La riscoperta di Curzio Malaparte in un saggio di Lucrezia Ercoli, letto da Marco Onofrio

copChi è Curzio Malaparte? Parte da qui la giovane studiosa Lucrezia Ercoli, che gli dedica un saggio lucido e penetrante, ancorché breve (Philosophe Malgré Soi. Curzio Malaparte e il suo doppio, Roma, EdiLet, 2011). Per comprendere la figura così prismatica e scomoda di questo intellettuale, in cui paiono incarnarsi “tutte le virtù e i vizi degli italiani”, occorre anzitutto penetrare la mitologia del pregiudizio, che sminuisce Malaparte come un inaffidabile flâneur, un voltagabbana, un camaleonte, un opportunista. “Fascista” prima, “comunista” poi: chi era? e da che parte stava?

«Eppure… eppure nella ricostruzione biografica resta un cono d’ombra. La facile dicotomia tra fazioni opposte lascia nella dimenticanza la domanda iniziale. Le definizioni, giuste o sbagliate che siano, sviano dal quesito originario, ne occultano la radicalità.

L’essenza dell’uomo-Malaparte è altrove, dove i biografi non sono andati a cercare. Bisogna tentare di abitare i frammenti e le macerie della sua scrittura per ritrovare la zona impensata si tutte le spiegazioni precedenti.

Liberati dalla maschera del personaggio, torniamo a leggere le sue opere liberi da pregiudizi».

Che è poi la via maestra per studiare qualunque autore: tornare alla “lettera” dei testi, partire sempre da lì. Lucrezia Ercoli elegge a paradigma gnoseologico la villa che Malaparte si costruì a Capri, su progetto di Adalberto Libera. «Il mio ritratto di pietra», la definisce Malaparte in una lettera. Abbarbicata come un granchio su uno sperone arduo di roccia, a Punta Massello. Scomoda ed estrema; eppure ospitale, aperta, luminosa. Ambigua e inafferrabile, ma a suo modo chiarissima. Come il pensiero di un filosofo. Perché questo è, Malaparte: philosophe malgré soi. Così è – peraltro – ogni autore: che, quando autentico, implica un pensiero a forma di mondo, un nuovo e originale modo di interpretare le cose, la vita, l’esistenza. Più che i vezzi di uno snob, che molti gli attribuiscono, Malaparte ha l’insostenibile leggerezza di un dandy: incapace di aderire a qualcosa in maniera duratura o definitiva. Spirito errante in senso niciano: compenetrato nella gioia tragica del mutamento, dell’impermanenza, della transitorietà.

Pensatore emblematico, prisma attraverso cui passano tutte le contraddizioni del ‘900, Malaparte è consapevole testimone di un mondo esploso in frantumi: coglie ovunque i riflessi di uno stesso crepuscolo. È tramontata la “metafisica” delle Grandi Narrazioni: non è più sostenibile ormai una visione ampia, sicura e unitaria dell’esistenza. Le magnifiche sorti e progressive hanno svelato il loro volto funereo. L’ecatombe della prima guerra mondiale ha seminato di cadaveri il mondo, sgretolando le saldezze della Ragione. Lukàcs dichiara che non è più possibile “narrare” da un centro ordinato, ma soltanto “descrivere” frammenti senza centro. Così fa Malaparte.

«La sua penna è un sismografo. Riesce a registrare le minime variazioni che la Storia Universale ha nella vita dei singoli uomini, senza volerle conciliare in una morale consolatoria».

Le favole sono finite:

«l’uomo “è destinato a vivere, a morire, e basta”; non può “servire nessuna chiesa”, non può credere in alcuna promessa, non può pensarsi iscritto in un destino privilegiato all’interno della natura».

È un uomo del “non più” e del “non ancora”: si dibatte fra dubbi che demoliscono come martelli, e nostalgie sottili dell’unità perduta. Ma la presa di coscienza del dramma non è paralizzante: Malaparte è un campione del “nichilismo attivo”. Il nulla inquieta, però affranca. L’angoscia può dunque trasformarsi in liberazione, in ebbrezza del nuovo. Fa paura ma è bello, anche, sentirsi soli, senza dio, senza più regole date, al di là del bene e del male, pronti ad attraversare con gioia il faticoso deserto della libertà. Meglio rifare tutto, che tutto ereditare come immutabile acquisizione. La palla, così, ritorna all’individuo, nuovo motore del mondo. Non esistono leggi esterne artificiali a cui demandare la propria responsabilità: l’individuo è auto-determinato, è legge a se stesso.

