Iniziano oggi ad Accettura le celebrazioni dell’antichissimo rito del Maggio, celebrazioni festose, immerse nei boschi e nello spirito di comunità, ma anche nella commozione della preghiera e della devozione. Omaggiamo così oggi anche noi le radici profonde di questa Festa.
MARIA GRAZIA TRIVIGNO (a cura di), AA.VV., Innesti (Poesie per il Maggio di Accettura), AnimaMundi Edizioni, Otranto (Lecce), 2024.
Rincuorano, libri come questi, capaci finalmente di aderire al mito, al sogno e alla mission assolutamente contemporanea del “green”, al rispetto per il regno vigente e pertinace della Dea Natura, ripercorso, ripensato e adempiuto anche con gli strumenti più sani, schietti e puri dell’arte e della poesia. Ecco infatti un’antologia – non banalmente agiografica, modaiola e retorica – legata alle voci selezionate e congiunte di un Premio lucano, quello che ogni anno celebra e s’intona al Maggio di Accettura. Maria Grazia Trivigno, cultrice delle radici e dei meriti della sua terra, ha suffragato e precettato la qualità di uno sguardo che è insieme di Storia e di Natura, cronaca esistenziale e divinazione ancestrale. E trova in degli ottimi versi il punto nodale d’attenzione a un rito che è certo antropologico-culturale, ma qui s’impenna e si distilla anche a cifra poetica, a sentimento del tempo, a “innesto” meritorio ed eclettico.
Sulla tecnica dell’innesto, cioè sulla funzione euristica degli Innesti, Franc Arleo, direttore della collana di “geosofia” che ospita questo caro libro, ha parole illuminate e decisive: «Innesti è il titolo di questo libro poiché le voci poetiche e le immagini che contiene danzano intorno ad archetipi arborei di una terra che ne conserva ancora pratica operosa e operativa.» Un’antologia perfettamente equilibrata tra esiti creativi, rivelazioni poetiche e riflessioni antropologiche, accensioni scientiste, qui colte e sorvegliate nel pieno rito del loro gemmare, fiorire di attenzione e dedizione: «Ed è certo che qui si travalica quel solo significato agrario per diventa innesto fra tralci di popoli e ceppi di fede che ne hanno curato la continuità, a dispetto della diversità di veduta, degli eventi e dei secoli cumulati alle spalle.»
Belle anche le foto qui rubricate, cesellate a futura memoria dal talento diacronico, dall’amore e dalle visualizzazioni folkloriche di Antonio Trivigno, che davvero ci fa dono di scatti e squarci indimenticabili di vita e lavoro, disciplina laica e offertorio di fede. Processioni e carri di buoi, arrampicate acrobatiche, virili gesta dei cimaioli sugli alberi; o il condurre paziente, devoto, nelle ceste incoronate sulle vecchie teste muliebri, di pane e cuori, canti alla zampogna ex voto di candele, nastri e fiori.
Ma la vera eccellenza di questa silloge è la messe ispirata di poesie, pagine «frutto di un cammino che parte da un luogo lontano,» – racconta Maria Grazia Trivigno – «a causa della sua inaccessibilità, arroccato nel cuore dell’Appennino lucano. Ma si tratta anche di un luogo lontano per la sua dimensione: ad Accettura accade ancora oggi che alcune tradizioni ancestrali trovino spazio senza affanno nel tempo della modernità».
La festa appunto del Maggio, ad Accettura (Matera), spiega Maria Grazia è un «culto arboreo millenario che vi si celebra ogni anno a primavera e ammantato di devozione per il santo patrono Giuliano, a cui il premio letterario L’albero di rose è dedicato dalla sua fondazione nel 2016.» Premio non solo idealmente dedicato al grande poeta/ingegnere Leonardo Sinisgalli, genio lucano di squisita, ammirevole poliedricità.
