
Su Polifema di Gabriella Cinti (Edizioni Progetto Cultura 2024)
Chi ha visto i giardini labirintici di alcune ville venete, e non solo, conosce la sensazione inebriante dell’inoltrarsi tra giochi d’acqua, fontane, statue, grotte artificiali e vialetti, ma anche il senso di smarrimento, di ansia, di paura di perdersi e di non ritrovare più l’uscita. La sensazione è quella di un senso di sprofondamento in sé.
Ebbene, la lettura di Polifema offre al lettore la percezione di uno smarrimento nei ricordi, sospesi fra un vissuto forte e lacerante con Giorgio – il ragazzo della sua giovinezza, l’uomo ritrovato nell’età matura – e le meditazioni di Marzia, la Polifema del libro; una lettura capace di immergerci in un vero e proprio inabissamento sentimentale ed esistenziale.
Il romanzo può diventare un’occasione salvifica e catartica e non solamente per una donna; esso, infatti pone il lettore al cospetto del “femminile” che risiede nelle profondità di ciascuno di noi.
Polifema, Euridice discesa in una terra desolata, accecata d’amore, è presente, prorompe con forza attraverso la sua parola che “può” oltre ogni regola, oltre ogni confine, ogni pensiero precostituito.
Nel labirinto in cui possiamo perderci, il tempo e lo spazio sprofondano negli accadimenti e nell’anima di Marzia. Il suo innamoramento sconfinato, idealizzato, l’immagine paradisiaca sempre pronta al sopravvento sulle delusioni e gli inciampi che il suo lui le frappone, sanno travolgere il lettore. La protagonista del romanzo mitizza Giorgio; per lungo tempo essa lo incastona in una dimensione di bellezza, pur se con la maturazione di un graduale passo verso il dubbio e lo smascheramento.
Marzia prova difficoltà a riconoscere l’aspetto reale del “piccolo uomo” che ha di fronte, non vuole vederne l’inconsistenza. Per gradi riesce a dire a se stessa che la scarsità di parola “verticalizzante” di Giorgio, durante i loro incontri, è indicativa di una debole coscienza identitaria con cui lui si percepisce; incerto anche a riconoscere i segnali di fragilità della propria personalità, allorché si rifiuta di affrontare gli “inciampi” della vita, forse per indolenza, o per non volere scontrarsi col fastidio e il malessere procuratigli da una scelta dolorosa, anche solo circoscritta a progetti di “breve gittata”, insieme a Marzia.
La mente della nostra Polifema, pur se intelligente e brillante studiosa, manca di capacità di ragionamento chiaro e lineare ogni volta che si trova a vivere momenti di intensità con l’uomo che ha decretato essere apparso nella sua vita per un volere superiore. Il primo incontro con Giorgio avviene infatti il 21 giugno, giorno di solstizio, di passaggio, di cambiamento, “tempo di culmine, codice di accesso al destino”. Smarrirsi, dunque, disorientarsi, giungere a una lenta consapevolezza, al raggiungimento di un pensiero chiaro e lucido sulla realtà idealizzata, travestita, falsante: questo è ciò a cui il lettore giunge, dando la mano al cammino di Marzia.
L’idea dell’amore adolescenziale ci riporta a Kore, (Persefone), che rappresenta la nostra anima fanciulla; e Marzia vive appunto nell’eterna dimensione dell’amore assoluto, amore che necessita di essere tangibile con un “per sempre”, un due uguale a uno, una perfetta simbiosi di anime diverse e combaciabili. Marzia si inabisserà in nome di un sogno sponsale, così a ripercorrere il destino di Persefone sposa del dio degli Inferi.
È una scia di cometa l’Adolescenza, essa risale dal tempo e si incastona nell’età matura di Marzia e Giorgio.
Nella sua trasvolata in questo cielo terreno di adolescente – per lei mappa di stelle tra occhi, cuore, psiche – onirico e surreale convivono. Un oltre fatto di segni favolistici e fiabeschi, tessuti dalla mente e dall’immaginazione dei bambini, impastato di visioni di carri trascinati da animali fantastici, in cammino verso un cielo inesistente.
Il primo amore riemerge dalle profondità sotterranee di epoche remote; in Marzia sono memoria risalita, gesti ritrovati, parole sussurrate e gridate, apparizioni di immagini rivissute attraverso il ricordo dell’esplorazione sinestetica dei sensi. Adolescenza e maturità oscillano lungo un asse dove Giorgio e lei ragazzi diventano la proiezione di bruchi esplosi in farfalla quando, per occasione, molti anni dopo la loro separazione, si rincontrano e danno cominciamento a una storia antica eppur nuova.
Immersione orfica della protagonista del romanzo alla sola rievocazione di quel tempo, ritrovato dopo anni. Tempo di purezza ideale, insito nel seme del primo incontro d’occhi, di parola, di gesto, durante una festa, a Lucca, “in un antico giorno d’inizio d’autunno”, tra strade buie, misteriose, propizie agli “appuntamenti amorosi”.