«Il suo pellegrinaggio attraverso il nichilismo è ab-solutus: sciolto da ogni certezza e, al contempo, libero da ogni pregiudizio».

Da queste premesse viene il ritratto globale di un intellettuale anarchico. Malaparte abita fino in fondo le contraddizioni della polis europea. È di nessuna parrocchia: né pifferaio della rivoluzione né caudatario dell’ordine costituito. Fluido, libero, libertino. Rivendica all’intellettuale il diritto di cambiare idea. È nemico del conformismo: cioè di quell’inerzia dello spirito che fa irrigidire le opinioni in convinzioni. Uomo ex lege, irriverente, impertinente. Denuncia le ipocrisie. Dice che il re è nudo, senza paura. Detestato infatti da opposte fazioni perché troppo libero: irriducibile. Polemico, mai pacificato. Non riesce ad acquietarsi in un sistema. Se ne ha uno, è l’antisistematicità permanente. Decostruisce i miti. Squarcia il velo delle falsificazioni. Rompe il cerchio dei pregiudizi, degli interessi, dei simulacri. Demistifica le storie della storia. Come quando – senza affatto nascondere: anzi evidenziando, della guerra, il caos infernale, il buio, l’orrore, il sangue, le viscere, il fetore di carni putrefatte – vede nella disfatta di Caporetto la rivolta dei “santi maledetti”, la protesta rivoluzionaria dei fanti che si ammutinarono contro la patria matrigna che li obbligava all’assurdo sacrificio. O come quando, con pungente ironia, parla dello “spirito femminile” di Hitler (scrive in Tecnica di un colpo di stato, 1931: «nella vita dei popoli, nelle grandi sciagure, dopo le guerre, le invasioni, le carestie, vi è sempre un uomo che esce dalla folla, che impone la sua volontà, la sua ambizione, i suoi rancori, e che “si vendica come una donna”, su tutto il suo popolo, della libertà, della felicità e della potenza perdute»). O come quando, ancora, denuncia e sbeffeggia l’eroismo praticato a bocce ferme nei caffè, la retorica post-bellica con cui si ammanta il carro – peraltro troppo affollato – dei vincitori, i voltagabbana per mero opportunismo, il conformismo antifascista, la prostituzione intellettuale, gli scrittori ex fascisti che «pretendono di passare per antifascisti, martiri della libertà, vittime della tirannia», e poi il gregge degli esistenzialisti parigini che si atteggiano a esteti marxisti, pensosi e tormentati «professionisti della libertà». Malaparte sembra godere nel rendersi sempre perturbante, sgradevole, “politicamente scorretto”. Abbatte pregiudizi, smaschera ipocrisie, fustiga la mancanza di autenticità (gli uomini del “si dice” che prendono per buone, senza approfondire, certe superficiali verniciature di pensiero).

Ma il cinico, blasfemo miscredente è riscattato dallo scrittore, dal sognatore. Crede, almeno, al potere creativo dell’arte. La scrittura ha un respiro universale: esce dai confini della storia e raggiunge l’essenza dell’uomo – se però consente al lettore di entrare in risonanza con le vibrazioni invisibili sotto la pagina: sotto la crosta del significato (logos), nella molteplicità raggiante del senso (mythos). Il pensiero moderno è, secondo Malaparte, malato di razionalismo: una prigione di ghiaccio. Il logos razionalistico discende da Cartesio, che Malaparte indica a mo’ di “colpevole”. Cartesio voleva instaurare il «paradiso della ragione»: ha in realtà creato soltanto l’«inferno della repressione». La razionalità è violenta: il mondo “assennato” è forzatamente pacificato, non pacifico. Senza magia, invece, non è possibile comprendere la realtà. La parola dello scrittore deve ritrovare l’origine perduta dell’immaginazione. Oltre il freddo pensiero calcolante, occorre la scintilla e la follia dell’arte barocca. Gli “anatomisti pazzi” del ‘600 frugano nella natura alla ricerca di una verità ulteriore. La luce non scaccia l’ombra ma la ingloba, la con-tiene. Trionfano gli ossimori: metafore della natura complessa dell’uomo, delle sue contraddizioni costitutive. Il riduzionismo è per definizione restrittivo ed escludente. Occorre uscire dalla prigione della ragione per unire realtà e magia, visibile e invisibile, noto e sconosciuto: un realismo non realistico ma magico, capace di sondare e rappresentare le verità superiori. L’essenza abissale dell’uomo. Il nucleo del senso, il ritmo centrale del pensiero. Nella dimensione del mythos i contrari non vengono risolti, ma convivono in equilibrio dialettico. La scrittura tiene acceso e aperto questo gioco ambiguo tra i contrari. Raccomanda Bontempelli: «raccontare il sogno come fosse realtà e la realtà come fosse sogno».

