
Le percezioni sensoriali sono amplificate, iperboliche e potenziate: un battito, una pulsazione, uno scatto. È questo l’imprinting de Il Regno Animale (Edizioni dell’Ippogrifo, 2024), mondo che seziona al microscopio gli insetti, le reazioni degli uomini come insetti, che mette sotto la lente il bestiario umano intriso di istinto. Animali sono pure le dinamiche relazionali, gli sviluppi, le pulsioni fisiche dettate dalla paura, dall’adrenalina o dalla lotta per il comando.
Un lungo racconto, che accelera sul filo della tensione, segue l’azione criminale, con regolamenti di conti, vite al limite sconvolte dall’efferatezza e dalla droga e naturalmente una storia d’amore, capovolta però nell’amarezza.
È continua la ricorrenza della caratterizzazione comportamentale, etologica dei protagonisti – Nina, Totò, Luis, il Nero – così come di tutte le altre comparse: donne che si rigirano nel letto assonnate come pesci in un bicchiere, uomini come ramarri, orsi o tigri, un night club descritto come una giungla educata o un acquario.
Sopra le altre, l’ossessiva metafora che ritorna è però quella della farfalla, al punto da dare il nome al locale notturno che funge da proscenio della prima parte, l’impero di Nina, il Butterfly. Non tutti i lepidotteri però sono uguali. Ci sono alcune farfalle, estatiche nei colori, leggere ed evanescenti che portano gioia in superficie, come le donne dell’est che prestano i propri servizi nel locale. E poi ci sono le falene, con le loro spesse ali scure, con l’incanto dell’invisibilità apparente, nella loro cupa natura di umidità e d’ombra, come Nina distaccata e sovrana sopra gli altri esseri; come appare a tratti la Santa nella Baia degli africani; come sul finire Totò si rivelerà falena ricoperto da falene.
Eppure, nulla rimane della metamorfosi kafkiana, neppure del sarcasmo feroce de Lo scarafaggio di McEwan, o di una ironica favola politica orwelliana. La lente animale è punto di osservazione dei personaggi che abitano questo racconto dal ritmo serrato e cinematografico, è ciò che permette la trasfigurazione della realtà attraverso una scrittura densa in cui pesa ogni parola.
Il talento di cui l’autore dà prova è quello di catturare il dettaglio, talento proprio della grande fotografia alla Sorrentino, del grande schermo che racconta bande criminali e camorristi, ma anche cifra propria dell’istantanea poetica; alcune scene volano veloci sulla rotazione di uno pneumatico, ingrandiscono su un calcio di pistola o su un vetro rotto, catturano il bianco d’occhi sgranati nel buio, o l’alterazione cromatica della luce dalla notte al giorno, dal giorno alla notte. Non si fatica a immaginare il tutto dalla poltrona rossa di un cinema. Al termine del libro si incontra pure una soundtrack (Pino Daniele, naturale, ma anche Mina, David Bowie, Bob Dylan e Bruno Lauzi), insomma la sceneggiatura è completa. Mastica e sputa, da una parte il miele dall’altra la cera, anche nell’arpeggio di De Andrè è Nina a volare, non con ali di falena ma tra le corde dell’altalena.
Riesce un effetto di tollerabilità per contrasto nel racconto della violenza, dello squallore e della sconcezza, dal momento che quel mondo insopportabile e repellente viene ovattato dalla scrittura, e ciò accade perché a descrivere la scena è pur sempre un poeta (“La notte funziona come un’illusione di eternità. A sentirla sembra avere una voce propria, un sentimento confortevole che non finisce”, l’attacco del romanzo è semplicemente lirico), anche se non mancano le espressioni gergali e i dialettismi dei guaglioni. Risulta visionaria ogni descrizione, perfino la più irrilevante, il fraseggio di tutto il romanzo è incredibile e risulta più accattivante dei dialoghi. La voce che racconta è imbevuta della verità del degrado sociale e delinquenziale, perché l’occhio ha osservato acutamente, la penna ha masticato la parola.
Diversi scenari fanno da cornice alla narrazione: il mondo della Voliera della prima parte; l’escalation di violenza che anima i ragazzi truci degli Scavi a seguire; il folto tribale e allucinatorio del terzo movimento Foresta vicino alla Baia Verde; infine Segreta, racconto di reclusione nel formicaio del carcere, fortezza del Masso, epilogo di tradimento e di esilio. Si apprende così, nel finale, che il silenzio può essere esercizio del potere e che nel regno animale il cambio del comando è il trionfo della decomposizione: una muta di pelle.
Lo sciabordio di Acque in chiusura, quasi di lacustrità primordiale popolata di organismi minimi, dissolve e annienta tutto, scolora i paesaggi ora naturali ora umani di fatiscenza, nella risacca ciclica e perciò spietata del tempo del mondo.
Il Regno Animale è insomma una sorpresa e premia il coraggioso e riuscito moto di rivoluzione dell’editore dell’Ippogrifo. È un romanzo assai diverso dagli altri titoli della collana, ma che ne conferma la duplice missione, raccontare una terra e sublimare la scrittura, in qualunque forma essa approdi sulla carta.
Maria Grazia Trivigno
“Nello sfogo di chiarore che precede il buio, c’è il vuoto di cui è fatto il tempo, dove nessuno è mai nato e nessuno muore, dove scompare il sangue delle cose.”