Tanti i poeti bravi, le liriche memorabili qui accolte, ospitate a futura memoria. Ora, in rapida sintesi sorvolante, ci piace almeno testimoniare “il matrimonio dell’albero” di Donato Loscalzo: «un agrifoglio su una quercia / sfida l’azzurra vertigine del cielo / così in alto che a fatica con lo sguardo / cogli la solitudine dei rami / nel primaverile vortice del vento». O, con la stessa verve coniugale tra Tempo e Natura, il “Matrimonio lucano” di Fernando Della Posta: «L’anello del cerreto / al dito dell’agrifoglio». Ma anche l’importante omaggio, genuflessione al “Matriarcato” di Valeria Vecchié: «Nelle notti di maggio, al plenilunio / noi sole donne saliremo al monte / fino al bosco ove il biancospino / forma la triade, cara alla Dea.» E nondimeno la riflessione su “Mater Matera” di Geltrude Consalvo: «Il luogo natio ti resta nell’anima, / modella il tuo io / e guida i raminghi nel mondo. / Sempre torno a rifugiarmi/ tra le ferite dei calanchi, / e le morbide pietre mi lasciano posto in un’eterna attesa.»
Sguardo che va, e poetica che trovi. Ecco “Il rito di maggio”, così come l’incornicia lo sguardo neoclassico di Paolo Carlucci: «Un nodo sacro / dolce di spine / il cantiere delle rose.» Ed egualmente, l’ampia, profumata e ariosa elegia di Gino Rago, “Mulinelli di zagare all’alba”: «Fatelo sapere alla Regina, ditelo / anche al Re: non abbiamo bisogno / di niente, né per la carne viva / né per lo spirito del tempo. / Siamo ricchi di noi, / dei profumi del sole nelle primavere.» Discorso felicemente a parte per i versi in dialetto di Vincenzo Mastropirro: «So capòte u chelàure gialle. / A ìdde appartìénghe pe’ tutte u maise de mosce»… «Ho scelto il colore giallo / A lui appartengo per tutto il mese di maggio».
Le ultime, intonate liriche di questa provvida e struggente cornucopia, incorniciano i “Patriarchi della memoria” di Francesco Palermo: «Dai cavi tronchi d’ulivo / vibrò un vento nuovo sul sonno di questa terra aspra»… Poi “La quercia” di Monica Baldini: «La sentivo robusta mi / apparteneva come il seme / ad una pianta / la sua forza / il tronco imponente / invincibile.» O l’ulivo nero di Francesco Cagnetta: «Sono l’ulivo nero / su cui germogliano le prefiche, / la casa di un dolore vegetale.» Mentre le “Vedute” di Lucio Macchia, sono pennellati filosofemi velatamente concettuali: «Le chiome s’uniscono, in tetto d’aghi, / un tutt’uno esteso, libero da cretti, / un fluire di velami, un coprire. / E su tutto, in sghembe braccia / tese, il sole, obliquo, ricade».
È una Natura tutta, sommossa e vitale, dove, sontuosi e impervi, regnano “Abeti rossi, vento forte” (così registra Tiziano Broggiato): «un presepe scheletrico su / una distesa di zattere rosse.» Il mandorlo” di Enzo Bacca, pare invece interpretare un ruolo esimio da bell’attore cinematografico, da divo piacente («E ti ricorderai del mandorlo sull’argine. / Prima – dicevi – prima che i fiori / lascino il bianco per l’avorio / e poi il verde a rivestire i rami, / prima dell’ocra verso sera, gli stami al frutto»).
Ma in un’antologia dove contano soprattutto le sfumature, le nuances, andrebbe detto, arcane e ancestrali… Ecco allora che “Le anziane lucane” di Luciano Nota, animano i quadri, le sequenze antiche e sempre nuove di un film che parte dal neorealismo del bianco e nero, ma via via proprio dai racconti dei versi e dal suo fitto, infibrato rito d’anima, ritrova, abbraccia i più tremuli, fieri e devoti colori umanati: «Le puoi ancora incontrare / con bluse rammendate e scialli neri / poggiate agli usci delle case. / Col santino nel grembiale / parlano ligie dei figli lontani / limano con cura i grani dei rosari.»
Plinio Perilli