I regimi dittatoriali del ‘900 prediligono la sanità rassicurante del realismo realistico; guardano di conseguenza con sospetto, o con aperta avversione, al potere eversivo del Surrealismo, che vuole changer la vie: liberare l’uomo, scioglierlo dai lacci della società e dalle censure della coscienza. Malaparte introduce il Surrealismo in Italia, ed egli stesso non ne è estraneo come scrittore:

«il Surrealismo italianizzato di Malaparte non è solo uno stratagemma per fuggire dalla realtà. L’artista non si rifugia nella menzogna della fantasia per evadere dalla sua contemporaneità, ma lotta per accedere ad un ulteriore livello di realtà che gli è precluso. Indica il surreale nel reale per cercare una verità oltre i limiti della ragione».

Occorre ascoltare l’inascoltato che si rivela attraverso le visioni dei sogni: senza risolverli, senza interpretarli. La scrittura può così manifestare, come un prisma magico, le sfaccettature infinite dell’uomo. Ecco la moltiplicazione speculare dei piani, delle prospettive. La metamorfosi come forma di conoscenza reale delle cose: aderire all’alterità del mondo. Ecco, ancora, l’ossessione della morte come dimensione fluida di verità. L’artista deve proporsi la coincidenza degli opposti: restituire l’armonia profonda che lega le contraddizioni. Non censurare la complessità, anche se fa paura. Le storie di Malaparte sono “miti” frammentari e misteriosi come “cose della natura”: scene e immagini che si nascondono e vivono una dentro l’altra, quasi in un gioco di matrioska. Malaparte vuole inoltrarsi nella “selva oscura”, nel “cuore di tenebra” dell’uomo, nella notte del mondo. Non è il percorso rettilineo del soggetto cartesiano: è il viaggio tortuoso e periglioso del viandante apolide, è l’erranza infinita della conoscenza. A tal fine egli utilizza spesso l’ironia, che inverte i piani di rappresentazione mostrandoci il “doppio” e mantenendo aperte le contraddizioni (per questo risulta indigesta agli ipocriti). Malaparte capovolge le realtà che presenta, mostrandoci sempre una verità nuova o un aspetto ulteriore della medesima. Il lettore, così, è costretto a restare sveglio e attento, a rimettersi in discussione continuamente. Inutile chiedere a Malaparte semplificazioni, spiegazioni tranquillizzanti. L’artista non può più permettersi una funzione edificante: ride di un riso gonfio di dolore, e procede come un acrobata su di un filo sospeso dentro il buio. La scrittura è dissonante, accesa di furore, assurda, paradossale, ambiguamente allegra e crudele, sospesa tra la farsa e il dramma, la festa e tragedia. Ignorando la “decenza” del canone occidentale, Malaparte non esclude dal suo orizzonte creativo i segnali del ripugnante, dell’offensivo, del disgustevole. Affonda il coltello nelle viscere, scende all’inferno e guarda in faccia la morte. Lucrezia Ercoli, per questa estetica dell’orrore e della crudeltà, propone i riferimenti di Chateaubriand, Céline, Artaud, Francis Bacon. Nessun uomo è abbastanza puro, secondo Malaparte, per potersi permettere la pietà. Non c’è alcun vincitore morale cui aggrapparsi in un mondo che cade a pezzi: tutti sono colpevoli, anche gli innocenti. La peste, fisica e morale, che infetta Napoli ne La pelle è il simbolo di un’Europa in disfacimento. Lasciando emergere tutto il marciume dell’uomo, la peste diventa luogo metaforico di conoscenza tragica e di catarsi. È presuntuosa e tracotante ogni pretesa di razionalizzare il mondo in termini ideali: dinanzi alla storia siamo tutti vittime in disfacimento, tutti kaputt.

