
Quasi una fantasia
Raggiorna, lo presento
da un albore di frusto
argento alle pareti:
lista un barlume le finestre chiuse.
Torna l’avvenimento 5
del sole e le diffuse
voci, i consueti strepiti non porta.
Perché? Penso ad un giorno d’incantesimo
e delle giostre d’ore troppo uguali
mi ripago. Traboccherà la forza 10
che mi turgeva, incosciente mago,
da grande tempo. Ora m’affaccerò,
subisserò alte case, spogli viali.
Avrò di contro un paese d’intatte nevi
ma lievi come viste in un arazzo. 15
Scivolerà dal cielo bioccoso un tardo raggio.
Gremite d’invisibile luce selve e colline
mi diranno l’elogio degl’ilari ritorni.
Lieto leggerò i neri
segni dei rami sul bianco 20
come un essenziale alfabeto.
Tutto il passato in un punto
dinanzi mi sarà comparso.
Non turberà suono alcuno
quest’allegrezza solitaria. 25
Filerà nell’aria
o scenderà s’un paletto
qualche galletto di marzo.[1]
Gli Ossi di seppia (1925) raccolta d’esordio montaliana in cui i paesaggi liguri vengono spesso incisi da uno sfolgorio d’estate, cesellati dalla sua impietosa, incandescente solarità, sorprendentemente accolgono (e condividono con i lettori) anche luci più tenui.
Raggi quasi d’argento ad esempio si dipartono, a schiudere un giorno nuovo, dalla prima strofa della lirica Quasi una fantasia (incerta è la data), appartenente alla sezione Movimenti.
L’accenno alla musica racchiuso dal titolo si tramuta subito in un’illusione visiva, che attenua in un lucore tutto d’alba – e quindi bianco – il ritorno del sole.
Una sorta di concorde sordina attutisce al contempo ogni intensità, cromatica e acustica, e le voci zittite paiono assecondare il riaffacciarsi di un sole che, illanguidito, somiglia più a uno stinto ricordo di sé che a sé:
Raggiorna, lo presento
da un albore di frusto
argento alle pareti:
lista un barlume le finestre chiuse.
Torna l’avvenimento 5
del sole e le diffuse
voci, i consueti strepiti non porta.
Si tratta di un sole d’inverno la cui luce stemperata avvolge e non trafigge più, e nemmeno svela, nitida e brutale, i contorni delle cose, bensì li suggerisce in un complessivo effetto di leopardiana vaghezza.
Sole in qualche modo lunare pur nel suo sorgere, questo sole ‘leopardiano’ non può che suscitare un processo immaginifico (la fantasia cui la poesia deve il titolo…), evocando un sortilegio che sospende il tedio di monotoni istanti:
Perché? Penso ad un giorno d’incantesimo
e delle giostre d’ore troppo uguali
mi ripago. Traboccherà la forza 10
che mi turgeva, incosciente mago,
da grande tempo. Ora m’affaccerò,
subisserò alte case, spogli viali.
Incantatore infine in grado di manifestare la propria forza, il poeta si volgerà dunque alla compattezza morbida del cielo e al fragile intrico dei rami, neri contro il bianco, con l’attitudine di un mitico eroe cui spetta il compito di sondare enigmi, dipanarne in parole chiare il significato, tradurne in sillabe umane le arcane segnature:
Lieto leggerò i neri
segni dei rami sul bianco 20
come un essenziale alfabeto.
Tutto il passato in un punto
dinanzi mi sarà comparso.
Tuttavia, prima che di dedicarsi a tale prova, egli assapora, nel silenzio, la contemplazione: «Avrò di contro un paese d’intatte nevi /ma lievi come viste in un arazzo» (vv. 14-15).
Il poeta modella qui con tocco leggero – il tocco dei sogni, il tocco di un mago – l’indefinita pensosità che lo assorbe, e ne sprigiona echi della civiltà cortese, di un Medioevo cavalleresco e raffinato. Non solo il rincorrersi delle ore (noioso e da sconfiggere) è definito «giostra» (il torneo nel quale i cavalieri si sfidavano, mostrando il proprio ardire per ottenere il favore dell’amata), ma il fondale di neve su cui il poeta posa lo sguardo è immacolato: leggero, tessuto quasi dai fili sottili di un arazzo.
Nella quiete bianca che funge altresì da scenografico rimando a un mondo perduto, costituito da amori, coraggio e cortesia (e l’esterno si trasforma nell’interno di un remoto castello, abbellito da preziosi drappi ricamati), Montale non solo avverte e decifra il sortilegio di cui si sente destinatario, ma lo realizza e compie grazie ai propri versi. Cavaliere refrattario alle «giostre delle ore sempre uguali» (v. 9) le vince infatti annullando il tempo in un candore senza tempo, in una neve senza età, quasi a emulare la perfezione sospesa del verso cavalcantiano che, nella sequenza di immagini del mondo tanto belle da formare un sonetto che è un plazer, insuffla il calmo respiro di una nevicata: «e bianca neve scender senza venti».[2]
Non c’è vento alcuno, nell’abbozzo di fantasia – un curioso giorno lunare – che Montale ci dona: prezioso, incantato e incantevole omaggio, contro l’arsura degli Ossi di seppia.
Non c’è alcun vento.
Nemmeno nel pensiero, nemmeno nel cuore.
Francesca Favaro
[1] Si cita, qui e in seguito, dall’edizione di Ossi di seppia commentata da Pietro Cataldi e Floriana D’Amely, con scritti di Pier Vincenzo Mengaldo e Sergio Solmi, Milano, Mondadori, 2024, pp. 35-37.
[2] Biltà di donna e di saccente core, v. 5.
[Immagine da https://www.repubblica.it/venerdi/2025/06/09/news/ossi_di_seppia_montale_100_anni_poesia_italiana-424657011/]