Quell’antico ritrovato si rivela necessario per dare completamento a un disegno di fisionomie scomposte. Riconoscersi l’una nell’altro in un momento di intimità travalicò il mero contatto fisico per divenire ebbrezza e pienezza della dimensione terrena; misticismo, slancio dell’anima oltre la sfera materiale, oltre la misura delle pulsioni del corpo, “trampolino” verso il divino, sensualità e slancio mistico al contempo.
Ma tra Polifema e Giorgio esiste un solco profondo, una differenza invalicabile perché, per raggiungere cieli sovrastanti la volta terrena, bisogna essere di fattura rara, sensibile alla bellezza vera, alla Bellezza Assoluta quella che si schiude all’anima che sa accoglierla.
E Marzia è una creatura rivestita di luminosità, ricevuta per un’adesione totale alle leggi dell’Olimpo.
Sa che in lei convive l’anima delle divinità olimpiche, anzi, ne avverte l’essenza. E a riprova di ciò, attribuisce all’incontro con Giorgio valore di mistero, qualificando di atemporalità la conoscenza con lui, l’uomo apparso nella sua vita per una congiuntura astrale voluta dal fato.
La sua espansione verso l’Assoluto spesso porta con sé gli indizi di un mondo cantato dagli aedi e dai rapsodi; Marzia svela, nella citazione di divinità tratte dal mondo classico, di riferimenti alla lingua greca, di narrazioni mitiche e di personaggi del mondo tragico, l’animo di una rabdomante trovatrice di memorie collettive a cui attinge naturalmente, impasto di uno spirito eroico e sublime formato già dai tempi adolescenti, nello spazio dedicato all’ascolto dei racconti materni.
Il labirinto verticalizzante, si diceva.
I capitoli del romanzo si snodano in scie di tempo e di pensiero, di azione e di istanti interiori, di incontri brevi, vissuti con intensità ma appena bastevoli a fare sorgere una nostalgia dettata da un vuoto, e una sensazione di malinconia in divenire per un vivibile mai realizzato.
Giorno e notte spesso si alternano secondo un ritmo ossimorico: il tempo in cui si vive, gioco forza, con i sensi, il controllo della ragione, l’abbandono notturno, in cui prevalgono la dimensione dell’irreale, dell’immaginario, del visionario.
Dea della luna, viaggiatrice attraverso il cielo notturno, come Khons, divinità egizia che promette la guarigione, o Kore (Proserpina) degli Inferi, Marzia scende nelle profondità della sua essenza, quasi a volere esplorare, per poi conoscere, quei rami annebbiati, oscuri di se stessa e poter riemergere, alla fine di un lungo viaggio, con una nuova vista, non più Polifema, non più accecata d’amore; Marzia che esorcizza le ombre della storia narrata, che genera un’altra sé ma libera da fantasmi, consapevole della sua sudditanza, ormai superata, a un’idea di amore creata nella sua mente da adolescente e tenuta viva per essere consegnata in età matura.
Per la nostra Marzia – Kore la notte costituisce un ottimo approdo per rendere libera quella parte sommersa di sé.
Nella discesa delle sue notti, Marzia ridisegna la vita ma incontra anche figure oscure in cui si specchia. Eppure abitare quelle profondità di tenebra, non le dispiace, dopo avere morso il frutto dell’amore, o meglio, di quello che lei ritiene essere amore.
Ma il cammino negli Inferi avviene oltre che di notte anche di giorno.
Il viaggio notturno di Marzia, nel momento del sonno, si sposta, infatti, tra universi in movimento; si tratta di un viaggio in terre promiscue che dà all’ “atterraggio” del mattino, molto spesso, il senso di alienazione, di incertezza, di panico; il nuovo giorno appare così un nemico da cui doversi sempre guardare alle spalle.
Ci si chiede se il malessere del risveglio e del giorno siano dovuti a una condizione di frustrazione profonda, connessa al rapporto con Giorgio; in Marzia l’amore è quello con la A maiuscola, un amore che vuole avere durata per intensità, oltre ogni sfida terrena perché è un amore di altra fattura, non ha, a nostro avviso, neppure connotazione divina, quella delle divinità femminili capricciose e volubili. Marzia sembra appartiene piuttosto a Radha, divinità indiana, “Dea dell’anelito romantico e degli amanti disperati”, dominata dalla passione e dal desiderio eterno verso colui che ama.
Nella mente e nella profondità dello spirito della protagonista, si viene a creare così un’aura “celeste” che di terreno non ha proprio nulla, perché quando accadono, e sono rari, eventi del genere, “si diviene figli degli dei, semidei, semi umani”.
Ecco perché “l’Amore vero è come il Mito”, dirà Marzia, dà avvio ad una nuova era, rompe l’intransigenza del tempo lineare per riattraversare nel contesto umano “la storia dell’origine”.
Marina Agostinacchio