Saggio particolarmente organico, arioso, ben scritto, fulminante per sintesi e analisi, con “aperture” sempre puntuali e illuminanti sui “testi”, con cui entra in dialogo continuo, il libro della Ercoli traccia un percorso rigoroso e a sua volta spregiudicato attorno e dentro il continente-iceberg di questo intellettuale inquieto, scomodo e per lo più dimenticato. Le antologie lo ignorano; i manuali di letteratura italiana ne fanno rapidi (troppo rapidi) cenni. Giulio Ferroni, ad esempio, gli dedica “10 righe 10” in Storia della letteratura italiana. Il Novecento: «(…) fu un tipico rappresentante del fascismo aggressivo e rivoluzionario (…) le sue numerose opere rivelano di continuo frenetiche intenzioni provocatorie, con soluzioni difficilmente superabili di volgarità e cattivo gusto». Proprio dinanzi a certe sbrigative e tendenziose “liquidazioni” dovrebbe in realtà accendersi l’interesse del critico e del lettore intelligente. Che cos’è che viene negato, che cos’è che disturba ascoltare, e perché? Il saggio di Lucrezia Ercoli è meritorio, importante e ammirevole anche per questo.

Marco Onofrio

 

 

13 commenti
  1. A me pare che questa ricostruzione da parte di Lucrezia Ercoli della figura di Curzio Malaparte, così come ce la presenta Marco Onofrio, dica e non dica. E cioè si appiattisce sull’ambivalenza (innanzitutto politica) del personaggio senza spiegarla; e senza trovare nell’«altrove» a cui si appella una soluzione o un punto di vista migliore delle respinte e svalutate spiegazioni “ideologiche” ( « “Fascista” prima, “comunista” poi: chi era? e da che parte stava?»). O addirittura «l’essenza dell’uomo-Malaparte» .
    Perché cosa significa definire Malaparte « philosophe malgré soi», se non si entra nel merito di quella sua filosofia (inconsapevole? asistematica?)?
    Dire che « Malaparte è un campione del “nichilismo attivo”» non fa fare molti passi avanti. Mussolini non era anche lui un “nichilista attivo”? Non c’era a inizio novecento tutta una cultura che si abbeverava alla stessa fonte di Nietzsche? Non si rimane, comunque, nella cultura dell’irrazionalismo, senza uscirne?
    Pensare che «il nulla inquieta, però affranca. L’angoscia può dunque trasformarsi in liberazione, in ebbrezza del nuovo. Fa paura ma è bello, anche, sentirsi soli, senza dio, senza più regole date, al di là del bene e del male, pronti ad attraversare con gioia il faticoso deserto della libertà» è – appunto – rimanere in una visione tutta estetizzante delle cose. O a giocherellare con «l’essenza abissale dell’uomo», senza dire bene cosa sia questa essenza (e quale sia poi l”abisso”…).
    Malaparte avrà pure *goduto* « nel rendersi sempre perturbante, sgradevole, “politicamente scorretto”», ma, essendosi disfatto della ragione, che sarebbe (sempre?) «presuntuosa e tracotante», e non essendo riuscito a trovare *altre ragioni*, può solo aggrapparsi al «mythos» o alla scrittura, all’arte.
    Ma dinanzi alla realtà e alla storia si resta disarmati. Certo, «la scrittura tiene acceso e aperto questo gioco ambiguo tra i contrari», ma l’irrazionalismo di fondo (insuperato) di Malaparte lo porta a vedere nella storia solo il disfacimento. E poi «tutto il marciume» che egli vi vede lo attribuisce a un generico «uomo». Così arriva a soluzioni che possono essere soltanto assolutorie e qualunquiste: « dinanzi alla storia siamo tutti vittime in disfacimento, tutti kaputt». Troppo facile e falso. Perciò la critica di Ferroni, malgrado la sua “rapidità” o “tendenziosità”, a me pare individui bene questo limite dell’irrazionalismo in cui Malaparte resta confinato. Non è semplice negazione o banale rifiuto di “ascoltare” la voce scomoda, etc.

