E’ il libro postumo di questo narratore calabrese che nel 2008 perse la vita in un incidente. Trentatre pagine di Emanuele Trevi introducono alla lettura del testo. Trevi parla da amico, esalta l’amico e ne traccia un profilo affascinante, dando, tra l’altro, una chiave di lettura di Per il tuo bene caricata di troppe qualità che però non sono riscontrabili, almeno non lo sono nella maniera in cui vengono anticipate. Infatti è come se ci fosse un qualcosa di inesploso, di cautamente rimasto in disparte e proprio perché, forse, “la coscienza racconta” e non le vicende nel loro dipanarsi. C’è anche qualcosa di troppo visto nelle varie scene e nelle caratteristiche dei personaggi, a cominciare dal padre di Gilberto e a finire ad Angela, la moglie di Bruno. Per carità, non è un dilagare di luoghi comuni, ma tutto l’insieme sa troppo di ottocento. Il ragazzo ricco e il povero, la campagna e la città, l’incomprensione tra padre e figlio (tra l’altro non giustificata mai e mai chiarita), le descrizioni minute fino all’esasperazione, la ragazza che vuole sposarsi per i soldi e la fortuna di Bruno, anche se alla fine vedremo che non è tutta frutto del suo lavoro, ma di un inganno. Da uno scrittore giovane e ricco di mille risorse, geniale per come è raccontato da Trevi, interessato alla narrativa con una passione che ha quasi dell’inverosimile, ci saremmo aspettati innanzi tutto un linguaggio che graffia, che fa sanguinare le parole e assegnare ai protagonisti e alle vicende un ruolo fuori dalle consuetudini. Invece tutto sembra predisposto e tutto fila liscio verso una conclusione troppo romanzesca che toglie alle pagine il grondare di sensi che invece Trevi vi ha letto. E’ vero, i luoghi di cui si parla non vengono nominati, ma le “cartoline” sono visibili, specie quelle della periferia, con gli stereotipi pasoliniani. Insomma, non c’è freschezza narrativa, non c’è fluidità, non ci sono quei lieviti che avrebbero potuto dare ritmo al romanzo. Si va avanti come se fossimo dietro una processione, lentamente, e non nel senso kunderiano, ma come se fossimo dinanzi a una sorta di documenti che devono illustrare realisticamente l’affresco di un mondo che ha connotazioni alla Saverio Strati però proiettato nello psicologismo americano. La miscela non è riuscita e perciò si avverte, leggendo, una noia che si trascina senza quasi interruzione forse per l’ostinazione dell’autore a voler restare stretto alla storia “sine ullis ornamentis”, come diceva Cicerone. Ma gli annalisti sono una cosa e i romanzieri un’altra e ovviamente il modo di scrivere di Carbone non è l’applicazione dell’impassibilità predicata da Flaubert. L’impressione è che Bruno, Gilberto, Andrea, Angela, l’infermiera polacca, il medico, le albe, le attese per prendere Andrea a scuola, il luna park, gli scorci del paese, l’appartamentino in disordine, i viali, la casa di cura dove vive la madre di Bruno e tutto il resto, siano stati presi da un album ingiallito di fotografie dalle quali Carbone non è riuscito a trarre movimento, vita. Un romanzo è sempre un tuffo nella vita, qui invece il tuffo è nelle sequenze prevedibili che sono dettagliate con un automatismo privo di emozionalità tanto da far pensare ai processi mentali di un autistico. Per dirla tutta, è come se Rocco Carbone avesse voluto portarci dentro un mondo neutro, privo di identità, con la pretesa che l’anonimato potesse e dovesse dare la dimensione di un universale che è sfumato purtroppo nella genericità. Lo stile da resoconto si è incagliato in un dettato arido senza dubbio “sine mendacio” e “perciò gli storici, come ricorda Benedetto Croce, sono “non exornatores sed tantum modo narratores”. Il fatto è che Carbone non voleva dare prova d’essere uno storico, e così gli esiti sono stati altri e lontani da quelli progettati.
Dante Maffia