento della Cesare Ragazzi Company. Riaccendere siparietti a telecamere spente, pardon a capelli caduti, fluidifica la “Versione di Sinesio” soprattutto quando una catarsi burlona senza lacca né permanenti reinnesta sui live di Barbara d’Urso il “pippo-baudismo” della bionda Sandra Milo con quell’urlo infernale “Ciro!Cirooo!”.
Michele Rossitti