  2. A me sembra che Lucrezia Ercoli abbia il merito non trascurabile di aver proposto una riflessione di questo grande scrittore e il demerito, per quanto si comprende dal commento di Marco Onofrio, di non essere partita dai suoi scritti, come invece aveva promesso, ma dalle contraddizioni politiche in cui egli cadde. Partire dai suoi scritti, al contrario, sarebbe stato importante. Riflettere, ad esempio, su “La pelle”, riproporne la impietosa denuncia, l’efficacia descrittiva, l’acuta riflessione sul disfacimento della società post bellica in una Napoli illividita cinica, eppure pulsante, sarebbe stato essenziale. Curzio Malaparte è infatti un grande scrittore, come Ceine, che entra nella viva carne, che disturba e affascina, sovverte e denuncia.e come tale dovrebbe essere considerato. La politica alla politica, l’arte all’arte.

  3. “La politica alla politica, l’arte all’arte” (Renato Fiorito)

    Se significa che politica e arte non sono la stessa cosa, sono d’accordo.
    Se significa che in uno scrittore come Malaparte o lo stesso Céline ( ma la cosa vale per tutti, anche per quelli che dicono di fare solo arte) si possa mettere tra parentesi la sua esperienza politica, non lo sono. C’è un fortissimo legame (certo non meccanico) fra il Malaparte politico e il Malaparte scrittore. Quando ” entra nella viva carne” e “disturba e affascina, sovverte e denuncia”, lo fa in un certo modo ( e proprio perché viene – vengono se pensiamo anche a Céline – da una certa esperienza politica). E non è solo esperienza di guerra. Basti pensare a Tolstoj, a Nuto Revelli, a Rigoni Stern. Loro hanno un altro sguardo.

  4. Ho molto apprezzato il notevole scritto critico di Marco Onofrio che ha, tra gli altri, il merito di porre nella giusta luce un autore da me molto amato e frequentato a suo tempo negli anni in cui lavoravo all’Università di Perugia, da ‘La rivolta dei santi maledetti’ a ‘La pelle, e questo al di là di ideologismi e logiche di parte. Non a caso del resto nel testo è richiamato molto giustamente l’esempio di Celine… Forse la nosra Italietta letteraria non merita scrittori come Bontempelli, Malaparte, la Ortese come, a suo tempo non meritava un Leopardi (si pens anche soloi al paragone con Manzoni che ritorna anche in Sapegno ).
    Sabino Caronia

  5. Faccio notare a Sabino Caronia che anche la grandezza indiscussa di uno scrittore – nel caso Malaparte o Céline o altri – non è priva di *politicità*. Non li rende cioè neutri o *al di sopra di ogni sospetto*. In altri termini restano uomini che sono stati alle prese con le vicende della storia come tutti gli altri e che si sono schierati in vari modi dalla parte dei dominati o dalla parte dei dominanti (o hegelianamente: dei signori o dei servi). Insomma, anche se grandi o grandissimi, l’ossequio nei loro confronti non può divenire cecità.

    • Vorrei ricordare a Ennio Abate il bello scritto della Ortese che chiude “Il mare non bagna Napoli ” e che è intitolato “Il silenzio della ragione” a proposito degli intellettuali duri e puri! Andiamoci piano, per carità, con i Cardarelli fascisti e gli Ungaretti …, come sottolineava anche il mai troppo rimpianto Giacinto Spagnoletti. Ma sarebbe un lungo discorso che spero u di poter fare una volta a voce. Con certi parametri come la mettiamo con giganti come Alvaro, Silone o anche semplicemente con il mio prediletto Dessì?

      • @ Caronia

        Certi intellettuali ci sono andati così piano con i Cardarelli e gli Ungaretti fascisti o i Céline antisemiti o i Balzac monarchici da occultare e sublimare completamente i connubi spesso osceni tra letteratura e politica assolvendo i propri “prediletti” e coprendo con il velo della Grandezza le loro umanissime (certo) magagne. Grandezza letteraria che non metto in discussione, ma che voglio ancora e sempre più indagare per vedere – cosa decisiva se si vuole essere dei veri critici e non degli adoratori di Feticci Letterari – “di che lacrime grondi e di che sangue” anche la nostra amata letteratura.

    • Mi verrebbe da rispondere con le parole di Orwell a proposito di Auden in “Il ventre della balena” . Ma è un discorso serio e anrebbe fatto di persona. Per il resto io volevo solo sottolineare il diverso trattamento del povero Cardarelli a proposito delle sue tre infelici poesiole rispetto al grande Ungaretti. Ma così,come diceva ironicamente Pirandello, “non è una cosa seria”!

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